«Insubordinazione»: quattro anni di carcere al refusnik dell'Anatolia. Amnesty: «È un prigioniero di coscienza»
L'Ue si muove Olli Rehn, commmissario europeo per l'allargamento, ha promesso che si occuperà del caso, in vista dei negoziati per l'ingresso di Ankara nell'Unione.
Una punizione esemplare, senza precedenti. Mehmet Tarhan, il refusnik turco arrestato lo scorso 8 aprile, è stato condannato a quattro anni di carcere unendo due accuse di «insubordinazione», in base all'articolo 88 del codice penale militare. Secondo il suo avvocato, Suna Coskun, si tratta della «sentenza più lunga mai inflitta in Turchia contro un obiettore di coscienza». Il motivo di questo accanimento va ricercato nell'impegno pubblico che Tarhan ha speso a favore della campagna per l'obiezione, in aperta sfida al sistema militarista nazionale.
In questo senso, la storia di Tarhan è rappresentativa di un malessere ben più ampio. Ankara appare restia a rivelare cifre ufficiali, ma a detta dell'organizzazione Payday, con sede a Londra, i refusnik turchi sono attualmente migliaia. Ma il diritto all'obiezione non viene riconosciuto dalle leggi nazionali, e a chi non risponde alla chiamata alle armi spetta la galera, da tre a cinque mesi. La trafila prevede continui arresti e scarcerazioni, configurandosi come una vera e propria persecuzione politica.
Nemmeno Tarhan è sfuggito a questo calvario. La prima volta che ha incontrato un giudice è stato il 9 giugno scorso, dopo due mesi esatti di carcere. Allora la corte si pronunciò per la scarcerazione, visto che l'uomo aveva già scontato l'ipotetica condanna prevista per casi come il suo. Subito dopo però Tarhan è stato di nuovo incriminato e riportato nella prigione militare di Sivas, dove è rimasto altri due mesi. Dietro le sbarre, affermano i suoi avvocati, Tarhan ha subìto pestaggi e umiliazioni con il beneplacito delle guardie carcerarie. Solo dopo uno sciopero della fame lungo 28 giorni l'obiettore è riuscito a ottenere una cella di sicurezza. Quando si è presentato in tribunale riusciva a stento a camminare.
Pur di evitare tali sofferenze, sostiene Amnesty International, pochi esprimono la propria opposizione alla leva, mentre gli altri accettano i 15 mesi di servizio previsti. Al fianco dei pochi coraggiosi si sono schierate le organizzazioni internazionali che si battono per il riconoscimento del diritto di obiezione. Amnesty International ha definito Tarhan «prigioniero di coscienza, perseguitato per le sue convinzioni» e ha chiesto il suo immediato rilascio. Manifestazioni di sostegno si sono tenute in Europa e nelle maggiori città turche. Nelle ultime settimane, della vicenda di Tarhan si è parlato anche al Consiglio d'Europa e alla Commissione europea.
I difensori di Tarhan hanno qualche precedente a cui appigliarsi. Nel caso di Osman Murat Ulke, il primo turco a manifestare pubblicamente nel `95 la propria obiezione di coscienza, il gruppo di lavoro Onu sulle detenzioni arbitrarie dichiarò che qualsiasi detenzione di obiettori è da considerarsi «arbitraria perché contraria all'articolo 10 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo». Il diritto all'obiezione di coscienza viene riconosciuto anche dall'articolo 18 della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, di cui la Turchia è firmataria. Lo stesso Olli Rehn, commissario per la politica di allargamento dell'Unione europea, ha promesso di interessarsi alla vicenda di Tahran.
Proprio l'Unione europea infatti può, con più efficacia degli altri, esercitare pressioni sul governo di Ankara in vista dell'inizio dei negoziati per l'adesione, previsto per il prossimo 3 ottobre. Negli ultimi anni la Turchia ha fatto non pochi sforzi per accogliere le richieste di Bruxelles, in primo luogo abolendo la pena di morte. Il 4 agosto però il premier Recep Tayyip Erdogan ha escluso che il suo governo «prenda in considerazione una qualsiasi nuova condizione per il processo negoziale». Il riferimento era alla questione del riconoscimento di Cipro, ma è suonato come una chiusura definitiva verso ogni nuovo diktat europeo.
FAUSTO DELLA PORTA
Il Manifesto 19/8/2005
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