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Quella che chiamiamo pace - Arundhati Roy
by lora Wednesday, Nov. 10, 2004 at 11:42 AM mail:  

E' ipocrita fare una distinzione morale tra l’inesprimibile brutalità del terrorismo e la carneficina indiscriminata della guerra e dell’occupazione. Entrambi i tipi di violenza sono inaccettabili. Non possiamo sostenerne uno e condannarne un altro.

 

Quella che chiamiamo pace è poco più che la capitolazione al golpe delle multinazionali

di Arundhati Roy

Sappiamo molto bene chi trae beneficio dalla guerra nell’epoca dell’impero. Ma dobbiamo anche chiederci chi trae beneficio dalla pace nell’epoca dell’impero? Vendere la guerra è un crimine. Ma parlare di pace senza parlare di giustizia può facilmente diventare la difesa di una specie di capitolazione. E parlare di pace senza smascherare le istituzioni e i sistemi che perpetrano l’ingiustizia va ben oltre l’ipocrisia.

A volte nei vecchi cliché c’è un fondo di verità. Non può esserci una pace vera senza giustizia. E senza opposizione non ci sarà vera giustizia. Oggi, non è solo la giustizia in se stessa a essere sotto attacco, ma l’idea di giustizia.

L’assalto alle sezioni vulnerabili e fragili della società è così totale, crudele e abile che la sua sottile audacia ha intaccato la nostra definizione di giustizia. Ci ha forzato a limitare le nostre vedute e a ridurre le nostre speranze. Anche tra i benintenzionati, il nobile concetto di giustizia viene gradualmente sostituito dal più semplice, e molto più fragile, discorso dei "diritti umani".

Questo è un cambiamento allarmante. La differenza consiste nel fatto che le nozioni di uguaglianza e parità sono state sfruttate liberamente e sciolte dall’equazione. È un processo di logoramento. Quasi inconsciamente, stiamo cominciando a pensare alla giustizia per i ricchi e ai diritti umani per i poveri. Giustizia per il mondo delle multinazionali, diritti umani per le sue vittime. Giustizia per gli americani, diritti umani per gli afgani e gli iracheni. Giustizia per le caste alte degli indiani, diritti umani per i dalit e gli adivasi (se questi). Giustizia per gli australiani bianchi, diritti umani per gli aborigeni e gli immigrati (a volte nemmeno questo).

Sta diventando più che evidente che violare i diritti umani costituisca una parte inerente e necessaria del processo di realizzazione di una struttura economica e politica coercitiva e ingiusta nel mondo. Sempre più spesso, le violazioni dei diritti umani vengono ritratte come la sfortunata, quasi accidentale, conseguenza di un altrimenti accettabile sistema economico e politico. Come se fossero un piccolo problema che può venire eliminato con un po’ di attenzione in più da parte di alcune organizzazioni non governative.

Per questa ragione, nelle aree di intenso conflitto - in Kashmir e in Iraq, ad esempio – i professionisti dei diritti umani vengono guardati con una certa diffidenza. Molti movimenti di opposizione, nei paesi poveri che combattono le enormi ingiustizie e contestano i principi che si nascondono sotto ai concetti di "liberazione" e "sviluppo", vedono le organizzazioni non governative dei diritti umani come missionari moderni arrivati per attutire la brutalità dell’imperialismo – per placare la rabbia politica e per mantenere lo status quo.

Sono solo poche settimane che l’Australia ha rieletto John Howard, il quale, tra le altre cose, ha trascinato la nazione a partecipare all’invasione e all’occupazione illegale dell’Iraq.
Questa invasione sicuramente passerà alla storia come una delle guerre più codarde di tutte. È stata una guerra in cui una banda di nazioni ricche, dotate di sufficienti armi nucleari da poter distruggere il mondo intero diverse volte, si è scagliata irosamente contro una nazione povera, falsamente accusata di possedere armi nucleari, ha usato le Nazioni Unite per costringerla al disarmo, poi l’ha invasa, occupata e adesso è in procinto di venderla.

Parlo dell’Iraq, non perché ne stanno parlando tutti, ma perché è un esempio di ciò che accadrà. L’Iraq segna l’inizio di un nuovo ciclo. Ci offre l’opportunità di vedere la congiura tra le multinazionali e il potere militare, che ha finito per farsi conoscere come "impero", all’opera. Nel nuovo Iraq, il vero conflitto sta per cominciare.
Mentre la battaglia per il controllo delle risorse terrestri si intensifica, il colonialismo economico per mezzo dell’aggressione militare ufficiale sta inscenando un ritorno. L’Iraq è il culmine logico del processo di globalizzazione delle multinazionali in cui si sono fusi il neocolonialismo e il neoliberalismo. Se potessimo sbirciare dietro al sipario di sangue, intravedremmo le spietate transazioni che hanno luogo nel retroscena.

Invaso e occupato, l’Iraq è stato costretto a pagare 200 milioni di dollari americani (270 milioni di dollari) come "risarcimenti" per i profitti perduti alle multinazionali, quali Halliburton, Shell, Mobil, Nestle, Pepsi, Kentucky Fried Chicken e Toys R Us. Oltre al debito disumano di 125 miliardi di dollari americani che l’ha costretto a rivolgersi all’IMF (Fondo monetario internazionale), che aspettava tra le quinte come l’angelo della morte, con il suo programma di ricostruzione strutturale. (Benché in Iraq non sembrano essere rimaste molte strutture da ricostruire).

Allora qual è il significato di pace in questo mondo selvaggio, dominato dalle multinazionali e militarizzato? Cosa significa pace per i popoli dell’Iraq, della Palestina, del Kashmir, del Tibet e della Cecenia occupate? O per i popoli aborigeni dell’Australia? O per i curdi della Turchia? O per i dalit e gli adivasti dell’India? Che cosa significa pace per i non musulmani nei paesi islamici, o per le donne dell’Iran, dell’Arabia Saudita e dell’Afganistan? Che cosa significa per i milioni di persone che sono state sradicate dalle proprie terre da progetti di irrigazione e sviluppo? Che cosa significa pace per i poveri che vengono attivamente derubati delle proprie risorse? Per loro, pace significa guerra.

Sappiamo molto bene chi trae beneficio dalla guerra nell’epoca dell’impero. Ma dobbiamo anche chiederci chi trae beneficio dalla pace nell’epoca dell’impero? Vendere la guerra è un crimine. Ma parlare di pace senza parlare di giustizia può facilmente diventare la difesa di una specie di capitolazione. E parlare di pace senza smascherare le istituzioni e i sistemi che perpetrano l’ingiustizia va ben oltre l’ipocrisia.

È facile accusare il povero di essere povero. È semplice credere che il mondo sia caduto nella spirale di un crescente terrorismo e della guerra. Ciò consente a George Bush di dire:"sei o con noi, o con i terroristi". Ma questa è una scelta falsa. Il terrorismo è solo la privatizzazione della guerra. I terroristi sono i liberi mercanti della guerra. Coloro che credono che l’uso legittimo della violenza non sia la sola prerogativa dello stato.

E' ipocrita fare una distinzione morale tra l’inesprimibile brutalità del terrorismo e la carneficina indiscriminata della guerra e dell’occupazione. Entrambi i tipi di violenza sono inaccettabili. Non possiamo sostenerne uno e condannarne un altro.

Questo è un estratto redatto dalla conferenza Sydney Peace Prize 2004 distribuito da Arundhati Roy al Seymour Center la scorsa notte.

Fonte: http://www.commondreams.org/views04/1103-20.htm
Traduzione di Tanja Tion per Nuovi Mondi Media

    | Martedì, 09 Novembre 2004 - 17:00

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Fonte:nuovimondimedia.com

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Splendida conferenza
by Joe Thursday, Nov. 11, 2004 at 12:37 AM mail:  

Che aggiungere? Niente.

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Ma forse si, ci sarebbe....
by Alois Thursday, Nov. 11, 2004 at 9:08 AM mail:  

Ma forse si, ci sarebbe qualcosa da aggiungere.

E' fin TROPPO facile sprecare parole contro il c.d.
"terrorismo", senza nemmeno tentare di fare uno sforzo
per identificarne origini e motivazioni.

E' fin TROPPO facile sprecare parole pacifiste dal
caldo ovattato di un presente che non percepiamo in
pericolo.

Ipotizziamo per un momento che la nostra confortevole vita sia, NON per colpa nostra e/o nostro libera scelta, d'un colpo stravolta;
che la casa in cui abbiamo fin'oggi vissuto
venga rasa al suolo;
che la sofferenza - fisica e morale - si abbatta su di
noi e i nostri cari;
che truppe d'occupazione marcino per le strade del
nostro paese calpestando TUTTI i valori in cui noi e
chi ci ha preceduto abbiamo sempre creduto;
che persino generi di prima necessita' vengano razionati
secondo una logica criminale...

Ipotizziamo tutto cio' e, considerato che NON abbiamo
altra soluzione disponibile, spinti alla piu' nera
disperazione accettiamo l'unica opzione, la resistenza armata clandestina (cioe' quello che altri definiscono dal LORO punto di vista "terrorismo").

E chiediamoci, senza falsi moralismi, se tale soluzione
sia veramente condannabile.

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Riposta
by Sonia Sunday, Nov. 14, 2004 at 3:16 AM mail:  

C'è differenza però tra resistenza armata nel proprio paese occupato, come quella che noi consideriamo come una fase eroica del passato dell'Italia il secolo scorso, e l'aggressione contro civili nei loro paesi.
Resisti nel tuo paese, combatti contro l'occupante illegittimo, contro L'ESERCITO dell'occupante coercitivo... questa è una cosa.
L'altra è portare la morte tra i civili, non solo del tuo paese, ma di altri paesi, e esportare la tua ribellione, come punizione o minaccia.
Attenzione ora, non giustifico con queste mie parole l'azione "preventiva" di Bush in Iraq. Però è giusto fare un distinguo tra "resistenza" e "terrorismo e guerra". Non eroicizziamo i terroristi o i governi che decidono per la guerra, non giustifichiamoli. Puoi comprendere la disperazione di chi viene occupato, ma non giustificare l'atto di violenza... quello irrazionale... quello che porta a rapire perfino persone che hanno tentato di aiutarti o capirti (come giornalisti e volontari).

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ma sei fuori dal mondo
by uhmme Sunday, Nov. 14, 2004 at 9:51 AM mail:  

> l'atto di violenza... quello irrazionale

vuoi la guerra con atti di violenza razionali e giustificabili a posteriori ?
Magari con i pasticcini. Malafede nn ne ne vedo in queste parole ma di santa ingenuità ne vedo tanta

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Spero di no
by Sonia Sunday, Nov. 14, 2004 at 2:43 PM mail:  

No, mi sono spiegata male alla fine. Infatti poco prima avevo parlato di "terrorismo e guerra" insieme. Non giustificare nemmeno i governi che entrano in guerra.
Ma rispondevo ad un post sul terrorismo, un post che lo giustificava come atto di resistenza. La resistenza è un atto lucido, e razionale non vuol dire giustificato. Razionale vuol dire con una logica e dei limiti e una lucidità che i terroristi (e questa coalizione in guerra) non dimostrano. Vuol dire che cerchi di attaccare obiettivi militari e non civili, vuol dire che se devi rapire qualcuno come "monito" o "minaccia" non rapisci un volontario di una organizzazione umanitaria, vuol dire che non porti la morte pure tra i tuoi stessi cittadini. Se lo fai, hai perso completamente la ragione.. in entrambi i sensi: hai perso quel minimo di giustificabilità che potevi avere quando ti dicevi resistente all'occupante, e hai perso la sanità mentale.

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Resistenza e terrorismo
by Joe Wednesday, Nov. 17, 2004 at 2:26 PM mail:  

Sono due cose completamente diverse, Sonya ha fatto confusione. Il terrorismo l'organizzano le grandi potenze allo scopo di creare falsi attentati, da poter reprimere nel sangue. La resistenza è il legittimo diritto a scegliere il proprio futuro politico senza ingerernze altrui.

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infatti
by fan di arundati Thursday, Nov. 18, 2004 at 5:14 PM mail:  

ha ragione arundati. tutte le Ong, le 2 simone, ecc. nmon sono altro che dei moderni missionari che preoparano il terreno alle guerre

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