santo falso nella sua storia...
28/12/2001
L'irresistibile ascesa dei Muccioli Nata nel '78 la comunità di San Patrignano è cresciuta all'insegna del recupero dei tossicodipendenti "con ogni mezzo" G.R.B.
La "prima pietra" della futura comunità di recupero per tossicodipendenti più grande d'Europa fu posta nel 1978, quando il fondatore Vincenzo Muccioli accolse i primi ragazzi in fuga dall'eroina in una casa di proprietà della sua famiglia sulle colline di Rimini. Un tipo in gamba, Vincenzo Muccioli. Con il suo carisma, il suo talento imprenditoriale e le sue idee chiare ci mise poco a diventare il massimo rappresentante in Italia della guerra alla droga. Giancarlo Arnao descrisse così i fondamenti del Muccioli-pensiero: "L'ideologia di base di San Patrignano è che tutti i consumatori di droghe diventano tossicodipendenti e che tutti i tossicodipendenti muoiono. Le persone che vanno a San Patrignano sono 'salvate dalla morte'; pertanto, ogni mezzo è lecito per liberarle dalla droga". Che l'espressione "ogni mezzo" andasse presa piuttosto alla lettera fu chiaro abbastanza presto. I primi incidenti rivelatori si verificarono già nei primi anni di esistenza della comunità e culminarono con un processo, nel 1984, nel quale Muccioli era accusato di avere usato delle catene per "aiutare" alcuni "ospiti" a fronteggiare le crisi di astinenza. Lui ribatteva, attaccando, che "quando ci vuole ci vuole" e con questo argomento convinse buona parte dei mass-media e anche di più l'opinione pubblica. Così, anziché ricevere una sanzione in base alle leggi vigenti, i metodi rudi di Muccioli diventarono popolari. Nel frattempo, San Patrignano cresceva a vista d'occhio. Gli ospiti della comunità erano 200 nel 1982 e diventeranno 1.600 nel 1993. Intorno a loro e grazie a loro cresceva di pari passo il volume d'affari aziendale, perché parte integrante del percorso di recupero era ed è il lavoro. Per finanziare il suo progetto di redenzione, Muccioli avviava un'attività economica dopo l'altra (dall'artigianato all'allevamento di cavalli e cani di razza alla produzione vinicola), mettendo a frutto i suoi innegabili successi di operatore privato anche per polemizzare con l'assistenzialismo inefficiente e permissivo offerto ai tossicodipendenti dai servizi pubblici. Il modello San-Patrignano, nemico giurato del metadone, della legalizzazione della cannabis e di qualunque altro compromesso con la realtà contemporanea, diventò a poco a poco, nella mente di Muccioli e dei suoi estimatori, la sola ricetta valida per risolvere il problema della tossicodipendenza. Va da sé che a questo punto il terreno su cui lottare era quello politico. Muccioli non si tirò indietro e nel corso degli anni '80 consolidò importanti legami in questo campo. Il più importante di tutti, almeno dal punto di vista delle conseguenze, fu quello con il leader del Psi Bettino Craxi. Fu Craxi a volere la legge che nel 1990 reintrodusse la punibilità del semplice consumo di droghe e fu Muccioli che lo ispirò e lo sostenne strenuamente, salendo con questo all'apice del successo. La filosofia su cui si fondava l'intervento del governo in materia di droghe era ormai sempre più simile alla sua, a cominciare dalla netta preferenza verso il recupero dei tossicodipendenti in strutture chiuse anziché attraverso percorsi meno separati dal resto del mondo. Nel 1993, però, il modello-San Patrignano si trovò di fronte a una vicenda che rischiava di mandarlo in pezzi. Si riaprì infatti il caso della morte di Roberto Maranzano, un ospite della comunità trovato morto in circostanze mai chiarite nel 1989. Quattro anni dopo si scoprì, grazie alle rivelazioni di alcuni giovani, che Maranzano era stato ucciso all'interno della comunità a causa di una "punizione" troppo pesante, che il suo corpo era stato trasportato da Rimini a Napoli su un'auto della comunità e là abbandonato per sviare i sospetti. Si scoprì poi anche che Muccioli era al corrente della cosa e che non aveva denunciato i responsabili. Questo comportamento gli costò, con la sentenza di primo grado del 20 novembre 1994, una condanna a otto mesi (pena sospesa) per favoreggiamento personale. Qualcuno disse che se l'era cavata con poco, ma Muccioli parlò di persecuzione ai suoi danni. Anche da questo pasticcio, però, la comunità uscì senza troppe ammaccature. Tutto era già dimenticato quando Muccioli morì di malattia il 20 settembre 1995. L'opera del fondatore si è dimostrata così solida da consentire a suo figlio Andrea di prendere le redini e seguire le orme paterne. Dopo un relativo Purgatorio, coinciso con il governo del centrosinistra, la stella di San Patrignano e tornata a splendere oggi più brillante di prima.
Il Carcere di San Patrignano
Privatizzare le carceri è possibile? Certamente, soprattutto se a vincere l'appalto è San Patrignano. Se è naturale che questo governo segua le fallimentari scelte di privatizzazione della detenzione attuate in Inghilterra, è altrettanto naturale che l'appalto finisca agli amici degli amici.
E chi meglio di San Patrignano puo' gestire un carcere per tossicodipendenti? Il ragionamento non fa una grinza, dobbiamo ammetterlo. Anche per questo è necessario bloccare quest'operazione. Just say No è l'appello agli operatori promosso dalla rete "la libertà è terapeutica" per non essere complici di questa operazione.
08.01.2002
Se il modello è San Patrignano
LUIGI MANCONI
Non è esagerato affermare che l'affidamento a San Patrignano della prima "comunità di Stato per detenuti" costituisce un segnale politico – e, soprattutto, culturale – chiarissimo. Un messaggio "ideologico", si dovrebbe dire, preceduto da un altro messaggio, altrettanto esplicito: ovvero la trasmissione di "Domenica In" dall'interno della stessa comunità, lo scorso 23 dicembre. Quella che è (meglio: che era) la Grande Cattedrale del senso comune nazionalpopolare – la trasmissione domenicale di Rai1, appunto – viene chiamata a santificare la comunità della famiglia Muccioli. Santificare in senso proprio: ovvero celebrare solennemente San Patrignano come ente taumaturgico e fonte di salvezza per i "poveri drogati". La storia della comunità di San Patrignano è lunga, tormentata e, a tratti, drammatica: come quella di tutte le esperienze che hanno a che fare con il dolore umano, che lo "trattano" e che, nelle forme più diverse, lo vogliono lenire e, addirittura, curare. San Patrignano ha conosciuto molte traversie e alcune pagine nere; ha ottenuto estesi riconoscimenti mondani e politici – decine di ministri di più governi l'hanno omaggiata – e controversi risultati terapeutici. Se la domanda fosse: "ha salvato qualcuno dalla droga?", la riposta dovrebbe essere un netto sì. Anche se – e il problema riguarda, beninteso, tutte le comunità — è difficile valutare, con criteri scientificamente attendibili, il tasso di successo e, per contro, la percentuale di recidive (tra quanti vengono considerati "usciti dalla droga"). Ma, ovviamente, non è questo che rende la comunità dei Muccioli oggetto di periodico conflitto: è, piuttosto, il fatto che su San Patrignano è stata costruita una vera e propria ideologia e che, oggi, quella ideologia sembra diventare cultura di governo. Una cultura solidaristicoautoritaria, dove s'intrecciano punizione "a fin di bene" e paternalismo istituzionale, pedagogia giudiziaria e disciplina familiare, intransigenza pubblica e controllo sociale. Alla base c'è, appunto, una concezione autoritaria della solidarietà, dove la preoccupazione per l'interesse collettivo è ridotta a difesa della sicurezza (sacrosanta, com'è noto, ma non sufficiente); e la solidarietà verso il tossicomane si traduce in un meccanismo di interdizionecoercizione. Il presupposto è che il tossicomane sia un individuo incapace di intendere e di volere, di cui si può perseguire la "salvezza" anche senza il suo consenso e contro il suo consenso; e che, dunque, la sola strategia efficace sia quella che surroga la volontà del tossicomane, ne inibisce la residua autonomia, ne assume la piena tutela, sostituendosi a esso. Una frase terribile, pronunciata qualche tempo fa da don Benzi («il drogato deve toccare il fondo per trovare la forza d'uscirne»), riassume efficacemente quella concezione della personalità, e delle sue patologie, che ispira il lavoro di San Patrignano e di altre comunità: e sintetizza un'idea di relazioni sociali e di processi formativi, riassumibile, appunto, nel solidarismo autoritario. Questo – e non certo una particolare "cattiveria" di Vincenzo Muccioli — spiega i metodi violentemente coercitivi, che originarono le tragedie avvenute a San Patrignano tempo fa; e ancora questo spiega, oggi, l'ostilità di Andrea Muccioli, e del ceto politicointellettuale che lo sostiene, nei confronti della strategia della "riduzione del danno". Quest'ultima, infatti, parte da una premessa esattamente opposta: ovvero dall'idea che nel tossicomane sopravviva una qualche capacità di autonomia (poca o molta che sia) e una qualche capacità di scelta (poca o molta che sia). Ne conseguono politiche sociali – adottate anche da molte comunità — che hanno come primo obiettivo quello di tutelare e incentivare le risorse di indipendenza e di "libero arbitrio", che resistono anche nel tossicomane. E ne derivano metodiche e terapie finalizzate a mettere il tossicomane nelle condizioni di non morire; e di sottrarsi, dunque, all'alternativa secca: o l'astinenza o l'eroina di strada. È questa la precondizione affinché, in un altro luogo e in un altro momento della sua vita, quel tossicomane possa smettere di drogarsi. Come si vede, si tratta di due concezioni della terapia (ma anche della persona e della sua tutela) radicalmente diverse. Da molti anni – questo è il punto — è in corso il tentativo di privilegiare e di rendere egemone la strategia riassumibile nell'esperienza di San Patrignano. Sotto il profilo scientifico, sarebbe una vera sciagura: in tutto il mondo gli approcci alle tossicodipendenze sono molti e differenziati. Altrettanto in Italia, dove il "modello San Patrignano" rappresenta solo una, e assai minoritaria, esperienza. Non va dimenticato, oltre tutto, che – tra quanti assumono droga – solo 1 su 3 o su 4 (ed è, probabilmente, una valutazione ottimista) frequenta strutture pubbliche o private. Perché, allora, l'esperienza di San Patrignano viene assunta da questo governo come modello terapeutico e sociale dominante, fino a diventare il Metodo Buono anche per l'intervento pubblico? Perché, appunto, rappresenta quel solidarismo autoritario, che è senso comune della coalizione di governo e di parte del suo elettorato. In questa chiave va letta anche l'esaltazione della famiglia in cui si esercita il centrodestra. Indifferente al fatto che proprio l'organizzazione familiare tradizionale e le sue patologie sono all'origine di molte delle crisi che portano alla tossicodipendenza, il ceto politico di governo ripropone il modello familistico, chiuso e autosufficiente (in questo senso San Patrignano è davvero "una grande famiglia"), come unica soluzione alla disgregazione sociale. E in quella concezione di solidarismo autoritario, va da sé, l'accento è posto sull'aggettivo (autoritario): basti pensare alle modifiche alla legge sull'immigrazione e alla proposta di abbassare la soglia di imputabilità dei minori a 12 anni (a scanso di equivoci, va ricordato che Erika e Omar hanno superato la soglia attuale di 14 anni da quel dì…); e, a ben vedere, gli stessi "annunci" in materia di preostituzione. Negli Usa i liberisti sono antiproibizionisti e i conservatori – e molti filosofi e scienziati della politica — discutono seriamente di "liberismo compassionevole": qui, sempre di manette.
28/12/2001
Il penitenziario di San Patrignano Niente detenzione per i tossicodipendenti, meglio un periodo di ricovero forzato nell'ex carcere di Castelfranco, in Emilia Romagna. Da privatizzare, secondo il ministro della giustizia. L'opposizione attacca: no alle comunità di stato TIZIANA BARRUCCI
Un carcere privato e per tossicodipendenti. Sarebbe questo in buona sostanza il progetto lanciato dal ministro per i Rapporti con il parlamento Carlo Giovanardi, che accoglierebbe, a sentire lui, l'appello lanciato il giorno di Natale dal cardinale di Milano Carlo Maria Martini. Giovanardi, ospite della comunità Incontro di don Pierino Gelmini, ad Amelia, rilancia: "E' assurdo che debba scontare la pena chi ha accettato il percorso di recupero dopo aver commesso reati perché schiavo della logica della tossicodipendenza. E' assurdo che debba farlo proprio mentre sta uscendo dal tunnel della droga". Fin qui nulla da dire, ma la particolarità del progetto potrebbe essere la gestione a carattere privatistico. La "comunità di recupero", infatti, potrebbe essere gestita dalla comunità di San Patrignano. L'idea sarebbe dello stesso ministro della Giustizia. La "colonia" avrà sede in un carcere dismesso che si trova a Castelfranco, in Emilia Romagna, un'imponente struttura che potrebbe ospitare più di cento persone, costituita da un'azienda agricola di 23 ettari, stalle, serre, frutteti, vigne, alveari e macchinari. Il fatto è che la vecchia gestione aveva lavorato a un progetto pilota sperimentale di ristrutturazione edilizia di Castelfranco ipotizzando la sua trasformazione in istituto a custodia attenuata prevalentemente, ma non solo, per i tossicodipendenti. Un progetto finalizzato al reinserimento sociale del detenuto attraverso attività di lavoro realmente remunerative legate al territorio e gestite esclusivamente dallo stato. Ma il vento di destra avrebbe modificato i programmi. Ieri sera è stato lo stesso ministro Castelli a intervenire per spiegare quello che, a suo dire, sarebbe ancora un progetto. "Non si tratta di promuovere comunità di stato o di privatizzare le carceri, ma di studiare misure che puntino in primo luogo al recupero del detenuto, a suo vantaggio ma soprattutto a vantaggio della società, con la diminuizione del rischio di recidiva". Per quanti riguarda San Patrignano, invece, Castelli spiega che la scelta sarebbe caduta sulla struttura di Muccioi "per i risultati raggiunti finora dalla comunità, risultati che parlano chiaro e mi assumo la responsabilità di questa scelta". Più cauto Giovanni Tinebra, nuovo capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria: "La nostra amministrazione non può lasciare la gestione ai privati. Stiamo ancora studiando le modalità di organizzazione dell'ex casa di lavoro. Sicuramente potrà essere utilizzato un contributo di esperienze". Si potrebbe trattare di cogestione? "Assolutamente no, ma non posso essere più preciso". Pensa che potrebbe rimanere in piedi il progetto della vecchia amministrazione? "Noi lavoriamo in continuità con la vecchia amministrazione". E cosa dice delle voci che parlano di un accordo con San Patrignano? "Ci sono questioni politiche in cui io non entro". E se il ministero vi avesse scavalcati? "Che io sappia nessuno ci ha scavalcati". Quali i tempi di realizzazione? "Considerando anche i problemi economici penso a uno-due anni". Da un lato un ministro che rilancia un progetto, dall'altro un dipartimento che ancora brancola nel buio, dunque. E, come era ovvio, la privatizzazione ha scatenato non poche reazioni. "Sarebbe il primo caso di 'devolution' ai privati del trattamento penale", commenta l'ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone, che ricorda anche come il regolamento interno previsto da San Patrignano preveda regole estremamente rigide, quali ad esempio il divieto di contatti esterni per sei mesi, contrarie a leggi, regolamenti e finanche alla Costituzione. E proprio la regione Emilia Romagna resta sbigottita all'annuncio di Giovanardi. L'assessore alla Sanità Gianluca Borghi ricorda che "avevamo avviato un confronto istituzionale per la ridefinizione delle modalità di custodia della struttura, ma con il nuovo governo quasto confronto si è interrotto. Spero che possa riprendere al più presto". L'accordo Castelli-Muccioli resta "fuori dal mondo" per molti. A cominciare dall'ex ministro Livia Turco, per la quale "sarebbe paradossale per un governo che fa della sussidiarietà il punto cardine della sua politica realizzare una comunità di Stato per tossicodipendenti", mentre punta sulla depenalizzazione Rosy Bindi, offrendo una sponda a sinistra al governo solo e soltanto su questa strada, e Vittorio Agnoletto, presidente della Lila, rilancia il ricorso a pene alternative, "purché il tutto sia inserito in un discorso di riduzione del danno". Si scagliano contro San Patrignano gli agenti di polizia penitenziaria e Leo Beneduci, del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, avverte: "Se a gestire Castelfranco in Emilia viene la comunità di San Patrignano, allora escono gli agenti di polizia penitenziaria. Il ministro non ci ha minimamente informati riguardo al progetto di far diventare Castelfranco una colonia agricola per il recupero di tossicodipendenti gestita da Muccioli, ma sappia che siamo contrari alla gestione". Stessa musica per Sergio Segio, che con Sergio Cusani si è battuto nella scorsa legislatura per l'amnistia e l'indulto e oggi parla di vero e proprio business delle "carceri privatizzate". Ma in serata arriva anche una smentita molto parziale dello stesso Andrea Muccioli: "Nel concreto siamo ancora lontani dalle ipotesi di comunità di stato o di carcere privato".
28/12/2001
LA COMUNITA' NEL CARCERE Un abbraccio pericoloso ALESSANDRO MARGARA*
Nel protocollo d'intesa fra ministero di Grazia e giustizia e Regione Emilia-Romagna, firmato dal ministro Flick e dal presidente della Regione nel 1998, se non ricordo male, il recupero e la destinazione della Casa di lavoro di Castelfranco Emilia era già messo allo studio e individuato fra le cose da fare. Si lavorò a tale progetto e lo si definì concretamente, attraverso la collaborazione tra Dap, che allora avevo la ventura di dirigere, e enti locali: regione, provincia e comune. Si elaborò un progetto di ristrutturazione dell'istituto, in buona parte ormai in pieno degrado e utilizzato per poche persone, e se ne previde la utilizzazione per un numero consistente di detenuti, attraverso la articolazione in due parti: una da destinare ai detenuti di Modena, in particolare tossicodipendenti, soggetti a frequenti e massicci sfollamenti per ogni dove, per la insufficienza dell'istituto a reggere il massiccio andamento degli arrivi in carcere; e l'altra sezione, separata, da destinare a custodia attenuata per tossicodipendenti con programmi attivi di recupero, detenuti nella regione o, se non sbaglio, in regioni vicine, prive di strutture carcerarie a custodia attenuata. Anche la prima delle due sezioni indicate avrebbe dovuto contare sull'apporto dei Sert locali, potendo avviare, quindi, all'altra sezione, a custodia attenuata, i detenuti disponibili a impegnarsi sui programmi. Furono effettuati incontri con gli enti locali e si acquisirono impegni di massima, che andavano ovviamente seguiti e definiti durante il tempo necessario per effettuare la ristrutturazione. L'istituto aveva laboratori in stato di semiabbandono e una colonia agricola abbastanza attiva. Il tutto doveva essere recuperato ad effettiva e piena funzionalità. La vecchia casa di lavoro aveva ospitato per lunghi periodi e in condizioni non certo eccellenti più di duecento detenuti. Si trattava di farne una sede decente e con le finalizzazioni indicate per circa 150 persone complessive. Nella regione esisteva già una sezione a custodia attenuata presso l'istituto di Rimini, fra le prime istituite, con forte apporto del Sert locale, che poteva, però, accogliere una quindicina di persone. Il progetto su Castelfranco, inoltre, si inquadrava in un programma più ampio, che cercava di realizzare istituti o sezioni a custodia attenuata su tutto il territorio nazionale. Temo di non essere sufficientemente sintetico, ma ci tengo a chiarire che esisteva per Castelfranco un progetto preciso, che aveva avuto consenso e impegno di collaborazione da parte di tutti gli enti interessati. Sarebbe bene ricordare che il T.U. 309/90, all'art. 96, attribuiva e attribuisce esplicitamente alle Asl e, quindi, ai Sert, le funzioni di cura e riabilitazione dei tossicodipendenti detenuti. Credo che la parte relativa alla ristrutturazione dell'istituto sia a buon punto. Per quanto ricordo, esisteva un progetto esecutivo, messo a punto dal personale tecnico del Dap, regolarmente finanziato: e questo avveniva prima dell'aprile 1999, quando venni dimissionato, bontà sua, dal ministro Di liberto. A questo punto raccolgo l'interrogativo: San Patrignano a Castelfranco? Intanto, si può porre un'altra domanda: si è tenuto conto o si è voluto anche soltanto conoscere il progetto esistente, sentire le parti che vi erano state coinvolte, chiarire se c'era bisogno di trovare un'altra soluzione? E poi: si è davvero pensato e meditato su tale nuova soluzione? Si è cercato di capire se tale soluzione andava stretta o larga al vestito che si era costruito per un altro progetto? Che la cosa abbia avuto una meditazione abbastanza affrettata può risultare dalla enfasi ideologica con cui San Patrigano è stata presentata recentemente (e credo sia stato un pessimo regalo a quella comunità: un pessimo regalo in termini di comprensione razionale della comunità e dei suoi problemi e non di mediocri propaganda e visibilità, che credo non siano regali buoni) e con cui sono state messe in secondo piano le altre e numerose realtà comunitarie italiane e il ruolo svolto dai Sert, sparando a zero sugli stessi, spero non sapendo dello specifico ruolo previsto dalla legge per i medesimi; o, dispero, sapendolo bene. Che dire, comunque, di questo abbraccio tra carcere e San Patrignano? L'impressione è che sia un abbraccio pericoloso per le due parti. Credo sia utile precisare, per capirlo, che Castelfranco resta, comunque, un carcere e che quelli che vi verranno assegnati restano dei detenuti. Non sono persone in misure alternative alla detenzione, che, già, in varie migliaia, sono regolarmente accolte a San Patrignano e in tante altre comunità italiane, aventi caratteristiche proprie, anche molto lontane dalla stessa San Patrignano. A Castelfranco ci sarà un carcere e ci saranno dei detenuti, in detenzione continuativa, ci saranno gli operatori penitenziari, agenti di polizia penitenziaria e operatori civili: e, non dimentichiamolo, se non si vuole ignorare la legge, ci saranno anche gli operatori dei servizi pubblici. E allora perché l'abbraccio può essere pericoloso? Perché gli operatori penitenziari e gli operatori pubblici dovranno convivere con operatori e con indirizzi che hanno una forte caratterizzazione, propria di San Patrignano e non si sa quanto compatibile con le regole penitenziarie: quindi, c'è un pericolo per l'istituto carcerario e la sua organizzazione. Ma c'è anche un pericolo per la comunità, che può lasciarsi coinvolgere dalla rigidità del carcere, perdere la sua capacità di movimento e trovare incoraggiamento al filone autoritario, che può trovarsi, fra altri, alla sua radice. Risultato possibile e, forse, probabile: un cattivo carcere e una cattiva comunità. Tre osservazioni per finire. Prima. Credo che San Patrignano compensi certi momenti di rigore con una possibilità di spostamenti nei luoghi aperti e ampi, che ne fanno una specie di paese (posso sbagliarmi, ma credo di non essere lontano). Il carcere non è mai un paese: le sue mura lo negano. Seconda osservazione. Anche se la cosa è abbastanza ignorata, c'è una laicità del carcere. Quando funziona (accade di rado, ma accade), fa recuperare regole, modalità di relazioni con gli altri, ma non impone idee o credi. Questa è una tentazione delle comunità, particolarmente di una comunità come quella di cui si parla. Terza osservazione-domanda. Mai sentito parlare della privatizzazione delle carceri e dei cavalli di Troia?
* Alessandro Margara è stato direttore del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria
27.12.2001
Ecco la «colonia agricola» che ospiterà i detenuti
ROMA - L’idea del ministro Giovanardi è già stata trasformata in realtà dal Guardasigilli Roberto Castelli. Mentre all’interno di governo e maggioranza si dibatte sull’opportunità di concedere alternative alla detenzione, il dicastero di via Arenula ha dato il via a un progetto di sperimentazione per far uscire dalle celle i detenuti tossicodipendenti. Una sorta di «comunità di recupero» che per la prima volta in Italia sarà gestita direttamente dallo Stato. Il programma sarà operativo entro qualche mese. E’ stata scelta la struttura, siglato l’accordo con la comunità di San Patrignano e sono state messe a punto regole e obiettivi della «colonia agricola» che consentirà il reinserimento nella realtà sociale e lavorativa di alcuni reclusi. Lo studio è stato avviato da Castelli poco dopo la sua nomina a ministro della Giustizia. L’idea era quella di trovare misure diverse dal carcere per chi fa uso di droga. Una strada con due finalità: consentire a queste persone una possibile riabilitazione e decongestionare i penitenziari, visto che secondo le ultime stime il 40 per cento dei detenuti è tossicodipendente. Il modello da seguire, secondo le indicazioni date da Castelli, era proprio quello studiato da Muccioli e così gli esperti del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, hanno preso contatto con i responsabili di San Patrignano. Ci sono state diverse riunioni - comprese quelle relative alla copertura finanziaria da parte del governo - e alla fine il progetto ha ottenuto il via libera. La «colonia» avrà sede in un carcere dismesso che si trova vicino a Castelfranco, in Emilia-Romagna. Qualche mese fa è cominciata la ristrutturazione dell’edificio che all’interno disporrà anche di un centro clinico. Si tratterà di una struttura «aperta», cioè senza controlli o limitazioni, se non quella di non poter uscire. Chi sarà ammesso al programma dovrà lavorare la terra e compiere tutte quelle attività agricole e artigianali che, così come avviene a San Patrignano, possanno essere poi legate a un progetto di distribuzione commerciale. Restano da stabilire i criteri di scelta dei detenuti che potranno accedere alla sperimentazione, ma è presumibile che saranno individuati tra coloro che hanno pene minime da scontare e che potrebbero già godere dei benefici concessi dalla legge. Una «selezione» che verrà fatta attraverso i tribunali di sorveglianza e con l’avallo delle direzioni delle carceri, così come avviene normalmente per chi chiede di poter beneficiare delle pene alternative. Al ministero spiegano che si tratta di un «esperimento», sottolineano che non c’è alcun provvedimento legislativo, ma non negano che, se ci saranno buoni risultati, saranno create altre strutture simili in diverse parti d’Italia. «Castelli - spiegano i suoi collaboratori - crede molto nel’opportunità di far lavorare i detenuti per ottenere il loro reinserimento e ritiene che sia proprio questa la strada da percorrere per la creazione di circuiti alternativi alla detenzione». E’ proprio la soluzione prospettata da Giovanardi che ha già provocato la netta opposizione di Alleanza Nazionale.
Fiorenza Sarzanini
27/12/2001
Droga: nasce la prima "comunità di Stato" Via libera alla "colonia agricola" che ospiterà i detenuti tossicodipendenti. Avrà sede a Castelfranco, il progetto affidato a San Patrignano
di Redazione (redazione@vita.it)
Mentre all'interno di governo e maggioranza si dibatte sull'opportunità di concedere alternative alla detenzione, il ministro Castelli ha dato il via a un progetto di sperimentazione per far uscire dalle celle i detenuti tossicodipendenti. Una sorta di "comunità di recupero" che per la prima volta in Italia sarà gestita direttamente dallo Stato. Il programma sarà operativo entro qualche mese. E' stata scelta la struttura, siglato l'accordo con la comunità di San Patrignano e sono state messe a punto regole e obiettivi della "colonia agricola" che consentirà il reinserimento nella realtà sociale e lavorativa di alcuni reclusi. Lo studio è stato avviato da Castelli poco dopo la sua nomina a ministro della Giustizia. L'idea era quella di trovare misure diverse dal carcere per chi fa uso di droga. Una strada con due finalità: consentire a queste persone una possibile riabilitazione e decongestionare i penitenziari, visto che secondo le ultime stime il 40 per cento dei detenuti è tossicodipendente, 20 mila tossicodipendenti su 57 mila detenuti. Il modello da seguire, secondo le indicazioni date da Castelli, era proprio quello studiato da Muccioli e così gli esperti del Dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, hanno preso contatto con i responsabili di San Patrignano. Ci sono state diverse riunioni - comprese quelle relative alla copertura finanziaria da parte del governo - e alla fine il progetto ha ottenuto il via libera. La "colonia" avrà sede in un carcere dismesso che si trova vicino a Castelfranco, in Emilia-Romagna. Qualche mese fa è cominciata la ristrutturazione dell'edificio che all'interno disporrà anche di un centro clinico. Si tratterà di una struttura "aperta", cioè senza controlli o limitazioni, se non quella di non poter uscire. Chi sarà ammesso al programma dovrà lavorare la terra e compiere tutte quelle attività agricole e artigianali che, così come avviene a San Patrignano, possanno essere poi legate a un progetto di distribuzione commerciale. Restano da stabilire i criteri di scelta dei detenuti che potranno accedere alla sperimentazione, ma è presumibile che saranno individuati tra coloro che hanno pene minime da scontare e che potrebbero già godere dei benefici concessi dalla legge. Una "selezione" che verrà fatta attraverso i tribunali di sorveglianza e con l'avallo delle direzioni delle carceri, così come avviene normalmente per chi chiede di poter beneficiare delle pene alternative. Al ministero spiegano che si tratta di un "esperimento", sottolineano che non c'è alcun provvedimento legislativo, ma non negano che, se ci saranno buoni risultati, saranno create altre strutture simili in diverse parti d'Italia. "Castelli - spiegano i suoi collaboratori - crede molto nel'opportunità di far lavorare i detenuti per ottenere il loro reinserimento e ritiene che sia proprio questa la strada da percorrere per la creazione di circuiti alternativi alla detenzione". E' proprio la soluzione prospettata da Giovanardi che ha già provocato la netta opposizione di Alleanza Nazionale.
San Tommaso
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