Da Torino alla Val Susa a Milano. La parabola repressiva: dall’associazione sovversiva alla devastazione e saccheggio
In tutta Italia oggi sono aperte inchieste nei confronti di realtà che hanno posto la questione sociale (casa, reddito, accoglienza degli stranieri), tutte inchieste accomunate dalla contestazione degli artt. 270 e 270bis del codice penale, associazione sovversiva e associazione finalizzata all’eversione dell’ordine democratico. Spicca nel panorama repressivo il caso di Torino, dove la procura della repubblica sta ricorrendo all’imputazione di devastazione e saccheggio (art. 419 c.p.) per fatti relativi a manifestazioni di piazza. Nelle lotte sociali, i reati che possono essere al limite contestati (dalla resistenza al blocco stradale al danneggiamento all’occupazione di edificio ecc.) non portano con sé pene particolarmente alte. Naturalmente l’apparato repressivo cerca di inquadrare le proteste all’interno di fattispecie penali punite più gravemente. Questo è il motivo del ricorso, ad esempio, ai reati previsti dagli artt. 270 e 270bis c.p. Da un lato il fatto che venga punita la mera associazione rende queste fattispecie utilizzabili in modo ampio e ed esse possono colpire anche soggetti che non abbiano commesso alcun reato; l’applicazione di queste fattispecie presuppone, però la dimostrazione della sussistenza appunto di un’associazione, di una stabile struttura, e della finalità politica che va oltre i singoli fatti eventualmente commessi dagli associati. Da un reato di organizzazione, la magistratura torinese cerca oggi di passare all’utilizzo di un reato di piazza, come quello di devastazione e saccheggio. La valenza repressiva di questa fattispecie è ancora maggiore per una serie di motivi. La prima è che può colpire in astratto tutti i soggetti partecipanti ad una manifestazione, indipendentemente dal fatto che abbiano commesso specifiche condotte di danneggiamento o furto avvenuti durante la manifestazione stessa. Il passaggio da danneggiamento a devastazione e da furto a saccheggio fa sì che la fattispecie divenga collettiva, venga cioè imputata una sorta di responsabilità collettiva a tutti i soggetti che, partecipando alla manifestazione, avrebbero consentito gli specifici fatti di reato di alcuni.
Il primo esperimento di applicazione del reato di cui all’art. 419 c.p. è quello della manifestazione antifascista del 18 giugno 2005 per aver partecipato alla quale, senza che siano contestati specifici fatti di danneggiamento o di furto, dieci antifascisti torinesi sono stati arrestati e attualmente sono sotto processo. Gli stessi magistrati della procura della Repubblica di Torino hanno sequestrato per esigenze probatorie (l’accertamento di reati asseritamente avvenuti quando la popolazione della Valsusa si è ripresa il terreno l’8 dicembre) il terreno di Venaus, consegnandolo in custodia alla ditta che dovrebbe iniziare i lavori. Con questo provvedimento si ha un ulteriore salto di qualità nella politica repressiva nei confronti del movimento NO TAV. La ditta incaricata dei lavori è posta sotto la diretta protezione della procura della repubblica di Torino che salda la sua azione a quella dei politici dell’Unione, in particolare DS, che, come ha dichiarato senza perifrasi il sindaco di Torino Chiamparino, sono ultras del TAV. Infatti, le esigenze di indagine evidentemente non centrano nulla (bastano foto, rilievi e rapporti di servizio). Come è stato subito puntualizzato dai vertici della procura torinese (Maddalena e Laudi), il sequestro non ha alcuna influenza sullo svolgimento dei lavori. Anzi: li permette ancora di più, perché chi entra nel terreno conteso commette un ulteriore reato, violando il provvedimento di sequestro; e la ditta appaltatrice LTF è nominata pure custode. Ma non basta: è stata anche annunciata dalla procura della repubblica di Torino l’identificazione di numerose persone che avrebbero partecipato all’invasione del cantiere di Venaus l’8 dicembre; giacché la stessa procura ha annunciato di procedere per vari reati tra cui la fattispecie di devastazione e saccheggio già utilizzata per carcerare alcuni manifestanti torinesi del 18 giugno caricati dalla polizia in via Po, se ne deve dedurre che la stessa procura della repubblica di Torino abbia annunciato una trentina di arresti. E poiché già nella precedente occasione gli arresti sono stati effettuati pescando sapientemente nelle varie aree dell’antifascismo e antagonismo torinese, c’è da aspettarsi che avvenga lo stesso, ad ulteriore riprova (se ve ne fosse ancora bisogno) della gestione tutta politica della repressione che la magistratura torinese sta effettuando. Gestione politica sia nei referenti (prima di tutto i DS) che negli obiettivi (le aree più politicizzate dell’antagonismo sociale).
Sullo sfondo della democrazia plebiscitaria che si fa affermando, forma politica dello stesso ceppo del fascismo, avviene l’esperimento di repressione del conflitto sociale con applicazione di una fattispecie di reato che prevede responsabilità collettive anziché individuali e sanziona la mera partecipazione alle lotte e alle manifestazioni con pene che vanno dagli 8 ai 15 anni di reclusione. Pare evidente che sia in atto un test di resistenza sulla determinazione e compattezza delle forze che si oppongono al disegno in atto di restringimento degli spazi di libertà e di lotta sulla questione sociale, nei fatti e non solo a parole. Quel che sta avvenendo a Torino sono ad ogni effetto prove tecniche di regime.
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