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Intervista di R.P. Droit a Michel Focault
by zelda Thursday, Dec. 16, 2004 at 9:10 PM mail:  

Il vero problema è sapere se il chiudersi di questo ambiente su se stesso potrà cessare, se esso resterà o no tagliato fuori dalla vita delle masse popolari

Dai supplizi alle celle

Intervista di R.P. Droit a Michel Focault

D. La prigione, nella sua funzione e nella sua forma attuali, potrebbe sembrare una invenzione improvvisa e isolata, sopraggiunta alla fine del XVIII secolo. Lei mostra, invece, che la sua nascita va ricondotta ad un cambiamento più profondo. Quale?

M.F. Leggendo i grandi storici dell'epoca classica ci si può render conto di come la monarchia amministrativa, centralizzata e burocratizzata quanto si può immaginare, fosse nonostante tutto un potere irregolare e discontinuo, in cui rimaneva agli individui e ai gruppi un certo spazio, per aggirare la legge, trovare una mediazione tra le proprie abitudini e quelle prevalenti, farsi largo fra gli obblighi ecc.. L'Ancien Regime trascinava con sè centinaia e migliaia di ordinanze mai applicate di diritti che nessuno esercitava, di regole che masse di persone sfuggivano. Per esempio la frode fiscale più tradizionale, cosi come il contrabbando più palese, facevano parte della vita economica del regno. Insomma tra la legalità e l'illegalità esisteva un perpetuo accomodamento che rappresentava una delle condizioni di funzionamento del potere in quell'epoca. Nella seconda metà del XVIII secolo questo sistema di tolleranza muta. Le nuove esigenze economiche, la paura politica dei movimenti popolari che diventerà lancinante in Francia dopo la Rivoluzione rendono necessario un altro sistema di quadrettatura (quadrillage) della società. Si è dovuto rendere l'esercizio del potere più sottile, più serrato e far sì che si formasse a partire dalla decisione presa a livello centrale giù giù fino all'individuo, un tessuto reticolare il più continuo possibile. Ed ecco apparire la polizia, la gerarchia amministrativa, la piramide burocratica dello Stato napoleonico.
Molto prima del 1789, i giuristi e i «riformatori» avevano sognato una società uniformemente punitiva, dove i castighi sarebbero stati inevitabili, necessari, simili, senza eccezioni e senza scappatoie possibili. Di colpo, i grandi rituali del castigo costituiti dai supplizi, destinati a provocare effetti di terrore esemplari ma a cui molti colpevoli sfuggivano, spariscono di fronte all'esigenza di una universalità punitiva che si concretizza nel sistema penitenziario.


D. Ma perché la prigione e non un altro sistema? Qual è il ruolo sociale della reclusione, dell'internamento dei «colpevoli»?

M-F. Da dove viene la prigione? Risponderò: «un pò da ogni luogo». E' stata una «invenzione» senza dubbio, ma un'invenzione di tutta una tecnica di sorveglianza, di controllo, di identificazione degli individui, di inquadramento (quadrillage) dei loro gesti, della loro attività, della loro energia. Questo è avvenuto a partire dal XVI-XVII secolo nell'esercito, nei collegi, nelle scuole, negli ospedali, nelle officine.
Una tecnologia di un potere sottile e quotidiano, del potere sui corpi. La prigione è la figura ultima di questa epoca di discipline.
Quanto al ruolo sociale della reclusione, esso va ricercato guardando a quel personaggio che comincia a definirsi nel XIX secolo: il delinquente. La formazione di un ambiente delinquenziale è assolutamente in relazione diretta coll'esistenza della prigione. Si è cercato di costituire all'interno stesso delle masse popolari un piccolo nucleo di persone che avrebbero dovuto essere, per così dire, i titolari privilegiati ed esclusivi dei comportamenti illegali. Gente rifiutata, disprezzata e temuta da tutti.
Nell'età classica invece, la violenza, il furtarello, la piccola truffa erano estremamente comuni e in fondo tollerati da tutti. Il malfattore riusciva benissimo, pare, a fondersi nella società. E se gli capitava di farsi catturare, le procedure penali erano sbrigative: la morte, l'ergastolo, il bando. L'ambiente delinquenziale non viveva quindi in quella chiusura su se stesso che è stata poi organizzata essenzialmente dalla prigione, da quella specie di «marinade» all'interno del sistema carcerario in cui si forma una microsocietà, in cui le persone si legano di una solidarietà reale che permetterà loro, una volta usciti, di trovare e offrire sostegno reciproco.
La prigione è dunque uno strumento di reclutamento per l'esercito dei delinquenti, e a questo che serve. Da due secoli a questa parte si dice: «la prigione fallisce dato che fabbrica dei delinquenti». Io direi piuttosto: «riesce, poichè è proprio quello, che le viene richiesto».

D. Si ripete tuttavia volentieri che la prigione, almeno idealmente, «cura» o «riadatta» i delinquenti. Essa è - o dovrebbe essere secondo quanto si dice - più «terapeutica» che punitiva .

M.F. La psicologia e la psichiatria criminale rischiano di essere il grande alibi dietro il quale mantenere, in fondo, sempre lo stesso sistema. Non potrebbero costituire una alternativa seria al regime della prigione, per la buona ragione che sono nate con esso. La prigione che vediamo consolidarsi subito dopo il codice penale si presenta sin dall'inizio come una iniziativa di correzione psicologica, e già un luogo medico-giudiziario. Si potrebbero perciò mettere tutti i carcerati nelle mani di psicoterapeuti: questo non cambierebbe niente del sistema di potere e di sorveglianza generalizzata approntato all'inizio del XIX secolo.

D. Resta da sapere quale «beneficio» la classe al potere ricava dalla creazione di questo esercito di delinquenti di cui lei parla.

M.F. Ebbene, le permette di rompere la continuità delle illegalità popolari. Essa isola in effetti un piccolo gruppo di persone che si può controllare, sorvegliare, conoscere da cima a fondo e che è esposto all'ostilità e alla diffidenza degli ambienti popolari da cui deriva. Infatti le vittime della piccola delinquenza quotidiana sono tuttora le persone più povere. Risultato di questa operazione è proprio, in fin dei conti, un gigantesco profitto economico e politico.
Profitto economico: le somme favolose che fruttano la prostituzione, il traffico di droga, ecc.
Un profitto politico: più delinquenti ci sono, più la popolazione accetta controlli polizieschi; per non parlare del beneficio di una manodopera garantita per le necessità politiche di più basso livello: attacchini, agenti elettorali, agenti antisciopero ... A partire dal secondo Impero, gli operai sapevano perfettamente che i «crumiri» che venivano loro imposti, cosìi come gli uomini dei battaglioni antisommossa di Luigi Napoleone, uscivano di prigione ...

D. Tutto quello che si progetta e si dibatte riguardo alle «riforme» e sulla «umanizzazione delle prigioni sarebbe quindi un inganno?»

M.F. A mio parere la vera posta politica in gioco non è che i detenuti abbiano una tavoletta di cioccolato il giorno di Natale o che possano uscire per celebrare la Pasqua. Quello che bisognerebbe denunciare di più non è tanto il carattere «inumano» della prigione quanto il suo funzionamento sociale reale quale elemento di costituzione di un ambiente delinquenziale che le classi al potere si sforzano di controollare.
Il vero problema è sapere se il chiudersi di questo ambiente su se stesso potrà cessare, se esso resterà o no tagliato fuori dalla vita delle masse popolari, in altri termini, quello che deve costituire un obiettivo di lotta è il funzionamento del sistema penale e dell'apparato giudiziario all'interno della società. Poiché sono questi ultimi che gestiscono le illegalità, che le fanno agire le une contro le altre.

D. Come definire questa «gestione delle illegalità»? Questa formula presuppone una concezione tutta particolare della legge, della società, dei loro rapporti?

M.F. Solo una finzione può far credere che le leggi siano fatte per essere rispettate e che la polizia e i tribunali siano destinati a farle rispettare. Solo una finzione teorica può far credere che noi abbiamo sottoscritto una volta per tutte le leggi della società alla quale apparteniamo. Cosi come tutti sanno che le leggi sono fatte dagli uni e imposte agli altri. Anzi, mi sembra si possa fare un passo ulteriore. L'illegalità non è un incidente, una imperfezione più o meno evitabile. E' un elemento assolutamente positivo del funzionamento sociale, il cui ruolo è previsto all'interno della strategia generale della società. Ogni dispositivo legislativo ha riservato degli spazi protetti e ben utilizzabili in cui la legge può essere violata, altri in cui può essere ignorata, altri infine in cui le infrazioni sono punite.
Al limite, direi senz'altro che la legge non è fatta per impedire questo o quel tipo di comportamento ma per differenziare i modi di aggirare la legge stessa.

D- Ad esempio?

M.F. Le leggi sulla droga. A partire dagli accordi Usa-Turchia sulle basi militari (che sono legati in parte all'autorizzazione a coltivare l'oppio) fino al minuzioso lavoro di quadrillage poliziesco di rue Saint-Andrè des Arts, il traffico di droga si svolge sopra una specie di scacchiera, con caselle controllate e caselle libere, caselle bloccate e caselle tollerate, caselle consentite agli uni e vietate agli altri. Soltanto i piccoli pedoni sono piazzati e mantenuti nelle caselle pericolose. Per i grossi profitti la via è libera.

D. «Sorvegliare e punire», come le sue opere anteriori, si basa sul setacciamento di una quantità considerevole di materiale di archivio. Esiste un «metodo» di Michel Foucault?

M.F.Credo che oggi i procedimenti di tipo freudiano godano di un prestigio tale che molto spesso le analisi di testi storici si prefiggono di cercare il «non-detto» del discorso, il «rimosso», l'«inconscio» del sistema. Converrebbe abbandonare questo atteggiamento ed essere contemporaneamente più modesti e più curiosi. Infatti quando si esaminano i documenti si è colpiti nel vedere con quale cinismo la borghesia del XIX secolo diceva molto precisamente quello che faceva, quello che avrebbe fatto e perchè. Per essa, detentrice del potere, il cinismo era una forma di orgoglio. E la borghesia non è nè stupida nè vile, salvo che agli occhi degli ingenui. E' intelligente, è audace. Ha detto perfettamente quello che voleva.

Ritrovare questo discorso esplicito implica evidentemente abbandonare il materiale universitario e scolastico dei «grandi testi». Non è certamente nè con Hegel nè con Auguste Comte che la borghesia parla in modo diretto. Accanto a questi testi sacri è rinvenibile una gran massa di documenti sconosciuti i quali costituiscono il discorso effettivo di una azione politica; da essi salta agli occhi una strategia assolutamente cosciente, organizzata, ponderata. Alla logica dell'inconscio si deve quindi sostituire una logica della strategia. Al privilegio che attualmente viene accordato al significante e alle sue articolazioni, si devono sostituire le tattiche coi loro dispositivi.

D. A quali lotte possono servire le sue opere?

M.F. Il mio discorso è evidentemente il discorso di un intellettuale e come tale agisce nella trama dei poteri in atto. Ma un libro è fatto per servire a degli usi che non sono stati definiti da colui che l'ha scritto. Più ci saranno usi nuovi, possibili, imprevisti, più sarò contento.

Tutti i miei libri sia che si tratti della «Storia della follia» o di «Sorvegliare e punire» , sono per cosi dire delle cassette d'arnesi. Se la gente vuole aprirle, servirsi di una data frase, di una data idea, di una deterrninata analisi come di un cacciavite o di una pinza per cortocircuitare, screditare, rompere i sistemi di potere, ivi compresi eventualmente quelli stessi da cui i miei libri sono originati ... ebbene, tanto meglio!

Tratto da
« Le Monde » del 21-2-1975

 
 
http://www.anarcotico.net
 

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