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Onda anomala, solite armi
by LASER Sunday, Jan. 02, 2005 at 7:11 PM mail: info@e-laser.org 

Considerazioni relative al disastro causato da un recente maremoto nel sud-est asiatico.

Lo Tsunami che ha investito varie regioni nel sud-est asiatico è comparabile per entità della tragedia ad una bomba atomica scriveva La Repubblica del 30.12.2004. Il numero di morti cresce di ora in ora passando dal dato reale dei 125 mila alla stima di almeno 400 mila. I governi di tutto il mondo stanno preparandosi a inviare aiuti umanitari mentre si temono le conseguenze di possibili epidemie. I telegiornali parlano di gara di solidarietà fra le nazioni. Il magnanimo Berlusconi suggerirà al magnanimo Blair di abbattere il debito che i paesi del sud-est asiatico hanno contratto in passato con i paesi sviluppati. Il paragone tra tragedie naturali e armi atomiche è tanto calzante quanto paradossale, cosa c’entra la natura con la guerra, il disastro ambientale con le armi? Vediamo…
In molti si sono chiesti una tale tragedia poteva e doveva essere anticipata. Il molti hanno sottolineato che no, non poteva essere fatto. Qui tuttavia le risposte sono di vario genere. Alcuni sottolineano che il disastro è “naturale” e che mentre le guerre sono prevedibili, i fenomeni naturali e le forze della natura non lo sono. Ma queste posizioni sono facilmente confutabili. L’uomo ha imparato a dominare la natura e se non a dominarla almeno ad avere un rapporto dialettico con essa che consente di monitorare, investigare, analizzare e sconfiggere fenomeni come lo Tsunami. In tal senso si ricorda il caso del Giappone e degli Stati Uniti, che hanno efficienti sistemi di protezione. Come spiegato già dall’ingegnere Luigi Cavalieri dell’Istituto di Scienze Marine del CNR di Venezia, un opportuno sistema di previsione e informazione della popolazione avrebbe permesso di evitare il disastro, o almeno limitarlo. Robin McKie, corrispondente scientifico del giornale inglese Guardian ricordava inoltre che sistemi di monitoraggio contro gli Tsunami esistono da circa 40 anni nel Pacifico e che sebbene questi sistemi non avrebbero potuto fare nulla nelle regioni più vicine all’epicentro del terremoto, avrebbero di certo potuto anticiparlo nelle regioni dello Sri Lanka ad esempio che sono state colpite a circa due ore e mezzo di distanza dall’inizio dell’evento sismico.

Quindi il problema diventa capire perché i paesi in questione non hanno sistemi di monitoraggio adeguati. In molti hanno anche qui adottato spiegazioni semplicistiche. Si tratta di paesi poveri o in via di sviluppo che non potevano dotarsi di misure di protezione adeguate. Ma si tratta veramente di una mancanza endemica di risorse scientifiche e tecnologiche adeguate? Perché un sistema di monitoraggio come quello presente al laboratorio americano JET di Pasadena non è stato sviluppato anche in Indonesia, Tailandia, Malesia, Sri Lanka o India?

Sarebbe opportuno ricordare dati storici importanti che generalmente non compaiono sui giornali di oggi per avere un quadro completo della situazione. Il paragone tra tragedie naturali e armi qui calza a pennello. Se infatti solo una minima porzione degli investimenti fatti in passato dalle nazioni del sud-est asiatico nell’approvvigionamento di armi fossero stati diretti verso l’approvvigionamento di sistemi di monitoraggio allora la tragedia si sarebbe potuta forse evitare. Ma i paesi del sud-est asiatico sono stati per anni tra i maggiori clienti dell’industria bellica occidentale. Oggi possiamo quindi dire che la ‘gara di solidarietà’ fra le nazioni occidentali per gli aiuti umanitari giunge alla fine di una gara vera e propria a chi vendeva loro più strumenti di morte e distruzione. La distruzione naturale causata dallo Tsunami appare in prospettiva solo come una ulteriore punizione per l’uso errato delle risorse scientifiche e tecnologiche dell’uomo nel contesto del capitalismo globale degli ultimi venti anni. Invece di usare tali risorse per sostituire la morte con la vita, la distruzione naturale dello Tsunami si è sovrapposta a quella artificiale delle guerre e delle loro economie. Si è sovrapposta la morte alla morte.

Partiamo dall’Indonesia, un paese che sin dal 1960 ad oggi ha investito somme enormi nell’approvvigionamento di armi, come ricorda John Pilger nel suo libro Hidden Agendas scritto nel 1997. Si considerino ad esempio i 700 milioni di sterline spesi nel 1997 per l’acquisto dei veicoli antisommossa ‘Tactica’ prodotti da industrie inglesi e vendute a dispetto delle normative per il controllo sull’export delle armi per risolvere manu militari il conflitto con Timor Est. Oppure gli aerei Hawk venduti al governo di Jakarta dalla British Aerospace con l’autorizzazione del governo inglese. Una stima approssimativa ci dice che il costo di un aereo di questo genere consentirebbe di garantire acqua potabile a circa un milione e mezzo di persone. Di questi aerei sempre nel 1997, il governo tailandese ne ha acquistati circa 18. Non si tratta certo di dati nuovi e la presenza del traffico d’armi nei paesi del sud-est asiatico è ben conosciuta. Tuttavia proprio nel momento in cui la tragedia assume proporzioni spaventose non c’è nessuno che ne parli apertamente.

È bene ricordare che sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna hanno fornito ai paesi del sud-est asiatico strumenti di morte. Il traffico di armi delle industrie inglesi con i paesi asiatici si avvale di uno speciale credito messo a disposizione dei loro governi ai tempi di Margaret Thatcher e gestito attraverso un organismo britannico, l’Export Credit Guarantee Department (ECGD), che permette –specialmente ai paesi del sud-est asiatico- di acquistare armi a condizioni vantaggiose. Quello infatti che non compra a credito l’Indonesia, lo compra la Malesia, un altro dei paesi colpiti dallo Tsunami. Nel 1994 il governo malese stava per costruire una diga per l’approvvigionamento idroelettrico spendendo circa 1,3 milioni di sterline. Esponenti del ministero degli esteri inglese suggerirono che la diga non era conveniente e suggerirono quindi l’acquisto di aerei Hawk per la stessa cifra. Qui come si può ben vedere la contraddizione è lampante. Se ci fosse stata una gestione diversa delle risorse scientifiche e tecnologiche, l’Indonesia e la Malesia avrebbero potuto rispondere allo Tsunami con tempestività. Ma le industrie belliche britanniche avrebbero guadagnato molto meno.

Un altro esempio? Nel 2001, l’associazione indipendente Safeworld rivelava che lo Sri Lanka, altra vittima illustre della catastrofe naturale di questi giorni, è tra i maggiori clienti dell’industria bellica britannica (insieme a Filippine, Marocco, Zambia, Nepal, e Paraguay) nel traffico d’armi piccole come ad esempio le mitragliatrici. Safeworld avrebbe voluto dare maggiori informazioni sulle quantità e le licenze che hanno garantito tutto questo, ma per il governo britannico tali informazioni sono segreti di stato.

Dal 2002, nuove leggi hanno introdotto controlli più ferrei nell’esportazione di armi e i paesi occidentali si sono impegnati a non vendere più armi ai paesi del sud-est asiatico. E d’altra parte lo sviluppo dei conflitti in Afghanistan e in Iraq ha offerto nuove risorse economiche all’industria bellica occidentale. Insomma, l’industria della morte non si ferma mai. E in ogni caso tale commercio non si è affatto esaurito, visto che quello che Stati Uniti e Gran Bretagna non vendono più lo vende la Russia.

Nel Giugno 2004, agenzie militari russe informavano che l’India –vittima dello Tsunami- stava per acquistare lo Smerch, un nuovo sistema per il lancio di razzi. Il contratto per la vendita del sistema elaborato dalla russa Splay veniva firmato dal ministro per la difesa indiano durante la fiera delle armi DEFEXPO India-2004 che si è svolta a Nuova Delhi. Non sono del tutto chiari i costi della trattativa, ma sembra opportuno ricordare che l’India insieme al Pakistan hanno sviluppato un programma per dotarsi di armi nucleari tanto dispendioso quanto debilitante per l’economia di nazioni che avrebbero potuto investire in risorse scientifiche e tecnologiche per risolvere atavici problemi di malnutrizione, povertà, epidemie e infine disastri naturali.

Nel Settembre 2004 la Tailandia, altro paese colpito dalla furia delle acque, stava per acquistare circa 6 Sukhoi Su-30 dall’industria aeronautica sovietica per il costo di circa 200 milioni di dollari. Fino ad allora la Tailandia comprava prevalentemente jet americani. La Sukhoi Corporation è la compagnia bellica con il giro d’affari più prolifico della Russia che si aggira attorno ad 1,5 miliardi di dollari nel solo 2004 per l’esportazione di 40 nuovi Sukhoi. Chi li compra? Prevalentemente l’Indonesia, il Vietnam e la Malesia.

Insomma, il sud-est asiatico figura fra le regioni del mondo in cui il commercio di armi è in enorme crescita, sottraendo risorse ad altri settori –come quello della prevenzione ambientale- che oggi avrebbero consentito di anticipare la tragedia dello Tsunami. Secondo il dipartimento di stato americano all’Agosto 2000, tutti gli stati di questa regione registravano incrementi significativi nell’importazione di armi. Nel 1997, in tutta l’Asia (includendo quindi anche la Cina) insieme al Medio Oriente e all’Europa occidentale si vendeva oltre l’80% dell’intera produzione di armi nel mondo. E mentre quest’ultima comprava sempre meno armi, le prime due duplicavano la loro fetta di traffico d’armi. La spesa complessiva in armi in Asia si aggirava nel triennio 1995-1997 a circa 35 miliardi di dollari. Si consideri che stime approssimative sul disastro in Asia valutano i costi complessivi della tragedia in circa 18 miliardi di dollari –circa la metà di questo giro d’affari. E che forse un quinto di quanto speso in armi in Asia sarebbe stato più che sufficiente a dotare questi paesi delle strutture adeguate per prevenire il disastro.

Così siamo oggi a piangere i morti dello Tsunami tra un’intervista a un calciatore, un’attrice e benediciamo la solidarietà del mondo occidentale, così come la magnanimità di Blair e Berlusconi. Ma la realtà mostra che nell’economia della tragedia il ruolo che gioca la scienza e la tecnologia è fondamentale così come fondamentali sono i loro usi. Le politiche di sottrazione dei saperi e le pratiche volte a definire l’uso sociale della scienza e della tecnologia diventano ancora una volta centrali per capire la recente tragedia e le sue contraddizioni. Così come in altre occasioni abbiamo sottolineato l’urgenza di limitare i profitti delle case farmaceutiche per consentire ad esempio l’approvvigionamento di medicine anti-AIDS in Africa, qui dobbiamo sottolineare l’urgenza di trasformare un commercio di prodotti scientifici e tecnologici di morte in un commercio di vita. La vera soluzione al problema dello Tsunami non passa attraverso la carità dei telefonini attraverso cui fare donazioni (chiariamoci: lo abbiamo fatto e lo faremo in futuro), ma piuttosto attraverso la re-definizione di quale scienza e tecnologia diffondere nel pianeta e come farlo. Se il sud-est asiatico spenderà in futuro meno soldi in bombe atomiche, aerei supersonici, mitragliatori e altre armi di vario tipo, forse avrà risorse sufficienti per prevenire gli Tsunami e investire più soldi in ricerca scientifica e tecnologica meno distruttiva e più utile alle società di quella parte del pianeta.

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il gen.Suharto ha fatto di più . Sunday, Jan. 02, 2005 at 8:38 PM
curiosità precariato sociale Sunday, Jan. 02, 2005 at 8:00 PM
76 i76 Sunday, Jan. 02, 2005 at 7:31 PM
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