Una piazza immensa. Per Giuliana e la pace.
C’è una teoria del numero ponderato, del gioco al rialzo, per cui, spesso, i partecipanti alle manifestazioni si calcolano più “a peso politico” che con cifre reali. Ma quando un corteo, una manifestazione passa nel Circo Massimo è difficile sbagliare: sono duemila anni che sta lì per quello, il prato davanti a porta Capena. Mezzo milione di persone - lo dicono alcuni graduati della polizia municipale della capitale, avvezza ai conti - hanno sfilato sabato per chiedere la liberazione della giornalista de il manifesto Giuliana Sgrena, per la liberazione di Florance Aubenas di Libération, e di tutti gli ostaggi innocenti, i giornalisti non embedded, non arruolati, catturati in Iraq. Dunque per la libertà di informazione, come ricorda dal palco Paolo Serventi Longhi a nome di tutti i giornalisti italiani e anche a nome di Giuliana. Ma soprattutto tutte quelle persone scese in piazza, salite sui treni, scese dai pullman, lo hanno fatto per chiedere la fine della guerra, di un conflitto nato ingiusto e non diventato migliore, anzi, con il voto del 30 gennaio.
Le posizioni del popolo arcobaleno che si è visto in piazza sabato a Roma hanno sfumature diverse: si vedono cartelli che chiedono il “disarmo mondiale”, altri in cui si spera in un “25 aprile anche per l’Iraq”. E c’è chi è per il “ritiro immediato senza se e senza Onu” come quelli del sito redlink che si definiscono “comunisti senza partito” e di fatto gravitano nell’area antimperialista. Loro sono però solo una particella delle tante, fluttuanti in un fiume dai colori dell’iride.
La gente è venuta per lo più senza far capo a partiti o associazioni. Portano bandiere della pace più che altro annodate al collo. Oppure non bandiere ma borse o ombrelli, girandole, bandane, maglioni, fasce per capelli. Indumenti, oggetti d’uso quotidiano multicolori, portati un po’ come i drappi appesi alle finestre per dire che l’impegno per la pace è sempre. Pochissimi sono quelli truccati o mascherati. Per lo più i manifestanti per Giuliana Sgrena hanno volti non più giovani, non ancora vecchi. Diciamo quaranta-cinquantenni, quella “generazione x” di cui parlano le riviste patinate perché poco visibile, poco propensa all’impegno, sfiduciata dalla politica di partito. Sono loro ad aver via via ingrossato il corteo di Roma.
Un corteo composto ma non funereo, in cui spiccavano due grossi tronconi: quello bianco di Emergency e quello nero delle Donne in nero, le due presenze organizzate più consistenti, a parte l’Arci e i giornalisti. Le Donne in nero portano cartelli su l’articolo 11 della Costituzione o con vecchie - ma non logore - parole d’ordine del movimento della pace degli anni ‘80: “Stop the war”, “Fuori la guerra dalla storia”. E tante foto di Giuliana, vignette di Vauro, foto di iracheni colpiti, uccisi. Vengono da l’Aquila, da Grosseto, da Napoli, da Verona. E quando la testa del corteo con i genitori di Giuliana, il suo compagno Pier Scolari e i colleghi del manifesto passano scortati in religioso silenzio davanti all’Altare della Patria, le donne in nero si dispongono come soldatini con manine di cartone davanti ai cordoni di celerini schierati a gambe divaricate a difesa del monumento. «È per coprire la vergogna di chi non distingue i colori della pace e vede sempre solo rosso sangue», spiega Maria Chiara. .
Del resto centri sociali non se ne vedono in tutto il corteo. Nessuno slogan, nessun passamontagna, nessuna contestazione. E la presenza di blindati e polizia, per quanto discreta, appare persino eccessiva. Non ci sono neppure i camion-discoteca, a parte un furgoncino degli studenti dell’Uds che diffonde con qualche imbarazzo, le canzoni un po’ sanremesi dei “Meganoidi”. Anche la presenza del Forte Prenestino, il centro sociale più grande di Roma e di solito quello con più ansie di autopromozione, è discreta: solo un cartello di cartoncino nero poco più grande di un adesivo con la scritta “ostaggi della guerra”. Ci sono solo le orchestrine da strada, ma nessun ballo alla Kusturica, nessuna capoeira orgiastica da manifestazione.
In via Cavour arriva Romano Prodi. Raggiante, accompagnato dalla moglie e dallo staff della Fabbrica del Programma di Bologna, da Castegnetti e Borselli. «Non capisco come ci si possa dividere», dice. Abbraccia Piero Fassino e Paolo Cento con uguale entusiasmo. Unità.
«Se il movimento si è un po’ ibernato negli ultimi tempi è perché si è disorientato di fronte a tanta divisione. Ma ora è la forza dell’Unione che lo ha riportato in vita». Questa è la posizione di Simona e Orleo, di “Comunità 2002”, associazione di cultura politica che a Napoli, Milano, Roma, Ivrea che raccoglie l’eredità del movimento iniziato da Adriano Olivetti negli anni Cinquanta. «Furio Colombo ci conosce bene», vuole assolutamente aggiungere Simona, che cita l’editoriale del giorno. “Che cosa è l’unità”. E allora Rutelli che non è voluto scendere in piazza? «L’importante – risponde Simona - è questa grande manifestazione, Rutelli si adeguerà». E devono aver colpito nel segno, gli eredi di Olivetti, visto la reazione scomposta del ministro Calderoli. Data la concezione della democrazia del coordinatore leghista mezzo milione di persone in piazza sono state «solo uno spot elettorale dell’Unione».
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