Droghe: ecco il piano "svuota carceri"
di Stefano Arduini Vita, 15 febbraio 2005
Processi per direttissima. E poi affidamento alle strutture pubbliche o del privato sociale. Sarà la procedura per chi viene arrestato per reati minori legati alla droga. Grandi manovre sul pianeta carcere. In superficie traspare ancora poco, ma dietro le quinte l’ambiente è in fibrillazione. Il sasso nello stagno è stato lanciato dal Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, che il 27 gennaio scorso ha reso noto il progetto Dap Prima. Un’iniziativa presentata in pompa magna (per l’evento si è scomodato persino il premier Berlusconi: "I tossicodipendenti non possono stare in carcere, ma devono essere ricoverati in strutture adeguate e gestite da professionisti") che consentirà ai detenuti con problemi di droga di lasciare la cella (nel 2004 sono transitati per le patrie galere 24.113 tossicodipendenti). L’idea è di costituire, seguendo l’esempio americano, una rete di drug court, ovvero sezioni di tribunali ad hoc che si occuperebbero di reati correlati alla dipendenza. Questi uffici si dovrebbero avvalere di un servizio di connessione gestito da un’équipe di esperti sul modello di quella operante a Milano dal 1993 e guidata da Dario Foà.
Sovraffollamento addio
Il tossicodipendente fermato o arrestato per reati minori sarebbe processato per direttissima e quindi preso in carico dal servizio pubblico o dal privato sociale. Se questo sistema fosse applicato a livello nazionale (per ora sono state predisposte sperimentazioni a Roma, Padova, Reggio Calabria e Catania, oltre che a Milano) la stragrande maggioranza dei 15.097 tossici detenuti al 31 dicembre 2004 (il 26,93% del totale della popolazione carceraria) prenderebbero la strada dei Sert o delle comunità. Una vera e propria rivoluzione. Ma anche una risposta tangibile alla questione del sovraffollamento: 56.068 detenuti a fronte di 41mila posti disponibili. Con uno scarto proprio di 15mila unità. L’iniziativa del Dap arriva in un frangente non casuale. Ha, infatti, anticipato di pochi giorni la presentazione, per iniziativa governativa, della modifica degli articoli 89, 90 e 94 del disegno di legge Fini. In particolare quest’ultimo tratta l’affidamento in prova delle persone tossicodipendenti. Nella nuova versione l’articolo 94 prevede l’equiparazione fra strutture sanitarie pubbliche e private oltre ad ampliare il limite di pena consentito. Una modifica che riporta all’ordine del giorno l’idea di un "carcere privato per i tossicodipendenti". L’ipotesi era già stata bocciata nel dicembre 2001, quando la Comunità di San Patrignano fu ad un passo dall’assumere la gestione dell’ex carcere di Castelfranco in Emilia Romagna. Quell’idea però non è mai stata abbandonata. Lo ammette il capo del Dipartimento nazionale antidroga Nicola Carlesi, e lo conferma il passaggio di competenze da Gianfranco Fini a Carlo Giovanardi. Da poche ore infatti l’agenda della politica sulla droga è nelle mani del ministro per i rapporti con il Parlamento, che, in via del tutto informale, ha però di fatto ereditato la delega dal neo ministro degli Esteri, evidentemente troppo assorbito dagli impegni in giro per il mondo per seguire le sorti della legge che reca la sua firma. E proprio Giovanardi nel 2001 fu un accanito sponsor di Andrea Muccioli.
Giro di vite sulla recidiva
Ma c’è di più. La conclusione dell’iter parlamentare della legge Fini (attesa per le settimane successive alle elezioni del 3 e 4 aprile) sarà anticipato dal giro di vite sulla recidiva (il tasso per i tossicodipendenti si aggira intorno al 70%) previsto dalla Cirielli-Vitali (meglio nota come "salva Previti"). Un provvedimento che restringendo l’accesso alle misure alternative rischia di vanificare il progetto svuota carceri del Dap: infatti l’associazione Antigone per la sola "salva Previti" prevede una media di 20mila nuove presenze. Nel frattempo, il progetto del ministro della Giustizia, Roberto Castelli di costruire 23 nuove carceri rimane fermo al palo. Il Cipe - Comitato interministeriale per la programmazione economica ha infatti approvato la versione aggiornata del programma di edilizia penitenziaria (oltre 214 milioni di euro per il triennio 2003/2004) da cui risultano "finalità essenzialmente manutentorie degli interventi previsti". Di fronte allo spettro di un black out del sistema, il governo ha giocato quindi il jolly delle comunità terapeutiche. Ma il Dap ha fatto i conti senza l’oste. Giovanni Tinebra, numero uno dell’amministrazione penitenziaria, ha salutato il progetto Dap Prima come "conveniente anche dal punto di vista economico". Peccato che le comunità la pensino diversamente. Non si è fatta attendere la replica della Fict, la federazione delle comunità terapeutiche, che per bocca del presidente don Egidio Smacchia ha ricordato allo stesso Tinebra che "la nostra federazione vanta un credito nei confronti del Dap di 634.503 euro derivante da rette non pagate", osservando anche che "attualmente la retta giornaliera percepita per la presa in carico di detenuti tossicodipendenti è di 30,99 euro, mediamente pari al 60% di quelle corrisposte dalle Asl regionali per l’inserimento in comunità di drogati non colpevoli di reati".
Droghe: San Patrignano? Un buon modello, di Stefano Arduini
Vita, 15 febbraio 2005
Intervista a Nicola Carlesi. "Dobbiamo fa conciliare il diritto a essere curati con l’esigenza di sicurezza della società". Nicola Carlesi, psichiatra in quota ad An, dirige da quasi un anno il Dnpa, il Dipartimento nazionale politiche antidroga. Sulla sua scrivania sono nate le proposte di modifica al disegno di legge sulla droga in merito alle misure di detenzione dei tossicodipendenti.
L’accusa parla chiaro. L’idea di mandare i tossici in comunità è figlia del sovraffollamento delle carceri, non certo del desiderio di riabilitarli. Come si difende? Il punto di partenza è che il carcere non cura. Anzi. In quel contesto la dipendenza non può far altro che aggravarsi. Dopo di che abbiamo un problema di sicurezza sociale. I reati connessi alla tossicodipendenza sono pur sempre reati. Non possiamo far finta che non sia così. Dobbiamo trovare il giusto equilibrio fra queste due esigenze.
La soluzione si chiama San Patrignano? Indubbiamente per alcuni reati di grave allarme sociale il modello è quello della custodia residenziale protetta. L’esperienza di Muccioli è sicuramente un punto di riferimento, ma non è la sola. Per altri tipi di reato di portata minore si ricorrerebbe ad altre misure, penso agli arresti domiciliari da scontare in strutture riabilitative pubbliche o private.
Che però andrebbero sostenute. Non crede? E qui tocca un tasto dolente. Se si vuole intervenire davvero è necessario investire, altrimenti sono parole vuote.
Ha avuto rassicurazioni in merito? Nessuna.
Potrebbe intervenire il suo dipartimento, non crede? In Finanziaria ho ricevuto una dotazione di 20 milioni di euro. Risorse che spenderò interamente per far funzionare la struttura. Per il resto in portafoglio non ho nemmeno un centesimo. L’ultima Finanziaria si è dimenticata del fondo nazionale antidroga
Un altro punto critico riguarda l’effettiva libertà di scelta da parte del detenuto tossicodipendente. Non voglio nascondermi dietro un dito, è un problema vero. Che si può superare solo affidandoci alla professionalità e al controllo del piano terapeutico proposto dalle comunità.
Quale incidenza crede che avrà l’attuazione della legge Fini sul numero dei carcerati per reati connessi alla droga? Questo è un punto da chiarire. So che in molti hanno paventato un’escalation delle detenzioni. Io penso che siano allarmismi privi di qualsiasi fondamento. Aumenteranno, questo sì, le sanzioni amministrative. Sul versante penale, invece, cambierà poco o nulla.
Non crede che valga la pena rilanciare l’idea della custodia attenuata? Non alzo alcun muro. In questo caso però bisogna invertire gli schemi. Gli istituti a custodia attenuata devono essere integrati nell’ambito delle aziende sanitarie locali o di strutture terapeutiche di tipo riabilitativo gestite dal privato sociale. Altrimenti si rischia di ripercorrere la strada, fallimentare, delle sezioni speciali all’interno delle carceri. Invece si dovrebbe pensare a qualcosa di simile a quello che è stato realizzato meravigliosamente a Castiglione delle Stiviere con i malati di mente. Caso unico in Italia dove l’ospedale psichiatrico giudiziario è parte integrante dell’azienda sanitaria locale.
Droghe: la voce delle comunità; il governo vuole solo risparmiare di Stefano Arduini
Vita, 15 febbraio 2005
Il presidente del Cnca accusa: "Il loro modello è la comunità con le sbarre, altro che riabilitazione". Lucio Babolin è il presidente del Cnca - Coordinamento nazionale comunità terapeutiche, una corazzata che riunisce 2.089 strutture residenziali o semiresidenziali in tutta Italia. Attualmente sono 34.036 le persone prese in carico. Sette su dieci per problemi connessi all’uso di droghe. Babolin è uno che da sempre sostiene che il carcere "dovrebbe essere anche un luogo del reinserimento sociale" e invece "lì dentro non si fa altro che perdere tempo" con il risultato "di rimettere in circolazione gente assetata di vendetta verso la società". Ma nonostante questo background la proposta di trasferire i tossicodipendenti detenuti in comunità gli ha fatto dissotterrare l’ascia di guerra: "Mi auguro si tratti di una sparata".
Sta dicendo che vuole tenere i tossicodipendenti in cella? Assolutamente no. Dico solo che della proposta del Dap non vi era alcun bisogno.
Fa il disfattista? Quello che ci chiedono le istituzioni, in nome della sicurezza della pena, è la comunità con le sbarre modello San Patrignano. E chi dovrebbe tenere le chiavi? Noi educatori. Un’assurdità. E infatti quando i detenuti escono per lavorare o studiare c’è la gara per andare da Vespa e gridare allo scandalo.
Qual è allora la strada giusta? Proporre al detenuto la falsa alternativa "cella - comunità" significa metterlo con le spalle al muro. Chi è lo scemo che ti dirà di voler restare dentro? Ovviamente nessuno. In questo modo, però, la comunità è destinata a trasformarsi in nuovo carcere: da lì dentro non puoi uscire fino a quando non hai scontato la pena. Salvo ovviamente tornare in prigione. Il corto circuito è completo. Io invece dico, ed è d’accordo con me il 90% degli operatori del settore: portiamo la riabilitazione dentro al carcere e fra le possibili opzioni - lavorative, scolastiche, sociali - mettiamoci pure anche la comunità. Su questo terreno dovremmo poter contare sul sostegno del Dipartimento nazionale antidroga, purtroppo però quello che doveva essere un organismo tecnico si è trasformato in un avamposto politico.
Quante chance ha questa ipotesi di trasformarsi in realtà? Tantissime, basta volerlo. Alcune sperimentazioni in questo senso sono state fatte. E funzionavano bene, fino a quando si è deciso di buttare tutto a carte quarantotto. L’esempio classico è stato il carcere a custodia attenuata di Eboli. Oggi quel modello è stato messo in crisi. Hanno mandato via la direttrice (Lucia Castellano, ndr), tagliato i finanziamenti e trasferito in modo coatto detenuti che non avevano nessuna intenzione di uscire dalla dipendenza con il solo scopo di alleggerire il sovraffollamento di altri istituti. Così il giocattolo si è rotto. E non era difficile immaginarselo. Poi c’è una questione che si fa finta di non vedere: nessuno parla di risorse.
Ne parli lei... Un tossicodipendente in carcere costa 400 euro al giorno, mentre la retta che il ministero della Giustizia riconosce alla comunità per la presa in carico dei detenuti è 10 volte inferiore. Retta che è erogata con anni di ritardo. Siamo di fronte a un colossale tranello: come fai a dire "punto sulle comunità" se poi non gli dai gli strumenti per lavorare. Risparmiare, è questo il vero obiettivo. Nient’altro che risparmiare.
Fonte: http://www.vita.it
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