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Baghdad come il Cermis: impunità per i militari americani
by Salvatore Maria Righi Monday, Mar. 07, 2005 at 10:31 PM mail:

"In Afghanistan hanno fatto il contrario di quanto previsto dalla Corte internazionale. Hanno catturato prigionieri di diverse nazionalità e li hanno portati a Guantanamo, per poi sottoporli a proprio giudizio. «Non permettono che altri giudichino i loro cittadini, ma loro processano chiunque» sintetizza il docente."

Baghdad come il Cermis. Anzi, molto peggio: «Perché in fondo quella è stata la tragica bravata di due piloti ubriachi, la morte di Calipari invece è accaduta in un teatro di guerra, quindi sotto la giurisdizione del diritto bellico per il quale è molto difficile che un soldato venga processato per i suoi comportamenti in servizio».

Per questo motivo sostanziale, e più genericamente per l’impotenza del diritto internazionale, il professor Luigi Bonanate, docente di Relazioni internazionali all’Università di Torino, prevede che i marine responsabili dell’uccisione di Nicola Calipari rimarranno praticamente impuniti per la loro condotta sulla strada che porta all’aeroporto di Baghdad. E comunque, di certo, non finiranno davanti a nessun tribunale che non sia una corte federale o un’autorità militare statunitense: questa storia, Bonanate è sicuro, finirà ancora una volta con americani giudicati da americani. Proprio come accadde all’equipaggio dell’aereo Usa che sette anni fa ha tranciato i cavi della funivia sul Cermis. E che se la cavò davvero con poco.

«Risultati risibili per la giustizia» dice di quell’inchiesta “interna” degli americani il professor Antonio Cassese, responsabile della Commissione di inchiesta dell’Onu sul Darfur e già presidente del tribunale penale internazionale. È stato lui che ieri ha sollevato il problema della giurisdizione sui fatti che hanno provocato la morte di Nicola Calipari. Il punto è questo: chi giudicherà i marines americani della terza divisione di fanteria che hanno sparato addosso a Giuliana Sgrena, al funzionario del Sismi e al maggiore dei carabinieri?

Il professor Cassese non ha dubbi: toccherebbe all’Italia, ma è assai improbabile che sarà un giudice italiano a farlo. «Ha fatto benissimo la procura di Roma a iniziare immediatamente l’indagine sull’omicidio di Nicola Calipari. La competenza penale sul suo assassinio è sua perché si tratta di un crimine commesso all’estero contro un italiano. Ma credo che a breve scoppierà il problema: gli Stati Uniti obietteranno che trattandosi di atti posti in essere da militari americani, la competenza a giudicare è loro. E dunque solleveranno un conflitto di giurisdizione».

Sul quale Antonio Cassese non si fa certo illusioni: «È indubbio che gli americani sono la parte più forte perché hanno in mano i presunti colpevoli, che difficilmente ci consegneranno, e tante prove, a cominciare dalle testimonianze. Presumo perciò che l’Italia dovrà tirarsi indietro, a meno che non siano gli Usa a rinunciare».

Ipotesi assai improbabile, evidentemente, vista la gravità dell’accaduto e i suoi inevitabili riflessi sull’opinione pubblica e sullo scenario di politica internazionale legato alla guerra in Iraq. Riassumendo, gli americani sono in una botte di ferro: hanno in mano i responsabili, le armi che hanno sparato, volendo anche i bossoli dei proiettili e verosimilmente l’auto sulla quale viaggiavano gli italiani e che i pm romani hanno chiesto di esaminare. Per giunta, fino adesso, non risultano testimoni dell’accaduto che non siano i marine stessi, oltre naturalmente alle vittime. Gli Stati Uniti hanno tutto quello che serve per fare un processo, o almeno una sua pantomima, come è stata quella successiva ai fatti del Cermis. Il premier Berlusconi e l’Italia nient’altro che un morto ammazzato, due feriti e una sete di giustizia e verità probabilmente destinata a rimanere inappagata.

Non la può soddisfare il diritto internazionale, costretto a calare le braghe. Attualmente nessuna norma può obbligare gli americani a sottoporsi ad un giudizio diverso da quello di un proprio tribunale e di un proprio giudice. Cassese sostiene che gli Usa applicano la Convenzione di Londra del 1951 «a tutti i casi in cui si tratta di giudicare soldati americani»: un testo che riguarda i militari della Nato ma che gli statunitensi cercano di estendere sistematicamente ai propri contingenti. Nel caso Cermis non fecero molta fatica: gli avieri incriminati di quella sciagura erano schierati ad Aviano nell’ambito delle forze Sfor in missione in Bosnia. Truppe Nato, insomma.

Il professor Bonanate incalza e puntualizza: «Il punto è che gli Stati Uniti non hanno accettato di aderire allo statuto della Corte penale internazionale scritto nella conferenza dell’Onu di Roma nel 1998. In virtù di questa struttura permanente i suoi militari per fatti come questo di Baghdad sarebbero giudicati da un giudice naturale di altra nazionalità che avrebbe affidato le indagini ad un pubblico ministero e poi deciso. Ma gli americani non permettono che i loro soldati siano processati da altri che da se stessi».

In Afghanistan, anzi, hanno fatto il contrario di quanto previsto dalla Corte internazionale. Hanno catturato prigionieri di diverse nazionalità e li hanno portati a Guantanamo, per poi sottoporli a proprio giudizio. «Non permettono che altri giudichino i loro cittadini, ma loro processano chiunque» sintetizza il docente.

Tanto che a Sigonella, venti anni fa, il governo Craxi fu costretto ad alzare la voce (e schierare i carabinieri) per non lasciare Abu Abbas e i terroristi dell’Achille Lauro a Reagan. «We had get to mad, you had to set him free», noi dovevamo arrabbiarci e voi dovevate liberarlo, commentò acido Henry Kissinger.

A questo punto, realisticamente, ci sono solo due possibilità per cui i marine che hanno ucciso Calipari siano processati e giudicati da un tribunale italiano. Ossia per costringere gli americani ad affidare i propri soldati ad un giudice romano. «Una soluzione politica che spinga la Casa Bianca a collaborare per rispetto nei confronti di un alleato come l’Italia» auspica il professore Cassese. «Una guerra tra l’Italia e gli Stati Uniti», sorride il suo collega Bonanate.


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