Messaggero Veneto domenica 6 giugno
DOMENICA, 06 GIUGNO 2004 Pagina 1 - Prima Pagina EDITORIALE L’IMPRESA NON PUO’ ATTENDERE di SERGIO BARALDI Sarà un caso, ma sul limite dello scadere del primo anno di governo della giunta Illy, gli imprenditori friulani pongono sul tavolo con una chiarezza inusuale la questione dello sviluppo. Sarà un caso, ma forse non lo è. Per mesi l’Associazione degli industriali di Udine, ma anche le altre, ha accompagnato con benevolenza l’insediamento, il rodaggio e poi l’assestamento del primo presidente eletto direttamente dai cittadini. Il documento firmato da Giovanni Fantoni ora si segnala come un tentativo di aprire il confronto su basi nuove. Finora gli industriali erano rimasti a guardare i primi passi del centro-sinistra. Adesso cambiano tono. Non sono certo passati all’opposizione: l’associazione è per vocazione pronta a collaborare con chi viene scelto dagli elettori e Fantoni, con la sua prudenza, non smentisce questa tradizione. Ma sarebbe un errore non registrare la novità del documento reso noto dal Messaggero Veneto: esso indica una maggiore distanza dall’esecutivo regionale. Fantoni non sembra mutare l’atteggiamento di Assindustria da positivo a negativo, ma segna la sua autonomia. Che cosa ha spinto l’Associazione industriali a rendere pubbliche le sue preoccupazioni? Forse la percezione che due contrastanti tendenze si stanno consolidando. Da una parte, la stagnazione economica nega un orizzonte certo di ripresa alle imprese, come ha osservato appena il giorno prima uno dei più considerati imprenditori friulani, Alessandro Calligaris. Ma a inquietare ancor più gli imprenditori, forse, è la perdita di competitività del sistema Friuli-Venezia Giulia nel suo complesso sui mercati mondiali. Un arretramento sentito ogni giorno di più, che sta provocando difficoltà, fa emergere le prime aree di crisi e che rischia di far arretrare l’intera società. Non solo l’economia non gira bene, ma il sistema produttivo regionale appare in affanno, stenta a recuperare posizioni. Dall’altra, c’è la lunga attesa delle mosse del governo regionale, che non sembra conclusa: le scelte tardano a essere definite. Illy, Bertossi, il centro-sinistra hanno sì fornito qualche indicazione su quello che vorrebbero fare. Ma, appunto, si tratta di indicazioni che non si traducono ancora in una politica industriale coerente, organica, condivisa. Se si guarda allo scenario che il sistema produttivo regionale deve affrontare, la questione della crescita dovrebbe essere posta al primo punto dell’agenda politica regionale. Potrebbe diventare la nuova priorità istituzionale. Ma se si volge lo sguardo verso la Regione, sembra quasi che sul fronte dell’economia si viva un’aspettativa permanente di decisioni che non arrivano. In compenso si commissionano studi che rimangono nei cassetti, se ne ordinano altri che costano. L’urgenza di una competizione che si fa più dura cozza con la sensazione che il governo regionale fatichi a trovare un’identità riformista su quello che dovrebbe essere il tema pubblico centrale. La verità è che il nostro sistema industriale si scopre fragile. L’economia reale reclama di tornare al centro dell’attenzione, perché comprende che la perdita di competitività nasce dalla carenza d’innovazione e dalla perdita di produttività nelle fabbriche, ma anche nel sistema regionale. I timori delle imprese sembrano alimentati da un’idea di fondo: la crisi è strutturale, il modello di sviluppo del Friuli sta vivendo la sua fase più matura. E dovrà essere sostituito con uno nuovo, la cui evoluzione tuttavia non è neppure abbozzata. La frontiera sulla quale la regione sembra inchiodata è questa: la capacità di dotarsi di una strategia che tenga conto dei cambiamenti e tenti di governare una forza, la globalizzazione, che altrimenti si manifesta comunque. È la crisi di alcuni suoi capisaldi ad avvertirci che il modello del Friuli è seriamente sotto pressione. Innanzi tutto, i distretti non riescono a ripetere il miracolo del passato, quando hanno consentito di generare economie di scala di sistema diverse da quelle d’impresa. Questa virtù ha fatto parlare delle imprese a rete come dell’alternativa al modello “fordista” e, in generale, al capitalismo delle grandi e medie imprese. Nel frattempo è mutato l’orizzonte mondiale: con l’euro il tasso di cambio non è più debole, non è in grado di supplire alle nostre carenze nella competitività internazionale del prezzo-costo. I distretti incontrano problemi crescenti, sono alle prese con una difficile trasformazione. Non sembrano funzionare più come sostituto delle imprese medio-grandi con il pregio di restare piccoli. La ragione, spiega Fabrizio Onida nel suo interessante libro Se il piccolo non cresce, è che la concorrenza internazionale obbliga le aziende al passaggio da una strategia di pura esportazione a quelle di insediamento e radicamento nei mercati, che implicano distribuzione, servizio al cliente, rete di agenti, difesa del marchio, conoscenza, tecnologia. Con i conseguenti costi finanziari. Mostra i suoi limiti anche il modello a stretto controllo familiare delle aziende. Il che non vuol dire affatto che sia condannata la proprietà collegata a famiglie. Anzi, i Ford, Wallemberg, Porsche, Quandt, Bill Gates sono lì a testimoniare il contrario. L’anomalia sta tutta nella concentrazione della gestione, da affidare al management, e del controllo e dell’indirizzo, che spettano alla proprietà. Il manager esterno è più un esecutore della volontà proprietaria che un professionista autonomo e responsabile. Questa tensione sulla gestione dell’impresa tra la famiglia, condizionata dalla necessità di garantire l’assetto proprietario, e il management, proiettato a creare valore, è spesso un altro freno alla crescita dimensionale dell’impresa. Un terzo elemento di rallentamento è proprio la dimensione ridotta delle imprese. È passato molto tempo da quando Schumacher, nel 1973, attaccò in Piccolo è bello la cultura del gigantismo. Oggi quell’ottimismo si è molto attenuato. La concorrenza mondializzata e la scomparsa della lira debole hanno spietatamente messo a nudo gli svantaggi del “nanismo”. Infine, l’elemento chiave: la scarsa propensione all’innovazione, alla ricerca, alla formazione del capitale umano è un vincolo dagli effetti negativi sulla crescita. Questi dati, spiega Onida, sono intrecciati fra loro: se il modello di specializzazione internazionale del nostro paese e della nostra regione non evolve verso produzioni a più alto contenuto tecnologico, non cresce la domanda di innovazione e di lavoro con alto grado di istruzione e di preparazione tecnica. Aveva ragione Schumpeter, secondo il quale la dimensione dell’impresa condiziona lo sforzo d’innovazione, che a sua volta è il motore della crescita. Il sistema produttivo friulano si trova a dovere scegliere tra un’innovazione a basso grado di intensità o che assembla e migliora innovazioni altrui, che lo spinge a difendere nicchie di mercato, nicchie di prodotto e fasce di prodotto, e la ricerca di un posizionamento competitivo sulla linea dei concorrenti più avanzati dal punto di vista organizzativo e tecnologico. Come pensa la Regione di affiancare il sistema delle imprese impegnato in un’avventura la cui posta in palio è il dinamismo dell’economia e la ricchezza collettiva? C’è un percorso comune tra istituzioni e parti sociali per creare quella coesione indispensabile per rinnovare, rilanciare e rendere attrattivo il modello Friuli? Quali sono i servizi, le infrastrutture, la logistica, la normativa di sostegno allo sviluppo delle imprese? Quali risorse intende mettere in campo e dove pensa di reperirle? In sintesi: dov’è la politica industriale che dovrebbe aiutare l’intera società regionale a governare questo difficile passaggio di fase? Sospesa nel limbo dell’indecisione. Forse più che le analisi, che abbondano, servirebbero proposte operative che diano risultati entro la legislatura. Ma non è contraddittoria una Regione che pensa di spendere 30 milioni di euro (circa 60 miliardi) per il comparto unico della burocrazia regionale secondo i conti dell’assessore Jacob, 100 milioni secondo la Corte dei conti? Non è un errore investire sull’amministrazione pubblica senza una reale garanzia di accrescerne la produttività e l’efficienza, sottraendo stanziamenti che potrebbero essere destinati alla competitività del sistema regionale? Qui c’è il rischio di un restringimento della base produttiva e gli orientamenti della giunta Illy non sono chiari. Il Friuli ha le energie per dare soluzione a questi problemi. La nostra regione ha saputo trasformare un terremoto catastrofico in un’occasione di rinascita civile. Abbiamo motivi per avere fiducia. Ma per recuperare un ruolo attivo, imprenditori e cittadini non bastano. Sono indispensabili altri due protagonisti: una guida autorevole capace di trovare una sintesi degli interessi e dei bisogni e di indicare la direzione; e una politica che concluda la sua vacanza e diventi imprenditrice di idee. La leadership dovrebbe essere quella di Illy: nessuno ha mai avuto i poteri che ha il primo presidente eletto direttamente. La maggioranza è stabile. Devono solo fare ciò che dicono di volere. Se ci sono idee per politiche che costruiscano un futuro credibile, le mettano all’opera. Le istituzioni hanno un compito decisivo nella modernizzazione. Altrimenti, il cambiamento procederà ugualmente. Ma la selezione la farà il mercato. Con i suoi vincitori, i suoi sconfitti e le conseguenze sulla ricchezza collettiva.
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