Adriano Sofri continua a fare il furbo. E’ questa la sua vera specialità.
La paginata che Il Tirreno del 28 dicembre gli ha messo a disposizione per esporre il suo ben poco innocente pensiero su William Frediani lo conferma puntualmente.
Adriano Sofri continua a fare il furbo. E’ questa la sua vera specialità.
La paginata che Il Tirreno del 28 dicembre gli ha messo a disposizione per esporre il suo ben poco innocente pensiero su William Frediani lo conferma puntualmente.
Sofri esordisce dicendo che vuole “svolgere alcuni pensieri”, “pensieri non notizie”, perché, afferma: “quanto ai fatti sono pochissimo informato”.
Inizia così, con un trucco, per sottrarsi al giudizio sull’inchiesta. Un trucco per parlare di Willy accettando di fatto l’impianto accusatorio della Procura di Pisa.
L’occhiello dell’articolo è del resto indicativo: “Sofri interviene su William Frediani delle Cor pisane”. Un’accusa debole, senza riscontri e senza prove, diventa in questo modo una certezza. E’ così che la repressione si serve della stampa compiacente.
Non entrare nel merito delle accuse e di come si è mossa la magistratura è un pò troppo comodo. Siamo più precisi: è disonesto, moralmente inaccettabile. Sofri lo sa, ma pensa che le sue furberie anestetizzeranno il disattento lettore. Naturalmente queste piccole astuzie sono fatte soprattutto di gigantesche omissioni.
Perché Sofri non dice niente sulla mostruosità della cosiddetta “riqualificazione del reato” che ha portato all’imputazione per associazione sovversiva con finalità di eversione e terrorismo (art. 270 bis)? Perché non dice che questo atto non si fonda su alcun fatto nuovo? Perché non dice che si tratta di un’autentica porcheria che ha l’unico scopo di tenere William Frediani ed Alessio Perondi in carcere?
Non lo dice perché non può dirlo. La parvenza di asettica oggettività che vuol dare al suo discorso ha bisogno di questi silenzi.
E’ la stessa ragione per cui nel suo discorso c’è la condanna generale della violenza, la condanna specifica di alcune forme di violenza politica, insieme all’assoluzione totale dei detentori e degli utilizzatori del massimo livello di violenza prodotto nella storia dell’umanità.
Sofri si occupa di un portone sbruciacchiato a Pisa, ma non si preoccupa per la violenza del potere, la violenza del sistema, la violenza dell’imperialismo. Non solo non se ne preoccupa, ma trova il modo di giustificare l’occupazione dell’Iraq.
Per lui - testuale - la solidarietà con la Resistenza irachena è “un triste strafalcione politico”, e i militari caduti a Nassyria “meritano solo di essere onorati”. Che fossero, e siano tuttora, truppe di occupazione, al nostro furbastro poco importa.
D’altronde, poche settimane fa, in un’intervista a “Lettera 22” Sofri dichiarava di non aver condiviso la guerra, ma...“visto che le cose sono andate in questo modo” viva le elezioni farsa, viva il fantoccio Allawi, viva soprattutto i liberatori a stelle e strisce che hanno fatto uscire dalle prigioni i prigionieri politici di Saddam.
Su quelli che invece sono entrati nei lager americani, sulle torture, i desaparecidos, anche qui nessuna parola.
Ancora più interessante - sempre nella stessa intervista - la motivazione che Sofri fornisce sulla sua “contrarietà” alla guerra: “La mia vera preoccupazione di fronte all’intervento in Iraq, fatto sotto forma di una guerra che continuo a ripudiare, riguarda proprio la possibilità che il risultato potesse essere una sciitizzazione del paese”.
Abbiamo riportato questa lunga citazione per un solo motivo: sia che parli della guerra infinita di Bush che delle vicende pisane, Sofri si pone sempre - per naturale predisposizione, si direbbe - come consigliere del Principe.
Non era contrario alla guerra come manifestazione del progetto di dominio americano, non era contro la guerra perché imperialista, o più semplicemente perché in contrasto con il diritto internazionale. Non era contrario, fondamentalmente, neppure per motivi umanitari, ma solo perché dalla guerra poteva uscire un nuovo potere ugualmente sgradito all’occidente.
E così sull’inchiesta pisana. Non solo nessuna parola sui misfatti della magistratura, nessuna parola sull’abuso della carcerazione preventiva, nessuna parola sulla sentenza del Tribunale del Riesame di Firenze che in sostanza ha affermato che William Frediani deve stare in carcere in quanto comunista. Non solo questi silenzi, ma anche un’affermazione rivelatrice laddove scrive che questo è “un caso in cui repressione e prevenzione possono e dovrebbero andare insieme”.
Ecco la vera preoccupazione di Sofri: la repressione è necessaria (come la guerra evidentemente), ma da sola non basta. Occorre anche la prevenzione. E quando parla di prevenzione è evidente che non si riferisce tanto alle Cor, quanto ad ogni forma di opposizione di sistema al capitalismo ed all’imperialismo.
Per Sofri, Willy dovrebbe sì essere scarcerato, ma non per una elementare esigenza di giustizia, bensì per un mero calcolo del potere politico nel quale evidentemente l’ex capo di Lotta Continua si riconosce ormai pienamente.
E’ chiaro che Sofri cura in questo modo la sua immagine ed il suo ruolo per accreditarsi sempre più presso un potere marcio e (questo sì) violento. Per ottenere questo risultato ha usato strumentalmente le vicende giudiziarie di Willy, dopo aver ipocritamente premesso che Willy stesso lo avrebbe certo diffidato dal farlo. Ma la sua arroganza senza limiti gli ha evidentemente impedito di tenerne conto. Ed il tono paternalistico che percorre l’articolo finisce per rendere ancora più intollerabile questa arroganza.
Tuttavia noi non pensiamo che Sofri abbia dedicato tutta questa attenzione a Willy solo per legittimarsi di fronte al potere. Chi ha sostenuto la criminale guerra d’aggressione alla Jugoslavia non ha di questi problemi. E se è ancora in carcere lo deve solo all’essersi trovato in mezzo a quella guerra per bande tutte interne al regime che ha sostituito la politica nel sistema bipolare.
No, pensiamo che Sofri sia stato mosso anche da un’altra esigenza di ordine psicologico. Parlando di Willy egli dice: “E’ di quei giovani militanti che devono mandare a quel paese i vecchi e disillusi ex combattenti”. Conosciamo bene Willy e sappiamo che non è suo costume “mandare a quel paese” una persona solo perché disillusa. Se solo di questo si trattasse Sofri sa bene che Willy sarebbe ben disposto a discutere.
Ma quel che da noia all’ex consigliere del Psi è un’altra cosa: è che persone come Willy, che scelgono di lottare contro l’ingiustizia e lo sfruttamento, per fortuna - e nonostante i mille Sofri del mondo - continuano ad esistere.
Questo pungente fastidio Sofri non l’ammetterà mai. Ma la ragione del suo astio è la stessa che ci porta a sostenere pienamente Willy e gli altri compagni colpiti dalla repressione, a partire da Alessio Perondi attualmente detenuto a Torino.
A loro tutta la nostra solidarietà.
A Sofri un solo consiglio: la smetta di credersi sempre “il più furbo”.
COMITATO CONTRO LA REPRESSIONE - PISA
La lettera di Adriano Sofri al direttore del Tirreno, pubblicata il 28 dicembre 2004.
Caro direttore,
vorrei svolgere alcuni pensieri che riguardano il giovane pisano William Frediani, accusato di associazione a scopo di terrorismo. Pensieri, non notizie: quanto ai fatti sono pochissimo informato, e ho provato a recuperare per l’interesse che ha suscitato in me il protagonista della storia. L’ho visto infatti, in questa malaugurata casa comune, per alcuni mesi, e all’improvviso, da sabato scorso, non lo vedo più. Speravo di non vederlo più, perché era alla vigilia di una scadenza dei termini per la custodia in carcere: speravo che fosse messo fuori di qui e rimandato a casa. Invece, con la gravissima nuova imputazione, è stato trasferito - “sballato”, si dice in galera: rende meglio l’idea - al carcere di Spoleto, definito «di massima sicurezza».
Benché abbia avuto a che fare con Frediani, nelle occasioni brutalmente intime che sono proprie della prigione - i colloqui con i famigliari svolti fianco a fianco, ascoltando senza volere commosse parole altrui, vedendo senza volere sorrisi e lacrime altrui; e poi le partite a biliardino, e le quattro chiacchiere a un tavolino della stanza comune - non ho alcuna sua autorizzazione a parlarne. Immagino che me ne diffiderebbe. E’ di quei giovani militanti che devono mandare a quel paese i vecchi e disillusi ex combattenti.
L’impressione simpatica che ne ho - un ragazzo carino, orgoglioso, gentile, intelligente, scemo, premuroso verso i più disgraziati di qua dentro - vale poco. Non è affatto detto che simili doti umane contraddicano le peggiori fesserie politiche. Tanto meno valgono le mie opinioni sulla sua responsabilità o no riguardo alle accuse che gli sono mosse, e dunque non le nominerò nemmeno. Siccome mi piacerebbe che leggessero i miei pensieri anche i magistrati e gli inquirenti che si occupano dell’indagine, dirò invece del tutto francamente che cosa penso dei fatti sui quali si indaga. Ne penso malissimo. Ne penso come ogni persona perbene, e come il sindaco di Pisa, per esempio, e chiunque sia affezionato a questa città. Io le sono affezionato, perfino da qua dentro.
Comincerò dalla lettera di minacce e di insulti spedita alla signora Paola Coen, vedova del maresciallo Fregosi. E’ una lettera infame. Che i suoi autori siano stati spinti dalla solidarietà con la cosiddetta resistenza irachena, comprese le sue imprese terroristiche, mostra che un triste strafalcione politico può tradursi nell’infamia umana. La morte del maresciallo Fregosi e dei suoi commilitoni (e di bravi civili) a Nassirya merita solo d’essere onorata, così come il dolore dei suoi cari. La signora Coen è ebrea, e questo aggrava l’infamia: e non la attenuano in alcun modo le predilezioni della signora per uno schieramento politico o l’altro.
Gli attentati addebitati ai “Cor” (”Cellule di offensiva rivoluzionaria”: non è solo il centrosinistra legale a escogitare titoli insulsi) sono evidentemente, nelle intenzioni dei loro sconosciuti autori, e per fortuna anche nel loro esito, atti dimostrativi. Dico per fortuna, perché quando si maneggiano congegni incendiari, sia pure i più rudimentali, è la sorte a decidere della differenza fra un atto senza conseguenze sull’incolumità delle persone, e la tragedia. Il fuoco appiccato alle porte di abitazioni, come quella della signora Fusco, o della famiglia Petrucci, esponenti pisani di Alleanza Nazionale, può ridursi a una bruciacchiatura molesta. Ma non si deve mai credersi abbastanza giovani per non ricordarsi dell’orrore del rogo di Primavalle, anche se non si era nemmeno nati: e nessuno degli imputati dei “Cor” era nato. Gli autori di quel rogo non immaginavano certo di compiere una orribile strage di bambini e del loro padre. La mala sorte calcò la mano: ma le cose che sfuggono di mano non riducono l’orrore. Forse la fede (e la superstizione) antifascista militante, che era la loro e la nostra, li illuse poi di essere meno irreparabilmente colpevoli.
Bisogna di nuovo persuadere, provarci almeno, chi compila elogi antimperialisti delle taniche di benzina e chi dà fuoco a porte di casa - chiunque ci abiti - a misurarsi con quella storia. Questo penso delle azioni imputate ai giovani pisani. Quanto alle parole loro addebitate, grondano di una retorica imbecille e di un gusto della minaccia megalomane. Parole simili erano frequenti anche al mio tempo: suonavano forse meno imbecilli, perché sembravano meno anacronistiche. L’imbecillità, quando è così retorica e così compiaciuta di sé, è imperdonabile. Ma le parole restano parole, almeno per la valutazione giudiziaria. La nozione di “propaganda armata” mi sembra piuttosto equivoca. Che una cosa sia armata, basta e avanza a condannarla, senza bisogno di chiamare in causa la propaganda. Ma, fuori dalle competenze giudiziarie, le parole prendono in ostaggio chi le pronuncia, e prima o poi gli presentano il conto.
Specialmente esose sono le parole pronunciate in pubblico, o davanti alla ragazza - o al ragazzo - che si vuole conquistare. E’ come rovinarsi al gioco in una notte: viene la mattina dopo. Bisogna tener dietro alle proprie parole, quando si è giovani e si deridono gli adulti che non si sono dimessi dalle parole troppo forti, benché non si sognino di tradurle in fatti.
Questa è la mia opinione sulla congerie di reati di cui si occupa l’inchiesta. Fatti - benché fortunosamente - che non hanno superato la soglia dell’irreparabilità, segnata dalla violenza inferta alle persone. Di qua da questa soglia, chi ne abbia partecipato ha il tempo per tirarsene indietro illeso, ammesso che non sia stupido, e che sia coraggioso. Coraggioso sul serio: perché riconoscere, prima di tutto con se stessi, un simile errore, vuole più coraggio che restarsene in una piccola banda, reciprocamente fomentati e spalleggiati, a bruciare automobili e spedire clandestinamente bossoli di proiettili. Questa occasione gli “anarcoinsurrezionalisti” - nome davvero fesso - ce l’hanno, chiunque siano. Ma anche i loro avversari, l’opinione pubblica, le istituzioni civili, i giornali, e più peculiarmente gli inquirenti, hanno a che fare con questa occasione. Ecco un caso in cui repressione e prevenzione possono, e dovrebbero, andare insieme. Ammettiamo infatti che gli inquirenti mettano le mani sugli effettivi autori di attentati e rivendicazioni. E’ un loro interesse, e di tutti, che quelle persone non rendano cronica e indurita la loro scelta. Niente è più efficace del carcere nell’inchiodare i combattenti amatoriali, e i loro sostenitori, alla professione. Il carcere conferisce loro un’aura magnanima di persecuzione, induce i loro sodali a esigere sui muri la loro libertà - per esempio, “Willy libero”: ho fatto qualche escursione nelle strade di Pisa, e l’ho letto - e, siccome non si è anarcoinsurrezionalisti per niente, a riscattare la richiesta singola con l’altra plenaria: “Liberi tutti”.
Chi sta in carcere, anche nelle notti lunghe e sole trascorse in una cella di Pisa o di Spoleto, farà fatica a deludere le scritte sui muri: sono la sua nuova carta d’identità. Il carcere, brutto e triste com’è, riesce ancora a nobilitare un imbecille qualunque: figuriamoci un ragazzo simpatico, premuroso con i disgraziati, bravo studente, pronto al dialogo e alla conversazione. Così devo pensare, a giudicare dalla serietà con cui, come me e tanti, frequentava la chiesa e il prete del carcere. Da questo punto di vista, che Frediani sia o no responsabile dei reati che gli vengono imputati non cambia: anzi, il meccanismo può travolgerlo ancora di più se è loro estraneo, non userò la parola innocente. Il passaggio alla Procura antiterrorismo fiorentina, la traduzione a un carcere di massima sicurezza come Spoleto, sono misure dolorose per Frediani (e molto di più per i suoi cari) ma possono anche diventare medaglie al valore combattente sul suo maglione, invidiate dal suo piccolo pubblico. C’è una deformazione ottica crescente. Anche nella fisionomia. Che Willy sia carino non è un argomento a suo favore. Però se uno guarda la sua fotografia sui giornali, sempre la stessa, un ceffo allarmante, là c’è un argomento a suo sfavore. O i titoli: «Aveva in carcere il Corano». Io ho in carcere il Corano, e mi adopero per procurarne altri ai ragazzi musulmani che non riescono a procurarselo. Scorro le fotocopie degli articoli dedicati al caso dal suo esordio, e Willy passa nel giro di pochi mesi da aderente di un’associazione a delinquere a capo di un’associazione a scopo di eversione - art. 270 bis - il più grave. Trovo che anche dalla parte di chi aborre taniche di benzina e lettere minatorie bisognerebbe tenere una proporzione fra le parole e i fatti.
Sugli stessi giornali locali, mi aspetterei che non ci si limitasse alla cronaca nera e giudiziaria, ma che si discutessero le opinioni dei giovani accusati, senza nessuno sconto, e senza rimozioni perbeniste. E’ un peccato che argomenti e sentimenti esistenziali, che hanno tanta parte in queste vicende, siano ignorati, o relegati alla rubrica delle lettere - la lettera di una professoressa di Frediani, delle sue antiche compagne di scuola... Ci sono persone che scelgono la clandestinità: invitateli a fare due chiacchiere, e ne avranno meno voglia. E in ogni caso, ci avrete provato.
Ho letto in un’ordinanza dei magistrati, a proposito di Willy e coimputati: «Immersi in ideologie e considerazioni farneticanti e via via sempre più sganciati dalla realtà...». Agganciarlo a lungo alla realtà del carcere di Pisa, e a peggior ragione di Spoleto, non è una idea così conseguente.
La legge è come il sabato, o dovrebbe essere. E’ fatta per l’uomo, non l’uomo per la legge. Non solo per il futuro di Willy Frediani, che non è da buttar via, ma anche per la pubblica sicurezza, è più sensato il prolungamento della sua detenzione a Spoleto, o il suo ritorno a casa? Per me la risposta è chiara: e non solo per l’aria di Natale.
Adriano Sofri
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