Le installazioni petrolifere salvate dallo tsunami. Da quattro anni dispongono di un efficace sistema di preallarme contro il maremoto
Dieci ore di ritardo nelle consegne. Questo è stato l'effetto del maremoto sugli impianti di estrazione di gas naturale e petrolio nel nord di Sumatra. Già il 28 dicembre la Reuters annunciava che «l'impianto di Arun, nell'estremo nord di Aceh, ha avuto la fortuna di venire risparmiato». Poche ore dopo faceva eco una nota ufficiale di Pertamina, la compagnia petrolifera statale: «le attività produttive in Aceh sono continuate senza interruzione - anche perché - per prevenire i problemi dovuti a una possibile distruzione di tre depositi, Pertamina ha preso delle iniziative per ridistribuire le scorte di carburante». Prevenzione? Ebbene sì: a differenza delle centomila vittime le compagnie petrolifere disponevano di un efficiente sistema di preallarme. Si tratta dell'Asean Sub-Committee on Meteorology and Geophysics (Ascmg) la cui messa a punto è stata annunciata durante il 23° meeting dell'Associazione delle nazioni del sud-est asiatico, appunto l'Asean, il 1 settembre del 2000. Il sistema ha consentito alle compagnie petrolifere di mettere al riparo il personale e, perfino, di «prevenire i problemi», come dichiara il portavoce della compagnia di Stato. La produzione è quindi continuata a pieno ritmo, con il solito milione di barili di petrolio giornalieri e i 20,86 milioni di metri cubi di gas naturale (al giorno) solo dall'impianto di Arun, situato proprio nella zona devastata dallo tsunami.
Chi non si accontenta della favoletta degli americani che mobilitano lo Us Pacific Command (una forza di 300 mila uomini) soltanto per recuperare la propria immagine fra i paesi musulmani, può dare un'occhiata alla mappa: Sumatra pullula di giacimenti di gas, istallazioni petrolifere di terra e di mare e oleodotti in costruzione. Nell'Aceh in particolare sono presenti tutti i nomi della lobby petrolifera mondiale - come la Exxon Mobil, chiamata più volte a rispondere davanti alle Nazioni Unite per le devastazioni ambientali e la reiterata violazione dei diritti umani contro le popolazioni dell'Aceh che sono state deportate - quando venivano requisite le loro terre derubate delle proprie ricchezze naturali e infine decimate in un conflitto che ha opposto gli indipendentisti a uno degli eserciti più feroci e meglio armati della regione. Un conflitto che ha provocato 12 mila morti, prevalentemente civili, su di una popolazione di circa 4 milioni di persone.
Ma le persone, si sa, contano poco quando il bottino è consistente. Il 30 per cento di tutte le esportazioni di gas naturale dell'Indonesia, primo produttore mondiale, provengono da questa martoriata regione. Da sempre l'Aceh combatte per la propria indipendenza: prima contro gli olandesi e poi contro Giakarta che, dal 1953, alterna il bastone della repressione alla carota del "territorio a statuto speciale". Ma le concessioni amministrative non bastano e nel 1976, quando viene fondato il Free Aceh Movement, il conflitto riprende con un crescendo di ferocia e brutalità che tocca il culmine nel 1999, quando le attività di estrazione di gas e petrolio cominciano a marciare a pieno ritmo e, di nuovo, nel maggio del 2003, con la dichiarazione della legge marziale e alla chiusura totale dei territori a diplomatici e giornalisti stranieri.
Lo tsunami costituisce quindi un'occasione senza precedenti per liberarsi del movimento separatista che, fra l'altro, chiedeva una migliore distribuzione delle risorse - l'Aceh contribuisce per l'11 per cento al Pil dell'Indonesia ma riceve poco più del 2 per cento degli investimenti - e una percentuale più alta sui diritti estrattivi. Entrambe le richieste considerate inaccettabili sia dal governo indonesiano che dalle compagnie occidentali. Per questo Giakarta ha aspettato ben quattro giorni per fare entrare i primi soccorsi nelle zone colpite e per questo, grazie all'avallo dello Zio Tom, si appresta a inviare altre truppe con la scusa degli aiuti: 15 mila soldati, che si vanno ad aggiungere ai 40 mila presenti dal maggio del 2003, in un territorio grande quanto Lombardia e Piemonte messi insieme.
E come gli americani, che approfittano dello tsunami per uno spiegamento di forze che, come scrive il Los Angeles Times «solo poche settimane fa avrebbe provocato un'ondata di proteste in tutta l'Indonesia», anche per Giakarta il maremoto è un'occasione da cogliere al volo. Grazie «al più alto livello mai raggiunto di collaborazione fra le forze armate statunitensi e quelle indonesiane», come ha dichiarato l'ammiraglio Usa Doug Crowder, l'esercito dell'Indonesia può invadere l'Aceh sotto gli occhi indifferenti del mondo. Per fare cosa? Il Tenente colonnello DJ Nachrowi l'ha detto chiaramente al Jakarta Post: «Abbiamo due compiti: il lavoro umanitario e le operazioni di sicurezza» e garantisce che i raid contro il movimento per l'Aceh libero continueranno finché il presidente Susilo Bambang Yudhoyono non dichiarerà l'emergenza finita. Ma, a quanto pare, il presidente non ha manifestato alcuna indicazione in tal senso.
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