Torino, 10 febbraio 2006. Il giorno prima della cerimonia d’apertura dei XX Giochi olimpici un gruppo di duecento anarchici sfila assediato da massaie, pensionati e automobilisti che gli vomitano addosso odio viscerale. In testa al corteo uno striscione: «Torino 2006, devastazione e saccheggio» In alcuni momenti le forze dell’ordine trattengono la folla che lincerebbe i manifestanti per la semplice ragione che esistono, che rompono, che rovinano la festa.
La città in quei giorni era colorata di rosso, il presidente della Repubblica girava su Maserati facendo ciao ciao con la mano, il sindaco Chiamparino vestiva un cappotto nuovo, le bionde ucraine e i biondi statunitensi provocavano diffuse epidemie di torcicollo. La madre di tutte le feste oltre a travolgere gli anarchici faceva anche cospargere di cenere il capo ai critici, ai diffidenti, ai torinesi bugianen doc. Alla fine tutti, ma proprio tutti, sono scesi in strada e sono andati a casa Sassonia a mangiare un wuberone a 7 euro, oppure si sono buttati nel centro di Torino a fare la «notte bianca».
Perfino Gianni Vattimo si è pentito. Prima aveva dichiarato che se ne sarebbe andato dalla città schifato, poi il rapido dietro front.
Due settimane di bagordi. E di promesse: Torino sarà..., Torino non sarà mai
più..., oggi nasce il futuro…, da domani il nostro impegno…
Ma le capriole del destino talvolta sono singolari.
Chi avrebbe pensato quattro mesi fa, a braciere olimpico appena spento, che
il rilancio della città postindustriale, postoperaia, posttutto, sarebbe arrivato dalle vecchie tute blu, dal coraggio degli enti locali, dagli ingegneri travet dei centri ricerche, e da una dirigenza che ha strappato la Fiat al coma in cui era precipitat?
E ancor più chi avrebbe immaginato che Torino 2006 si sarebbe rivelata come una lama affilatissima su cui pattinare da incerti principianti ancora un po’ ubriachi?
Fine giugno 2006. Nubi scure si ammassano sulle montagne olimpiche. Il primo fulmine arriva a maggio. A sorpresa la Fiat vende la sua quota della Via Lattea Spa (circa il 50 per cento controllato attraverso la Sestriere Spa, la restante parte appartiene alla Regione Piemonte) a due imprenditori semisconosciuti. La Via Lattea èun comprensorio di piste, alberghi e campi da golf che ha come centro il colle del Sestriere. Essa ha un piccolo valore economico ma un grande significato simbolico: è infatti un’invenzione di Edoardo Agnelli, padre di Gianni.
È come se la Fiat vendesse la Juventus.
Ad appena tre mesi dalla fine dei giochi, da tutti percepiti come un «regalo»
di Gianni Agnelli a Torino, il gruppo si disfa di un pezzo di storia per 25 milioni di euro, gettando nello sconforto gli operatori locali.
Il professor Daidola, docente di economia del turismo all’Università di Trento, commenta così l’operazione: «Se devo essere sincero ci vedo qualche ombra di speculazione» .
Perché? La riposta forse si può trovare nel fatto che i bilanci della Via Lattea sarebbero da anni in rosso, e la cura da cavallo olimpica non avrebbe dato risultati.
Secondo fulmine. Un giro tra gli impianti olimpici di Sestriere, Cesana Torinese e Pragelato evidenzia una situazione di abbandono e trascuratezza imbarazzanti. Qualche poliziotto privato vaga tra cumuli di reti arrugginite, cavi abbandonati, mucchi di macerie, rifiuti, sacchi di cemento aperti, transenne divelte, vetri in frantumi e macchinari abbandonati. Nella pista di bob di Cesana Torinese gironzolano cani randagi e il taboga di cemento in cui scendono gli atleti è divenuto una specie di discarica dell’immondizia.
Questa situazione è dovuta al fallimento della Consortium, una società mista italocinese vincitrice degli appalti riguardanti la realizzazione e la rimozione delle strutture temporanee nei siti olimpici (tende, gazebo, impalcature).
Incredibilmente nel giugno 2005 il Toroc appalta questi lavori, 21 milioni di euro di valore, a un’azienda nata da quattro mesi e con un capitale sociale di appena IO mila euro. La Consortium subappalta i lavori a 201 aziende, quasi tutte locali, che operano in situazioni disastrose: «Senza progetti e referenti, nel caos assoluto», dicono.
Toroc e Consortium chiedono un aumento dei ritmi lavorativi e i costi iniziano a crescere con decisione. A dieci giorni dai giochi Consortium non ha più fondi, ma il Toroc per non rischiare un flop planetario garantisce «che tutto sarà sistemato». Oggi le ditte subappaltatrici hanno in mano fatture inevase per 6 milioni di euro, e nel baratro sono finite 1.500 persone.
Toroc non sembra intenzionato a pagare ulteriori denari (che non ha). Anzi, rivendica «un piccolo credito» da parte di Consortium.
I lavoratori, oltre a sospendere ogni compito nei siti olimpici, si riversano a Torino per chiedere il pagamento del dovuto.
Gli enti locali temporeggiano, ma non promettono nulla. Qualcuno pagherà. Chi?
Terzo fulmine. Mancano i turisti. Da un’indagine dell’Ires (Istituto ricerche economico-sociali) del maggio 2006, risulta che la situazione del turismo a Torino e in Piemonte sia pessima. In città e nei siti olimpici nei primi tre mesi post-giochi vi è stato un tracollo di presenze turistiche, con prospettive infauste anche per il futuro.
Qualcuno ha smentito con forza, ma senza portare numeri seri. Effettivamente da un giro di telefonate in data 25 giugno presso gli alberghi di Sestriere, Cesana Torinese e Claviere (siti olimpici) si evince che tutti hanno ancora ampia di sponibilità di posti letto nella settimana di ferragosto…
Indicativi anche i sentimenti dei commercianti delle maggiori località vacanziere interessate dai giochi: disillusione e rabbia. «Non c’è stato alcun effetto olimpico. Anzi, abbiamo perso una parte del turismo torinese legato alle seconde case, perché molti non hanno accettato quelli che considerano scempi paesaggistici», sostiene un barista di Cesana Torinese.
Quarto fulmine. Il patrimonio professionale di Toroc 2006 è in dissolvimento: dei 250 assunti a tempo indeterminato (ma all’apice dell’impegno si sono raggiunte, con gli atipici, le 1.600 unità operative) solo 120 verranno, forse, riassunti dalla fondazione che dovrà gestire il postolimpico.
Le attrezzature tecnologiche (computer, stampanti, telefonini etc.) che dovevano essere rivendute per fare cassa dopo la fine dei giochi o sono state depredate durante i primi caotici giorni postevento, oppure giacciono in polverosi depositi, il tutto per un valore di 300 mila euro.
Dopo quattro fulmini di avvertimento potrebbe arrivare la tempesta vera…, ovvero il futuro dei megaimpianti sportivi. Le prime avvisaglie che il dopo sbronza olimpico sarebbe stato duro giungono quattro mesi prima dell’inizio di Torino 2006, attraverso una ricerca sulle prospettive di gestione postgiochi eseguita dal centro studi Omero.
I risultati sono inquietanti: a pochi mesi dall’accensione della fiamma gli enti locali litigano per avere un ruolo il più limitato possibile nel dopo Olimpiadi. Hanno già capito che i megaimpianti genereranno delle voragini di bilancio non sostenibili, soprattutto per i Comuni minori.
Infatti un secondo studio preparato dal Politecnico di Torino sentenzia: «Regione, Provincia e comunità locali dovranno affrontare problemi ardui e complessi di riuso, completamento e gestione dopo la celebrazione dei Giochi. In carenza di adeguate soluzioni le infrastrutture potrebbero andare in rovina come già accaduto in passato a quelle di Italia 61 (costruite a Torino nel centenario dell’Unità d’Italia, ndr)>>. Gli amministratori reagiscono con un profluvio di dichiarazioni ottimistiche: faremo, realizzeremo, costruiremo… Le ricerche sono opera di gufi, dicono.
A due mesi dall’inizio delle Olimpiadi iniziano a girare i sussurri di un possibile abbattimento degli impianti di bob-slittino (Cesana Torinese) e salto dal trampolino (Pragelato) qualche tempo dopo i Giochi. Il primo a sparare la cannonata è l’ex amministratore delegato della Juventus Antonio Giraudo, uno che al tempo poteva dire tutto quello che voleva… Cade il cielo, tutti si indignano, si sprecano i soliti imperativi categorici: mai, impossibile, è gravissimo, sarebbe la profanazione di un simbolo…
Desideri di tritolo? Inizia un tormentone portato avanti dal trio Bresso (Regione), Chiamparino (Comune) e Saitta (Provincia): «Lo Stato non può abbandonare opere su cui sono state investite centinaia di milioni di euro». Il Piemonte, da tempo la regione più assistita d’Italia, batte cassa per il postolimpico, e lo fa anche con velate minacce (poi definite «provocazioni»), perché dopo Giraudo anche Mercedes Bresso esprime desideri di tritolo per il futuro della pista da bob e slittino. Originariamente i piani però non erano questi…
Il presidente del Toroc Valentino Castellani sostenne in
tempi remoti che i soldi sarebbero arrivati dagli utili delle Olimpiadi, tanti da mantenere per alcuni anni gli impianti.
Le Olimpiadi invece si sono chiuse con un buco di bilancio di 41, altri sostengono 31, milioni di euro. Di per sé questa cifra è un successo se rapportata alle passate edizioni dei Giochi olimpici. Anche in questo caso però i numeri celano interpretazioni diverse. Nel 1999le previsioni di spesa di Torino 2006 erano pari a circa 600 milioni di euro mentre a Olimpiadi concluse alla voce totale si può scrivere 1.720. In tale computo si inseriscono anche lavori per la costruzione di strade, villaggi e impiantistica: tutte opere correlate all’evento olimpico.
Lo Stato, il soggetto più volte chiamato a «impegnarsi per un buon riutilizzo degli impianti», ha quindi già coperto i buchi di bilancio olimpici in fase di esecuzione lavori. Cosa di per sé dubbia in quanto il Toroc è un soggetto giuridico privato e quindi di fatto impossibilitato a ricevere denari pubblici. Mistero.
Il ghiaccio costa. È dunque improbabile che dal governo, magari attraverso il Coni, possano essere indirizzati ulteriori fondi verso il Piemonte.
L’ultima riunione svoltasi a Roma tra il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta, il sindaco di Torino Chiamparino e l’assessore regionale Andrea Bairati si èconclusa con un nulla di fatto. I rappresentanti locali hanno ottenuto una vaga promessa di riconvocazione, mentre sul tema soldi «non si è avuto tempo di discutere».
Mentre Roma prende tempo gli enti locali fanno i conti e «scoprono» una ferrea legge economica: dopo la conclusione delle gare tutte le megainfrastrutture olimpiche diventano divoratori di risorse economiche. E particolarmente fameliche sono quelle legate agli sport invernali. La produzione e il mantenimento del ghiaccio sono attività economicamante molto impegnative.
Inoltre, all’aumentare dell’utilizzo degli impianti sportivi legati al ciclo del freddo, i costi di gestione crescono in maniera più che proporzionale rispetto alle entrate. Ovvero piùli si usa e più si perde.
Chi dovrà gestire questi problemi sarà la «Fondazione 20 marzo 2006». Di essa si sa ancora poco e questo è già indicativo del tempo perso (la fondazione che gestì il postolimpico di Barcellona 1992 nacque con due anni di anticipo rispetto ai Giochi).
Forse dovrebbe iniziare a lavorare a ottobre. Il patrimonio postolimpico da valorizzare è pari a 500 milioni di euro e comprende i maggiori impianti sportivi e non (villaggi di montagna) costruiti per Torino 2006. Ogni anno tali impianti avranno costi di gestione pari a 19.122.322 euro.
Non è dato sapere invece quali saranno le entrate, in quanto la Regione Piemonte ha preferito omettere dal documento richiesto la colonna relativa alle entrate.
Fallimento o più tasse. È certo però che per i primi cinque anni la fondazione dovrà coprire un buco di bilancio tra i 6 e gli 8 milioni di euro. Con questo dato si capisce l’importanza dell’assetto societario. L’ipotesi attuale prevede il75 per cento suddiviso tra Regione, Provincia e Comune di Torino, mentre i Comuni come Torre Pellice (palahockey), Cesana Torinese (bob) , Pragelato (salto) ecc. avrebbero in dote l’I percento a testa.
Questa idea è fortemente avversata dai sindaci in quanto genererebbe voragini non sostenibili nei ridotti bilanci comunali (che potrebbero portare gli amministratori o a dichiarare fallimento, improbabile, o a un aumento degli introiti fiscali, vedi lei).
Il sindaco di Cesana Torinese Roberto Serra propone che le quote partecipative della fondazione vengano calcolate in base ai bilanci annuali generali degli enti associati. Il vantaggio per i piccoli Comuni sarebbe lampante, in quanto la loro quota diverrebbe qualcosa di molto vicino allo zero virgola zero…
In questo contesto organizzativo nebuloso alcuni impianti appaiono destinati all’oblio mentre altri, che si inseriscono all’interno di un tessuto storico sportivo importante, hanno possibilità di essere valorizzati.
È il caso, forse, del nuovo palahockey di Torre Pelice che genererà una perdita di bilancio, secondo il sindaco Claudio Bertalot, tra i 300 e i 400 mila euro annui, ma che potrà sfruttare le potenzialità di un territorio molto legato all’hockey professionistico.
Come riempire il capannone. Per gli altri, come si dice su queste montagne per altre ragioni, sarà dura.
Il Palaisozaki, il mega capannone polivalente di Torino opera del famoso architetto giapponese Arata Isozaki, costato 87 milioni di euro, per avere un piccolo utile dovrebbe ospitare due appuntamenti settimanali da diecimila persone per tutto l’anno… Avrà un costo di 3-262.138 euro annui.
Il palahockey di Pinerolo, costato 12 milioni di euro come quello di Torre Pellice, dovrebbe diventare il centro nazionale italiano per il curling. Le spese di mantenimento annuali saranno di 1.273-480 euro. Situato a IO km dai due palazzetti del ghiaccio di Torre Pellice (oltre al nuovo esiste un impianto più modesto ma funzionante costruito dopo l’alluvione del 2000), difficilmente riuscirà a vivere solo con il curling che, come noto, ha un numero di praticanti ridotto.
Le due infrastrutture più esposte a incerto futuro sono comunque la pista di bob-slittino di Cesana Torinese e il trampolino di Pragelato, due esempi di gigantismo italico.
lronizzando si potrebbe dire che il terzo, uno dei tanti della storia italiana, è vecchio di sessant’anni e si trova a 3-°°0 metri di quota. È il forte dello Chaberton, un’opera ciclopica costruita durante il fascismo. Da qui gli strateghi militari che dovevano conquistare la Francia fecero partire l’attacco nella notte del 21 giugno 1940. Venne centrato e distrutto dall’artiglieria francese il22 giugno.
Da lassù ci si affaccia sulla Val Susa e subito si nota nel fondovalle una specie di voragine grigia, enorme, dentro un bosco di larici. È la pista da bob di Cesana Torinese, costata 80 milioni di euro e oggi, di fatto, semiabbandonata.
Il sindaco non nasconde le preoccupazioni legate all’ingombro fisico, economico e ambientale dell’impianto (è presente infatti una vasca che contiene 48 tonnellate di ammoniaca per il raffreddamento della pista), e lamenta la mancanza di un lavoro organizzativo adeguato che avrebbe dovuto svolgersi negli anni passati, oggi non ancora iniziato.
La soluzione, sempre secondo Roberto Serra, potrebbe essere un ulteriore investimento, da parte di chi non si capisce, di ulteriori 4-5 milioni di euro per la creazione di uno snow park, una cittadella del divertimento montana. Centri commerciali, discoteche, alberghi, resort, bar, cementificherebbero ancora un po’ questa montagna per «valorizzare la pista di bob e quella di biathlon poco distante». Come questo investimento possa «valorizzare la pista» è dubbio, dato che il bob è una dispciplina sportiva molto tecnica e pericolosa. Inoltre, è riconosciuto che il tracciato di Cesana Torinese sia uno dei più difficili al mondo, non sfruttabile quindi per un uso turistico di massa. [idea entusiasma invece il sindaco di Torino Sergio Chiamaprino che sogna «di vedere sfrecciare il sabato e la domenica le famigliole». Sogni o incubi futuribili.
Per il momento il mancato coordinamento tra enti locali, sponsor e Rai ha portato alla paradossale situazione che la prossima Coppa del mondo di bob non farà tappa a Cesana Torinese. Stessa cosa per lo sci che, per la prima volta dopo anni, non si fermerà al Sestriere.
I giganteschi trampolini verdi di Pragelato, costati circa 30 milioni di euro, si trovano a 300 chilometri da quelli di Albertville, sede dei giochi olimpici invernali del 1992. L’impianto francese non ha avuto fortuna e genera ogni anno una perdita di circa 200 mila euro. Per quello di Pragelato, invece, il futuro potrebbe essere diverso, in quanto già questa estate dovrebbero svolgersi alcuni eventi traino che porterebbero a un uso più intenso durante !’inverno.
I costi di manutenzione sono poi dimezzati rispetto alla pista da bob di Cesana Torinese e si fermano a U61.226 euro.
La Fisi (Federazione italiana sport invernali) ha assicurato che Cesana Torinese e Pragelato diventeranno i luoghi ufficiali di allenamento delle nazionali di salto, bob e slittino. Purtroppo il numero di utenti professionisti è molto scarso e la creazione di bacini d’utenza in settori così specializzati richiederà molti anni.
Basteranno i soldi delle federazioni a coprire gli alti costi necessari al mantenimento di questi impianti? No.
Lo stadio è inadatto. In ultimo anche la promozione del Torino Calcio in serie A sta creando problemi. Lo stadio olimpico, che non farà parte del patrimonio della fondazione, èstato giudicato non adatto dalla squadra torinese che ha richiesto nuovi lavori di adeguamento. I dirigenti granata sostengono che il Toro in serie A avrebbe un’affluenza di pubblico allo stadio superiore ai ventisettimila posti disponibili. La società ha fatto ventilare l’ipotesi che in futuro si possa costruire a Torino un nuovo stadio, l’ennesimo, finalmente capace di contenere l’entusiasmo dei tifosi.
Le Olimpiadi sono state definite nell’euforia della festa un successo. Sicuramente sono state un investimento economico ad alto rischio fatto da privati con denari pubblici.
Il Comitato olimpico di Los Angeles 1984 è stato l’unico nella storia dei giochi a scegliere di ricevere fondi solo da privati, in questo modo la costruzione di nuove infrastrutture fu limitata e assennata.
I Giochi statunitensi di ventidue anni fa sono gli unici, a oggi, a non essere stati un fallimento economico. .
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