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Morire di carcere...
by nocarcere Wednesday, Dec. 08, 2004 at 7:59 PM mail:  

Due suicidi, tre morti per malattia, uno di overdose; a novembre il nostro Dossier registra sei nuovi casi e un triste “primato”: a Parma è morto un detenuto di 77 anni, già gravemente ammalato e incapace di parlare a seguito di un intervento chirurgico… se questo è il livello di civiltà delle nostre carceri!

Suicidio: 4 novembre 2004, Carcere di Perugia

Angelina Giornado, 55 anni, detenuta da 3 mesi per bancarotta, s’impicca in cella. Era stata la titolare di una società, la Confezioni italiane Srl, con sede a Sassari, fabbrica di magliette e tute da ginnastica, dichiarata fallita nel ‘93. Si è tolta la vita dopo essere stata abbandonata dai suoi soci e quando a pagare il conto con la giustizia è rimasta sola perché era lei, Angelina Giordano, 55 anni, due figli, di Prato, la rappresentante legale. Gli altri, Marco Giosuè Manca, 50 anni, che oggi vive in Belgio, xxxxxxxxx xxxxxxxxxx 50 anni residente a Prato e Roberto Mei 52 anni di Lucca risultavano soci di fatto. La fine di Angelina Giordano, secondo il suo legale e la famiglia, è una morte annunciata. “Che si sarebbe potuta suicidare lo hanno detto le perizie prima ancora che finisse in carcere” dice senza paura di abusare di un luogo comune l’avvocato Massimo Taiti che ha seguito solo l’ultima parte della vicenda giudiziaria e che pochissimo conosce della storia del fallimento. E domenica sera le guardie carcerarie l’hanno trovata impiccata in cella nel carcere femminile di Perugia. È stato un suicidio, è vero, ma secondo l’avvocato difensore di Angelina Giordano ci sarebbero precise responsabilità dell’amministrazione carceraria e, in parte, del tribunale di sorveglianza di Perugia, che avrebbe dovuto dare una risposta all’istanza di scarcerazione presentata ad agosto, meno di un mese dopo essere finita dietro le sbarre. La donna, in cura per depressione, non si era nemmeno presentata al processo che si era svolto Sassari dove è stata giudicata in contumacia senza neanche l’ausilio di un legale di fiducia. Ritenuta “irreperibile”, non ha presentato appello e la condanna, così, è diventata definitiva. Per lei si sono aperte le porte del carcere per 4 anni, la pena per la bancarotta fraudolenta. In quel momento è arrivata la telefonata all’avvocato Taiti: “Mi tiri fuori perché non resisto”. L’istanza è partita subito. “Sembra incredibile, ma non hanno trovato il tempo di dare una risposta”, dicono i familiari. Angelina Giordano è stata arrestata il 21 luglio perché è diventata definitiva la condanna. “Possiamo affermare la incompatibilità assoluta con l’attuale regime carcerario e la necessità che quanto più rapidamente possibile sia instaurato un trattamento terapeutico corretto e operante al di fuori di un qualsiasi istituto di pena” ha scritto il neurologo Giovanni Giammaroli in una perizia psichiatrica che l’avvocato Taiti ha allegato alla sua prima istanza di scarcerazione, lo scorso 11 agosto. L’esito della vicenda sembra già scritto nella perizia, quando il medico afferma che le ansie e le paure di Angelina “finiscono con l’esaurire il carico di energia psichica necessaria per continuare a vivere”. A quella istanza non è stata data alcuna risposta da parte del Tribunale di sorveglianza, e nemmeno a una successiva, datata 8 ottobre. Nel frattempo le condizioni di Angelina Giordano sono andate gradualmente peggiorando, ma nessuno nei palazzi della giustizia, fatta eccezione per il suo avvocato, se n’è reso conto. Tanto che, e qui arrivano le presunte responsabilità dell’amministrazione carceraria, le è stato lasciato l’accappatoio con la cintura, che poi la donna ha usato per impiccarsi. Potevano salvarla? In questi casi è sempre difficile dirlo, sono tanti i detenuti che ogni giorno affermano di non poter stare un’ora di più in carcere e gli avvocati che presentano istanze. Certo è che nelle carte in possesso della difesa non ce n’è una che dimostri qualche attività del giudice di sorveglianza. Si può dunque affermare, col senno di poi, che il caso meritava almeno una risposta più veloce, positiva o negativa che fosse. La risposta Angelina Giordano se l’è data da sola. (La Nuova Sardegna, 5 novembre 2004)

Suicidio: 7 novembre 2004, Carcere di Como

Maria, 34 anni si suicida a 40 giorni dall’arresto. Doveva scontare altri 3 anni, per rapina: era depressa e sorvegliata speciale. Un altro morto (il sesto dall’inizio dell’anno), un altro suicidio (il terzo) scuote l’apparente tranquillità del Bassone, carcere peraltro universalmente considerato tra i più ordinati e “vivibili” d’Italia. Maria, 34 anni, nata e residente nel Lecchese, in carcere da 40 giorni per scontare altri 31 mesi per rapina, si è tolta la vita nella notte tra domenica e ieri. Per raggiungere il suo proposito, la ragazza ha atteso un’attenuazione della vigilanza speciale - cui era sottoposta in regime continuato per ordine della direzione della casa circondariale - ha strappato la federa del cuscino del suo letto, se l’è stretta attorno al collo e infine si è appesa alle sbarre della finestra. Quando gli agenti della sezione femminile del Bassone si sono accorti dell’insolita quiete, purtroppo, era tardi. I soccorritori non hanno potuto che prendere atto dell’avvenuto decesso della giovane e informare il magistrato per avviare gli accertamenti necessari a capire se siano ravvisabili responsabilità, anche omissive, per quanto accaduto. Il pubblico ministero di turno, Silvia Perrucci, ha aperto un’inchiesta - ancora contro ignoti - che permetterà di svolgere una serie di attività tecniche (a cominciare dalla autopsia sul cadavere) necessarie in primo luogo ad escludere eventuali altri “apporti causali” nella tragedia. Maria era stata arrestata una prima volta nel settembre di cinque anni fa perché sospettata di due rapine in una cartoleria di Monticello e in un centro di abbronzatura di Barzanò, bottino complessivo di 300 mila lire dell’epoca. Scarcerata durante l’istruttoria, la giovane era stata nuovamente arrestata il 30 settembre scorso, in esecuzione questa volta di una sentenza definitiva ed esecutiva per rapina; in stato di limitazione della libertà (eufemismo sinonimo di galera). La tragedia di Maria è l’ultima di una scia di lutti che da circa un anno si è abbattuta sulla casa circondariale di Albate, istituto inaugurato 20 anni fa come carcere di massima sicurezza e considerato da sempre “modello” per le condizioni di vita che riesce a garantire alla sua popolazione (che tra l’altro ha una densità due volte inferiore alla media italiana). Eppure negli ultimi mesi qualcosa si è rotto. A marzo un 26enne arrestato per piccolo spaccio si era suicidato con il gas dello scaldino, a luglio si impiccò un operaio rumeno accusato di violenze dalla figlia, tragedie inframezzate dalla morte di Sergio La Scala, il dirottatore del pullman di Cantù. L’inchiesta sul suo decesso non è ancora stata chiusa. (La Provincia di Como, 9 novembre 2004)

Assistenza sanitaria disastrata: 9 novembre 2004, Carcere di Parma

Max Wieser, 77 anni, muore nel carcere di Parma. Era stato arrestato il 14 settembre scorso, dopo aver cercato di ammazzare la moglie, Rosina Steiner, 64 anni. L’aveva prima investita con il suo Ape e poi colpita ripetutamente con un coltello con una lama lunga 20. Da tempo vivevano separati, anche se nello stesso maso. Wieser, 78 anni, gravemente ammalato e incapace di parlare dopo un intervento chirurgico subito mesi addietro, non ce l’ha fatta a reggere il carcere. (Video Bolzano 33, 10 novembre 2004)

Overdose: 18 novembre 2004, Carcere Secondigliano (Napoli)

Francesco Pirozzi, 31 anni, muore a Secondigliano per sospetta overdose. Solo l’autopsia e l’esame tossicologico, disposti dal Pm, potranno stabilire le cause esatte del decesso. Grave anche il compagno di cella di Francesco Pirozzi. Il riserbo intorno a questa vicenda è massimo. Ma a Giugliano, dopo che sono state eseguite le perquisizioni in casa della moglie di Pirozzi, si è diffusa la notizia che la donna sarebbe indagata per l’ipotesi di reato di cessione di stupefacenti e omicidio. Notizia che però non trova ancora conferma. La famiglia, che ha nominato un proprio perito, smentisce con forza “ogni coinvolgimento della moglie nel presunto ingresso della droga nel carcere”. “È un’ipotesi assurda e priva di ogni fondamento - afferma l’avvocato Umberto Perga, legale di fiducia della famiglia. Siamo fiduciosi nel lavoro della magistratura e certi che sarà chiarita la totale estraneità ai fatti della signora Pirozzi”. Pirozzi è morto nella notte tra mercoledì e giovedì. La donna è sospettata perché entrata a Secondigliano mercoledì mattina, dunque, poche ore prima della tragedia. I coniugi si erano intrattenuti a lungo, avevano anche consumato una torta - preparata da Pirozzi nel carcere - per festeggiare l’anniversario di matrimonio. In nottata, poco prima delle tre, l’allarme. Immediati i soccorsi, che però non sono valsi a salvare il 31enne. Più fortunato il compagno di cella, trasportato d’urgenza in ospedale, dove è stato sottoposto a terapia intensiva: è fuori pericolo, anche se le sue condizioni restano gravi. La polizia penitenziaria ha immediatamente disposto una serie di controlli. Perquisita la cella occupata dai due. Tra gli effetti personali di Pirozzi, gli agenti hanno trovato una lettera indirizzata alla moglie, con la quale l’invitava a verificare “dove hai messo gli 11 spinelli” e se “sono caduti in macchina”. A seguito del rinvenimento della lettera, il pm che coordina l’indagine, il dottor Guerriero, ha disposto alcune perquisizioni domiciliari, eseguite dai carabinieri della compagnia di Giugliano, coordinati dal capitano Gianluca Trombetti. I militari hanno perquisito le abitazioni del Pirozzi e della madre di quest’ultimo, cercando tracce degli “spinelli” cui si faceva riferimento nella lettera e dell’eroina che gli investigatori sospettano possa essere entrata in carcere grazie alla donna. Sull’esito delle perquisizioni c’è il più stretto riserbo. Sembrerebbe, però, che abbiano avuto esito negativo. Non vi sarebbe traccia di stupefacenti in nessuna delle due abitazioni e neppure nell’auto della donna. I militari - stando ad alcune indiscrezioni - avrebbero però sequestrato una borsa all’interno contenente un migliaio di francobolli, che la moglie di Pirozzi avrebbe ammesso esserle stati consegnati dal marito. Soltanto l’autopsia potrà chiarire il mistero. La risposta ai perché della morte di un detenuto sano e giovane, deceduto in circostanze che la magistratura sta tentando di chiarire, si conosceranno tra un paio di settimane. Ieri pomeriggio, presso l’obitorio, è stata eseguita l’autopsia sul corpo senza vita di Francesco Pirozzi di Giugliano. L’esame necroscopico, effettuato dal medico legale Antonio D’Ettorre (consulente nominato dalla magistratura inquirente) si è protratto per circa due ore. Ha assistito anche un perito di parte. Poi la salma è stata restituita alla famiglia per i funerali. Il dottor D’Ettorre ha effettuato sia prelievi istologici che biologici. Da essi, dopo gli esami di laboratorio del caso - primo tra tutti, ovviamente, quello tossicologico - si attende la risposta anche alla domanda più inquietante, ovvero se il detenuto sia morto per assunzione di sostanze stupefacenti. Ipotesi avanzata dai congiunti del detenuto di Giugliano. Sul decesso lavora la Procura della Repubblica di Napoli. Il sostituto procuratore Antonio Guerriero è stato incaricato di coordinare le indagini affidate alla polizia penitenziaria. Il magistrato inquirente, che ha disposto anche perquisizioni nella cella che il detenuto condivideva con un altro recluso (che pure, la notte tra mercoledì e giovedì scorso, è stato colto da malore) e presso l’abitazione dove vive la famiglia del Pirozzi, a Giugliano. Come detto, all’esame necroscopico (che è un intervento unico e irripetibile) eseguito presso l’obitorio dell’ipogeo di Poggioreale, ha assistito anche un medico legale di parte. La salma del giovane, dopo l’autopsia è stata trasferita nella cappella dell’obitorio. Forse oggi verranno celebrati i funerali. Tra non meno di tre settimane - tanto tempo occorre per avere i risultati degli esami tossicologici - si conosceranno, dunque, le cause precise del decesso di Francesco Pirozzi, detenuto trentenne, morto in cella per cause al momento misteriose. (Il Mattino, 20 novembre 2004)

Eroina in cella, fermato un agente di polizia carceraria accusato di aver introdotto nel penitenziario di Secondigliano l’eroina killer che potrebbe aver ucciso il detenuto trentunenne Francesco Pirozzi e ridotto in fin di vita il suo compagno di cella. Il poliziotto penitenziario è in stato di fermo, disposto dal sostituto procuratore Antonio Guerriero, il magistrato che coordina l’indagine sull’inquietante decesso. Tra gli altri reati il pm ipotizza, nelle accuse formulate nel provvedimento restrittivo, quello, grave, di aver spacciato sostanza stupefacente all’interno del carcere. Un’inchiesta complessa che apre cupi scenari e che sicuramente produrrà nuovi clamorosi colpi di scena. Ricostruiamo la vicenda. La notte tra mercoledì e giovedì scorso Francesco Pirozzi, giuglianese, detenuto per reati di droga nel penitenziario di Secondigliano, viene colto da malore. Muore alle tre del mattino senza mai riprendere conoscenza. Il detenuto che condivide la cella a due letti pure viene soccorso perché privo di sensi. Sulla morte di Francesco Pirozzi (nessun legame di parentela con la “famiglia” della Sanità) e sul malore che ha colpito dietro le sbarre l’altro detenuto viene aperta subito un’inchiesta. La cella è perquisita e vengono effettuate perquisizioni domiciliari anche presso l’abitazione della moglie del Pirozzi, a Giugliano. Il giorno prima, martedì 16 novembre, a Secondigliano (è in quel quartiere e nella vicina Scampia che viene venduto il maggior quantitativo di eroina che si spaccia in città), ambulanze del 118 avevano soccorso una ventina di tossicodipendenti, tutti in stato di overdose. Evidentemente tutti quelli che erano stati colti da malore dopo essersi bucati avevano acquistato eroina proveniente dalla stessa partita di droga-killer. Se è vero, dunque, che Pirozzi è morto per overdose, c’è da supporre che la droga che l’ha ucciso proveniva dal vicino “mercato” di Scampia. La conferma che il cuore del detenuto di Giugliano - da tre anni in una cella del penitenziario di Secondigliano - abbia smesso di battere a causa di una dose di droga la si otterrà soltanto quando saranno pronti gli esiti degli esami di laboratorio sui prelievi istologici effettuati con l’autopsia. E dovranno passare almeno venti giorni prima che quei risultati vengano comunicati al dottor Antonio D’Ettorre, il medico legale incaricato dal magistrato inquirente di eseguire l’esame necroscopico sulla salma del detenuto. Droga che arriva in carcere attraverso un agente di polizia penitenziaria. Un fatto gravissimo. Su cui il pm Guerriero vorrà fare luce al più presto. Non si escludono complicità all’interno della struttura carceraria. Non si esclude che il fermo dell’agente penitenziario sia soltanto l’inizio di uno scandalo di proporzioni più vaste. (Il Mattino, 21 novembre 2004)

Assistenza sanitaria disastrata: 30 novembre 2004, Carcere di Bari

Fabio Malinconico, 44 anni, muore d’infarto mentre viene trasportato dal carcere di Bari, dove era detenuto, a quello di Secondigliano. A giugno - e a causa delle sue assai precarie condizioni di salute - aveva chiesto gli arresti domiciliari temporanei. Quindi una lunga attesa e solo il 9 novembre scorso la risposta negativa del Tribunale di sorveglianza di Bari, che lo giudicava “compatibile” col regime carcerario ma ne disponeva comunque il trasferimento in una struttura penitenziaria adeguata alle cure del caso. Ieri mattina, i familiari di Malinconico - assistiti dall’avvocato Amilcare Tana - hanno presentato una denuncia alla Procura di Lecce, affinché vengano accertate eventuali responsabilità. Tra i reati ipotizzabili, anche se non formalizzati nell’esposto, quello di omicidio colposo. “Il tribunale - spiega Tana - ha rigettato la nostra richiesta dei domiciliari insieme a quella di una perizia clinica. E lo ha fatto sulla base delle valutazioni di un medico che faceva parte dello stesso collegio. È la prima volta che vengo a sapere che del collegio di un tribunale di sorveglianza, solitamente composto da due magistrati e da due esperti (più che altro psicologi o pedagoghi) faccia parte anche un medico del quale peraltro non si conosce il nome. Ora è nostro diritto sapere se la valutazione sia stata condotta secondo tutti i crismi e con quale assistenza il detenuto sia stato tradotto a Secondigliano dove è arrivato già morto”. Malinconico - considerato un personaggio di rilievo della criminalità salentina e in carcere dal luglio del 1996 - scontava una pena di 23 anni. A Melfi - dove era detenuto sino allo scorso anno - subisce il primo infarto: è il giugno del 2003. Da allora le sue condizioni peggiorano tanto da costringerlo a subire un intervento per l’applicazione di un pace-maker. “Il dirigente sanitario del carcere di Melfi - denuncia Tana - lo aveva dichiarato incompatibile non solo col regime carcerario ma anche con i centri diagnostici e terapeutici delle strutture penitenziarie. Del resto l’ultimo volta che l’ho visto versava in condizioni tremende, soffriva di anoressia, usava la sedia a rotelle e non poteva muoversi senza l’assistenza di un infermiere”. “Anche questo episodio - è il giudizio di Angiolo Marroni, garante dei diritti dei detenuti per il Lazio - conferma quanto io e altri volontari e operatori del carcere denunciamo da tempo. La priorità resta quella sanitaria. Il diritto alla salute che i detenuti non perdono nel momento in cui vengono rinchiusi negli istituti di pena viene costantemente violato e offeso. Questa situazione non può continuare. Occorre che il Sistema sanitario nazionale se ne faccia carico e che la magistratura di sorveglianza esca da una cultura che spesso la vede burocratizzata”. (Il Manifesto, 4 dicembre 2004)

Assistenza sanitaria disastrata: 30 novembre 2004, Carcere di Torino

Domenico Cante, 48 anni, muore nel carcere delle Vallette. Alla lettura della sentenza di primo grado, aveva sventolato una delle sue manone per richiamare l’attenzione: “Non uscirò vivo dal carcere. Morirò molto prima di aver scontato tutti questi anni”. Più di 28. Se non una vita, almeno mezza. C’è chi si rassegna, chi no. Domenico Cante apparteneva a quest’ultima categoria di detenuti. Un infarto se l’è portato via l’altra notte, dopo una vana corsa verso il pronto soccorso del Mauriziano. Il terzo infarto della sua esistenza che aveva svoltato improvvisamente nell’estate 1996, dopo l’inconsueto e geniale colpo alle Poste, che lo vide prima gregario, poi protagonista per aver liquidato in una roulotte, insieme al complice e amico di sempre Ivan Cella, i due ideatori e primi esecutori della sostituzione “in corsa d’opera” del denaro versato per l’Ici con sacchi di carta straccia. Giuliano Guerzoni e Enrico Ughini sembravano spariti verso un’altra vita, quella sognata nelle loro nebbie padane di provincia, dorata come il sole e le donne sudamericane. E invece erano finiti sotto pochi centimetri di terra, a settecento metri in linea d’aria dalla casa dell’autista del furgone, in Valsusa. Cante è morto a 48 anni d’età, a pochi giorni dall’aver dato con successo un esame di idoneità per avvicinarsi al diploma di geometra. Non si può dire che cercasse la morte per quanto, cardiopatico e diabetico, fosse diventato anche bulimico. Divorava la fame e il bisogno di tutti i detenuti, per lui assoluto, di respirare aria pura, magari pure quella inquinata, diversa comunque dall’aria stagnante della vita quotidiana dietro le sbarre. E divorava istanze di differimento pena o arresti domiciliari, codici e avvocati. All’ultimo legale, Mauro Carena, aveva appena dato l’incarico di preparare la richiesta di revisione del processo. Eppure aveva confessato, a ruota di Cella di cui si era descritto come l’eterno succube: “Sì, ho ammesso anch’io dopo di lui, ma non è andata come avevamo raccontato in procura all’inizio del processo in Corte d’assise. Io non ho ucciso”. L’avvocato non dice molto di più. Solo un accenno al bottino (2 miliardi e 52 milioni di lire in contanti, un po’ poco per definire il quartetto gli uomini d’oro del colpo alle Poste). “Un bottino che è sparito. - chiosa il legale -. Posso solo aggiungere qualcosa che mi ha colpito nelle parole di Cante: “Avvocato, quei soldi non li più rivisti, non li ho, ma lei sarà pagato”. Come se qualcun altro fosse in grado di provvedere al posto suo”. (La Stampa, 1 dicembre 2004).

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