Per i saccheggi ci sono versioni diverse, negli stessi frammenti di cronaca televisiva. «Profittatori da abbattere», secondo un ufficiale di ciò che resta della Guardia nazionale dell’Alabama. Invece giornalisti e testimoni spiegano: «Qui non c’è nulla, nulla di nulla. I supermarket sono inondati, ma c’è chi cerca di prendere ciò che è restato sui piani alti degli scaffali, latte, acqua, pannolini per i bambini, aspirine. Forse questo non è saccheggio, è un modo per sopravvivere». Un grave prezzo politico per George Bush, per il suo partito repubblicano e per i predicatori della destra e del “poco Stato”. Eccolo il poco Stato.
Aspettando un leader Furio Colombo da l'Unità - 4 settembre 2005
Il titolo che avete letto all’inizio di questo articolo non è mio. È dell’editoriale del 2 settembre del New York Times. È un attacco durissimo al presidente-condottiero che è restato in vacanza due giorni in più mentre New Orleans andava sott’acqua. Quando è stato chiaro che il disastro era immenso e ormai irreparabile, Bush è andato in televisione (anche per interrompere le terribili cronache di eventi caotici e fuori controllo) per dire: «Da questa prova l’America uscirà più forte». Scrive il giornale che ho appena citato: «È stato il peggior discorso di George Bush, un discorso assurdo se confrontato con la condizione disperata di centinaia di migliaia di Americani. È stato un discorso da festa degli alberi, mentre una parte dell’America si sentiva abbandonata alle forze della natura o preda della violenza e del saccheggio». Conclude l’editoriale: «La sua retorica non ci salverà. Come possiamo chiamare leader uno che non vede i segnali, non raccoglie gli avvertimenti degli esperti e nega che esista il pericolo del riscaldamento globale?».
Un altro articolo, firmato da David Sanger, sullo stesso giornale, è ancora più accusatorio e drammatico. Sanger vede un rapporto fra il modo evasivo e finto-statistico con cui Bush parla dell’Iraq, evitando di affrontare la crisi che si aggrava e i soldati e i civili morti ogni giorno, e la retorica patriottica trasferita sull’immane disastro Katrina. E conclude: «Per questo il gravissimo rischio di Bush è di perdere il controllo delle circostanze sia in Iraq che in America. Sembra che tanti si stiano accorgendo che non c’è una guida responsabile a Washington». Per far capire che cosa c’è dietro una simile raffica di giudizi e di opinioni (che si estende a tutta la stampa americana, compresa quella solitamente vicina alla destra) occorre ricordare che quasi tutti i quotidiani, quasi tutti i commentatori Tv vedono un rapporto fra Iraq e New Orleans. Non equivochiamo. Nessuno pensa che violenza della guerra e forza della natura possano essere messe in relazione, se non come una vicenda di tragica sfortuna. Il legame che vedono è nell’atteggiamento di Bush, che ha subito segnalato di voler affrontare l’immane disastro degli Stati del Sud come il pantano della guerra del Golfo: con frasi di esortazione generica al patriottismo, negazione dei fatti e indicazione di un po’ di cifre messe insieme per l’occasione. Questa volta, stanno dicendo le più autorevoli voci americane, non staremo al gioco e non fingeremo di non vedere, anche perché il disastro è in casa e ha una causa (l’aver ignorato tutti gli allarmi) e un effetto (la mancanza di ogni strumento adeguato di soccorso) che forzano a risalire ad un unico punto malfunzionante nella vita americana: un governo cieco alla realtà. *** Qui forse è utile, per il lettore italiano, e soprattutto per i lettori di questo giornale, qualche precisazione. Bush non è sotto accusa, nel suo Paese, per essere un leader conservatore e di destra, ma per essere un leader assente. Evidentemente ha dei pessimi consulenti. Le stesse persone che gli fanno dire che «finalmente abbiamo una bozza di Costituzione irachena» nel giorno in cui i Sunniti confermano il loro rifiuto, si preparano a bocciare alle urne il progetto, e scoppiano tumulti con centinaia di morti per le strade di Bagdad, quelle stesse persone, come consiglieri malefici di una brutta fiaba, gli suggeriscono di restare in vacanza mentre New Orleans va sott’acqua, come tutti i metereologi avevano previsto e persino urlato in Tv. Dirò che cosa vedo e ascolto seguendo l’ininterrotta telecronaca di Fox Television, una rete di solito schierata a destra e a sostegno del presidente degli Stati Uniti. Le infermiere del Charity Hospital dicono per telefono al conduttore nell’ininterrotta diretta Tv, che l’ospedale è immerso nell’acqua, che ci sono assalti di bande armate che vogliono impossessarsi delle riserve di cibo, che i cadaveri vengono tenuti in corsia perché le camere mortuarie non sono più raggiungibili. I medici intrappolati aggiungono che temono tifo e colera. Vedo e constato, come milioni di americani, che la Fema (è il nome dell’Agenzia di protezione civile americana) è stata spezzata dal governo di Bush in tante agenzie statali e locali, ciascuna non coordinata con l’altra. A ciascuna i fondi sono stati tagliati, a cascata. Il governo federale ha tagliato i fondi degli Stati, gli Stati hanno tagliato i fondi delle Contee (che sono grandi distretti regionali, ciascuno con decine di comuni). E i cittadini sono rimasti soli, nelle città inondate e distrutte. Quando gli argini del lago artificiale che avrebbe dovuto proteggere New Orleans hanno ceduto, ho visto, in riprese dirette dal cielo, folle gigantesche di persone accampate o sedute ai bordi dei tronconi di strade più alte, in attesa di aiuti. Tre giorni dopo vedo le stesse scene, la stessa folla in inquadrature tragicamente gremite. In quelle inquadrature ha fatto la sua comparsa la Guardia nazionale. Ma perché così pochi, perché così tardi i soldati del soccorso? Ogni Stato americano ha una Guardia nazionale, ovvero reparti bene addestrati di militari, in gran parte riservisti, che vengono richiamati in servizio attivo in circostanze come queste. Ma persino dai microfoni della Fox Television ti dicono: «Gli Stati di Alabama, Mississippi e Louisiana (i tre più colpiti, oltre alla Florida) sono quelli che hanno contribuito di più alla sostituzione dei soldati volontari nella guerra in Iraq». Adesso bisogna far arrivare truppe da lontano. Quelle territoriali non ci sono e non bastano. Quelle lontane non possono arrivare subito e infatti non sono ancora arrivate. Ci sono camion ma non autobus come era stato annunciato da Washington, per portare lontano i rifugiati dell’uragano. Sono immagini da Seconda guerra mondiale. Perché da terra, dove tutti aspettano la salvezza come in un film di catastrofe, c’è chi spara contro gli elicotteri? «Malavita, bande criminali, avvoltoi», rispondono alcuni capi delle polizie di città e cittadine coinvolte nel tragico fenomeno, spiegando che è urgente «ristabilire l’ordine». Ma anche i cronisti di Fox Television e molti tra i disperati sindaci di città e di borghi scomparsi, dicono al pubblico americano: «Sparano per disperazione, perché nessuno li salva, perché sanno di essere filmati ma costatano che, giorni dopo l’immensa sciagura, nessuno è venuto a prenderli». È diventata un simbolo la storia della donna che, durante l’uragano, resta accanto al marito morente. Poi, quando l’acqua invade la casa, usa una porta come bara, e si avvia, nel fango delle fogne sventrate, in cerca di aiuto. Un camion accetta il trasporto del morto per un compenso di venti dollari. Ma poi lo scarica sul bordo di un ponte. Dove dovrebbe portarlo? Anche per i saccheggi ci sono versioni diverse, negli stessi frammenti di cronaca televisiva. «Profittatori da abbattere», secondo un ufficiale di ciò che resta della Guardia nazionale dell’Alabama. Invece giornalisti e testimoni spiegano: «Qui non c’è nulla, nulla di nulla. I supermarket sono inondati, ma c’è chi cerca di prendere ciò che è restato sui piani alti degli scaffali, latte, acqua, pannolini per i bambini, aspirine. Forse questo non è saccheggio, è un modo per sopravvivere». *** Adesso il presidente Bush ha chiesto ai due ex presidenti Clinton e Bush padre di presiedere un comitato per la raccolta di fondi privati. È una buona idea per la ricostruzione. Ma la spaventosa inadeguatezza, il ritardo di giorni dei soccorsi, rivela che quasi tutta l’infrastruttura interna americana, dalla Agenzia Fema alla Croce Rossa, è stremata, abbandonata, non in grado di funzionare, priva di guida. Soprattutto priva di fondi. Ci sono momenti della vita in cui i tagli disinvolti fatti brutalmente nel bilancio di un Paese per poter garantire il taglio delle tasse ai più abbienti (è ciò che è avvenuto nell’America di Bush) si vedono e si pagano a un prezzo immenso. È un prezzo di abbandono e di dolore che non sarà mai compensato. Ma è anche un grave prezzo politico per George Bush, per il suo partito repubblicano e per i predicatori della destra e del “poco Stato”. Eccolo il poco Stato. Non ha ambulanze, non ha autobus, non ha servizi pubblici, non ha rifugi, non ha sistemi rapidi di soccorso, non sa come portare e dove portare gli scampati dal più feroce uragano della storia americana. Bush poteva essere più fortunato. Poteva non succedere, e il suo discorso sul “poco Stato” sarebbe rimasto uno slogan utile alla retorica della destra, che deve pur trovare dove tagliare per apparire nuova, moderna, virtuosa. Invece l’uragano spaventoso ha colpito in pieno e svelato la crudele politica dei tagli, come in un dramma esemplare. Quando il sindaco di New Orleans e il governatore della Louisiana (molto in ritardo, appena poche ore prima della catastrofe) hanno ordinato lo sgombero della popolazione, non c’era un solo mezzo pubblico per farlo. Chi ha potuto, è andato via con la propria auto. Gli altri, a decine di migliaia, si sono ammassati nel “Superdome” lo stadio coperto della città, che è rimasto subito senza luce e senza aria condizionata. Poi hanno atteso, e attendono ancora in lunghissime file, lungo ciò che resta delle strade intorno allo stadio invivibile e semiscoperchiato. Una ripresa dall’alto ci fa vedere una signora nera che stringe un bambino addormentato, dentro un buco nell’asfalto. «Ha la febbre alta», gridava la donna carezzando la fronte del bambino. Perfino il cronista di una televisione abituata all’elogio obbligatorio di Bush era indignato. Ha chiesto in diretta alla regia di avvertire qualcuno. Ha dato un indirizzo che gli aveva gridato la donna. «Non c’è più quella strada», gli hanno detto nell’auricolare. «Ma la donna e il bambino ci sono, sono qui, mandate qualcuno!» ha urlato il giornalista. «È un fallimento, un tragico fallimento» scrivono i grandi giornali e hanno detto quasi tutti i commentatori della televisione americana, dopo giorni di abbandono e di caos che dura ancora. E’ naturale che chi ama l’America si senta partecipe, coinvolto, e stravolto. E veda, e tenti di far vedere, la tremenda lezione dei moderni tagli del “poco Stato”. E la tremenda lezione di una guerra che non finisce e che costa ogni giorno quasi duecento milioni di dollari. furiocolombo@unita.it
http://www.dsmilano.it/html/Pressroom/2005/09/uni5_0904_colombo-aspettando-un-leader.htm
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