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gli yankee non consegnano l'auto
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Drake Friday, Mar. 11, 2005 at 3:35 PM |
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ecco la vera strategia di difesa degli yankee
Gli Usa non consegnano l'auto La vettura crivellata di colpi è nella base americana a Baghdad. Per averla serve una rogatoria I satellitari stanno arrivando a Roma. I tre telefoni in dotazione a Calipari potrebbero arrivare oggi. Ad occuparsi delle indagini sarà la Digos SARA MENAFRA La Toyota Corolla, su cui viaggiavano Giuliana e Calipari, è territorio americano nella base Usa di Baghdad. E gli americani rifiutano di farla uscire. Per portarla in Italia ci vorrà una rogatoria internazionale diretta a Washington e una eventuale risposta positiva da parte di quello stesso governo che non ha mai permesso indagini «esterne» sui propri soldati. Gli americani, però, stanno già facendo delle proprie indagini sul mezzo. In Italia per ora sono arrivate solo delle foto, per altro con un certo ritardo - l'8 marzo - che hanno fatto rapidamente il giro dello stivale. Peccato che da quelle immagini si capisse poco o nulla. Erano state scattate mettendo in primo piano il fianco davanti sinistro, l'opposto esatto di quello colpito dalla decina di colpi esplosi dai soldati americani (destro e posteriore destro).
Sembra che, sempre l'8 marzo, i Carabinieri del Ros abbiano potuto fare una prima perquisizione del mezzo e pare che abbiano anche scattato delle foto del veicolo, che probabilmente sono già arrivate in Italia. Ma per l'auto, su cui servirebbero perizie e accertamenti balistici, niente da fare.
Il comando americano aveva detto dall'inizio che l'auto sarebbe stata al centro dell'inchiesta americana, a cui sono stati «invitati» gli italiani. Persino il loro ufficio stampa, il giorno dopo la sparatoria, aveva spiegato che quella vettura sarebbe stata al centro delle indagini americane. E infatti, ora che la vettura è in territorio americano neppure il legittimo proprietario - che all'Italia aveva chiesto di comprare l'auto - può aspirare a rivederla.
E' il primo segnale della strategia americana: l'inchiesta è già partita, la fanno gli Usa, e i magistrati italiani dovranno aspettare. Il secondo segnale si deduce dal primo: che fine ha fatto la «partecipazione italiana» all'indagine? Il diplomatico Cesare Ragaglini, nominato a reti unificate dal vicepremier Gianfranco Fini alla trasmissione Porta a porta sembra non sia ancora partito. E anche se dovesse andare a Baghdad oggi stesso non si capisce davvero che ruolo potrebbe avere nell'inchiesta oltre a quello di osservatore.
Intanto l'inchiesta romana prosegue. Dopo una lunga trattativa sembra che i tre telefoni satellitari che facevano parte della dotazione di Nicola Calipari, morto mentre riportava a casa la nostra inviata, arriveranno nelle mani degli inquirenti oggi stesso. A svolgere le perizie e ad occuparsi di rintracciare i tabulati delle telefonate registrate dalle cellule telefoniche di Baghdad saranno gli investigatori della Digos di Roma.
Ieri intanto Giuliana è stata nuovamente sentita, non dal capo del pool antiterrorismo Franco Ionta - che inizialmente aveva preso in mano l'inchiesta - ma dal pm Erminio Amelio. Durante l'interrogatorio il magistrato avrebbe cercato di chiarire alcuni aspetti del giorno del rapimento, dopo le prime domande fatte subito dopo l'arrivo a Roma. Le domande a Giuliana sarebbero servite anche a confermare che il secondo video in cui compaiono i rapitori di Giuliana, quello consegnato alla Ap sempre l'8 marzo, è frutto di un montaggio avvenuto solo dopo la liberazione della nostra inviata. I rapitori avrebbero aggiunto un audio del tutto nuovo, fatto dopo la morte di Calipari e soprattutto dopo le prime conferme sul pagamento di un riscatto, su immagini registrate tempo prima e difficilmente databili. Gli inquirenti hanno specificato che continueranno le indagini sul quarto uomo che sarebbe stato presente a bordo dell'auto e sulla possibilità che a sorvegliare sulla vettura su cui viaggiavano Calipari e Giuliana ci fosse un secondo mezzo, a breve distanza. Su questi punti teoricamente dovrebbe rispondere la relazione dei servizi che piazzale Clodio attende con ansia.
Sono state già fatte delle prime perizie sulle armi in dotazione agli agenti del Sismi che hanno liberato la nostra inviata. Ma nessuna di quelle armi sembra aver sparato quando i soldati americani hanno aperto il fuoco contro gli italiani. Il Ros a Baghdad, invece, si sta occupando di realizzare una pianta dettagliata del luogo in cui è avvenuta la sparatoria. Sarà la base di una ricostruzione simulata al computer dei momenti della tragedia.
Nei prossimi giorni saranno sentiti il maresciallo del Sismi che guidava l'auto, l'ufficiale di collegamento a Baghdad e Gianni Letta. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sarà ascoltato anche dal Copaco in una audizione fissata per lunedì 21 marzo.
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la Sgrena doveva morire
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blondet Friday, Mar. 11, 2005 at 4:23 PM |
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Falluja, armi proibite: perciò la Sgrena doveva morire Maurizio Blondet – tratto da http://www.effedieffe.com
Dopo l’atroce battaglia di Falluja, l’armata americana vi è entrata con bull-dozer e autobotti. I bull-dozer hanno cominciato a scorticare il terreno tutto attorno ai crateri di esplosione delle loro bombe. Hanno asportato accuratamente 200 metri quadri di terreno attorno ad ogni cratere, caricato la terra su autocarri e l’hanno portata in località sconosciuta (1). La stessa cosa hanno fatto con alcune delle case bombardate. Hanno abbattuto gli edifici e portato via il materiale. Queste operazioni sono state compiute soprattutto nei quartieri di Julan e di Jimouriya, teatro dei più feroci scontri, ma anche a Nazal, Mualmeen, Jubail. Attenzione, solo “alcune” case sono state demolite. Quelle dove erano cadute le “bombe speciali” usate dagli americani. Le stesse che avevano formato i crateri accuratamente ripuliti. Di che bombe si trattava? Tutti gli abitanti di Falluja che erano ancora in città durante i raid le hanno descritte così. “Facevano una colonna di fumo a forma di fungo. Poi, piccoli pezzi cadevano dall’aria, con una coda di fumo dietro ogni pezzetto”. Cadendo, questi “pezzetti” esplodevano con grandi fiammate che “bruciavano la pelle della gente, anche quando vi si gettava sopra dell’acqua. Molti hanno sofferto tanto per questo effetto, combattenti non meno che civili”.
E’ la descrizione esatta degli effetti di bombe al fosforo, molto usate dai liberatori anglo-americani contro Germania e Giappone. Ma vietate dalle convenzioni internazionali, e perciò sostituite dagli Usa con l’invenzione del Napalm, mistura gelatinosa e adesiva di celluloide sciolta in benzina che ha il “vantaggio”, come il fosforo, di appiccicarsi alla pelle mentre brucia, ed è molto più economico (brevetto Dow Chemicals). L’uso del fosforo però è più “efficiente” se lo scopo è di ridurre corpi umani a tizzoni ardenti carbonizzati, con un effetto terroristico aggiuntivo. L’uso di queste armi è un crimine contro l’umanità. Ecco perché, dietro ai bull-dozer, il Pentagono ha inviato anche grosse autobotti: le quali hanno “lavato” con potenti getti forzati tutti i muri o quel che ne restava in piedi, evidentemente per dilavare il fosforo. E’ il tentativo di coprire il crimine, di farne sparire le tracce.
Ciò potrebbe spiegare anche parte della sciagurata avventura di Luciana Sgrena. Come si ricorderà, la giornalista stava andando a un appuntamento con alcuni profughi di Falluja quando fu, molto opportunamente per i criminali di guerra, “rapita” da “insorti”. Altrimenti avrebbe potuto raccontare di quelle bombe al fosforo, cosa che non hanno mai fatto “i grandi giornali” neocon, come il Corriere della Sera o il New York Times. Lo stesso discorso si può fare per la francese Aubenas di Libèration: sempre giornalisti di piccoli giornali no-global poco controllabili dalla nota lobby. Naturalmente, la Sgrena non ha saputo nulla: ha recitato la parte che le è stata assegnata, “drammatizzando” in video, e ascoltando i suoi rapitori ripetere che in Irak “non vogliono nessuno”, nemmeno, anzi specialmente, giornalisti simpatizzanti con la guerriglia; frasi che acquistano un senso illuminante, se attribuite a “terroristi” dal Pentagono. La sua tentata uccisione dopo la “liberazione” con riscatto pagato dai contribuenti ai cosiddetti “insorti” può essere interpretata forse come “una lezione” da dare agli italiani. E va ascritta anche ad errori da parte italiana. Il primo dei quali è non voler capire chi è, in Irak, il nemico principale.
http://www.disinformazione.it
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