la consuetudine dei marines di sparare sui giornalisti
Tank contro telecamere - Angela Nocioni
Liberazione 19 agosto 2003
Era una telecamera? L’abbiamo scambiata per un lanciagranate. Il comunicato del Comando militare americano sulla morte di Mazen Dana - uno dei migliori operatori della Reuters, ucciso domenica con un colpo al torace mentre stava filmando l’esterno della prigione Abu Ghraib di Bagdad - è identico a quello diffuso l’8 aprile scorso per giustificare le cannonate sui giornalisti all’Hotel Palestine. Tutto il mondo sapeva che in quell’albergo alloggiavano gli inviati in Iraq. Tutte le tv, ogni sera, trasmettevano le immagini della guerra dalle finestre del Palestine. Eppure la spiegazione statunitense per aver fatto saltare in aria in camera loro Taras Protsyuk della Reuters e José Couso di Telecinco, fu d’averli scambiati per cecchini.
Difficile distinguere l’obiettivo della macchina da presa da un’arma da guerra quando guardi dall’interno di un carro armato, giurò allora il Comando. La stessa, identica versione, l’ha tirata fuori ieri una cortese portavoce dell’esercito americano. Con sorriso gentile e mimetica d’ordinanza ha ripetuto la favola prestampata del fatale errore. Peccato che, esattamente come per il Palestine, anche questa volta ci siano le immagini a smentire le ricostruzioni ufficiali. Sono le ultime riprese da Mazen Dana prima di cadere a terra. Si vede il carro armato puntare diritto verso il suo obiettivo e avanzare di qualche metro. Il video si interrompe sul crepitio di una mitragliatrice. Poi c’è Nael al-Shyoukhi, il tecnico del suono della Reuters che l’accompagnava. Ecco il suo racconto: «Da mezz’ora stavamo lì. Ci avevano visto. Sapevano chi eravamo e cosa stavamo facendo. Mazen aveva chiesto il permesso di parlare con un soldato. Glielo avevano negato. Ci stavamo preparando ad andare quando è giunto un convoglio con alla testa un carro armato. Mazen è uscito dall’auto per filmare. L’ho seguito e lui ha camminato per tre, quattro metri. Ci hanno notato chiaramente. Un soldato sul carro armato ci ha sparato addosso. Mi sono buttato a terra. Ho sentito Mazen urlare e l’ho visto che si toccava il petto».
Palestinese, quarantatré anni, padre di quattro figli, Mazen Dana aveva ricevuto nel 2001 il Press Freedom Award (importante premio in nome della libertà di stampa) per il suo lavoro a Hebron dove era stato ferito e picchiato parecchie volte dai soldati israeliani. Lo aveva dedicato «a tutti i colleghi uccisi sul campo». Ora la Committee to Protect Journalists, l’organizzazione americana che lo aveva scelto per il premio, chiede insieme alla Reuters che sulla sua morte venga aperta un’inchiesta seria. L’Institut international de la presse scrive al segretario alla Difesa di Washington: prima sparate e poi chiedete. Reporters sans frontières denuncia l’autoassoluzione con cui gli Stati Uniti hanno concluso l’inchiesta sull’attacco al Palestine: «Vergognoso».
Che quanto avvenuto davanti alla prigione di Abu Ghraib, territorio reso off limits dalle truppe d’occupazione che lo presidiano come un forte militare, risponda a una precisa strategia del Pentagono contro i testimoni di guerra (Dana è il dicottesimo giornalista morto in Iraq) lo hanno gridato per ore decine di giornalisti palestinesi raccolti ieri a Betlemme nella Piazza della Mangiatoia. «In Iraq le truppe si comportano con la stampa esattamente come l’esercito israeliano nei Territori. Dana è stato ucciso a Baghdad come il fotografo italiano Raffaele Cirillo in Palestina. Guardate le immagini rimaste sulle loro telecamere. Le due sequenze sono identiche».
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