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Aggressione all’Altipiano di Navelli
by Ezio Pelino Thursday, Aug. 24, 2006 at 4:42 AM mail:



Gli altipiani d’Abruzzo - sono tutti straordinariamente belli. Se si interrompe la corsa frenetica con il tempo e ci si ferma ad ammirare, lo spirito si dilata ad abbracciare sereno grandi prati verdi, rari casolari, borghi arroccati, umili chiese e antichi castelli svuotati testimoni di feudalità rupestre.

I nostri altipiani hanno in comune la vastità degli spazi, delimitati da colline e montagne, e il miracolo dell’armonia di natura e storia. La bellezza della natura si riflette e si esalta nella pietra squadrata dei borghi - tutti raccolti, come vuole l’iconografia religiosa popolare, sul palmo della mano del santo protettore - e delle chiese e cappelle disseminate fra i campi apparentemente senza logica. Solo apparentemente, perchè quelle chiese, una volta corredate da costruzioni minori, erano luoghi di sosta, di ristoro spirituale e ricovero per i pastori che con le loro greggi transumavano per e dalle Puglie. Un esercito di animali, uomini, carri, cani che per lunghi millenni, dall’età del bronzo attraverso la romanità e il medioevo fino alla metà del secolo scorso, hanno costituito quell’economia pastorale che ha permesso ai nostri antenati di vivere e tramandare una civiltà di amore per la natura e di gratitudine per il suo eternamente rinnovato dono della bellezza.

L’altopiano di Navelli è uno di questi straordinari luoghi. Un gioco di grandi spazi e di tacite antiche presenze. Distese di verde abitato da mandorli, bianchi e rosa a primavera. Tutto intorno, corone di monti e antichi castelli e in alto il Gran Sasso. Lungo la strada, una volta ”erbal fiume silente” della transumanza, le bellissime povere chiese tratturali, i resti preziosi della romana Peltuinum, il romanico ispirato di Bominaco. E’ l’ultima terra dello zafferano. Vi regnava in tempi mitici il misterioso Guerriero di Capestrano dal grande cappello. Un luogo da conservare come una reliquia.

Non era sfuggito a Vittorio Sgarbi, che nel suo libro indignato “Un paese sfigurato. Viaggio attraverso gli scempi d’Italia”, proprio dalla copertina, gridava allo scandalo riproducendo la chiesa tratturale di Santa Maria delle Grazie sfregiata dallo scostumato guard rail che corre lungo la bella facciata rinascimentale deliziosamente ornata di un gotico rosone. Un oltraggio, ma un niente rispetto agli attuali lavori in corso. Occorre, dicono, velocizzare il traffico della statale Popoli-L’Aquila. E si può comprendere, anche se si tratta di una delle più tranquille strade della regione. Ma è inspiegabile, se non come una violenza, un’opera deliberatamente barbarica, quello sconvolgimento dell’altopiano, quell’orrendo maledetto rigurgito di asfalto e cemento per monumentali sottopassi, soprapassi e svincoli per l’accesso non a megalopoli ma a deliziosi paesi spopolati.

Si vuole trasferire sull’altopiano un errato concetto di modernità, di progresso che cancella i segni del tempo, le tracce della storia, lo spirito originario dei luoghi. Dal dopoguerra questo delirio ha sfigurato le pianure e i centri urbani. Una cementificazione selvaggia e diffusa ha creato un mondo senza continuità di forme, tradizioni, memorie. Senza bellezza, senza identità.

La civiltà contadina e pastorale è in via di estinzione. Nessuno vuole chiudersi di fronte all’irrefrenabile esigenza della velocità. Ma questa si può conseguire semplicemente con strade più larghe e dal fondo levigato e ben tenuto. Sull’altare del superfluo e del sovrabbondante si distrugge il semplice e il sobrio che è la misura della civiltà delle montagne, il suo modo rispettoso di rapportarsi alla natura come espressione del divino.

Deve essere finalmente chiaro che il paesaggio con i suoi monumenti definisce un’identità da salvaguardare e da difendere, non un ostacolo da abbattere o una risorsa da sfruttare in modo improprio. Si deve gridare dai tetti, alto e forte, il principio dell’intangibilità del patrimonio ambientale ed artistico e denunciare il reato di illecito estetico. La bellezza è di tutti. Nessun amministratore può arrogarsi il diritto, per una delega data una volta, di scippare la collettività del suo patrimonio di bellezza pervenutole da un lungo succedersi di generazioni.

La Val di Susa è tremendamente lontana. Non una protesta, non una petizione. La distruzione continua. Ai nostri figli, ai nostri nipoti non rimarrà nemmeno il ricordo di quelle atmosfere sospese, di quel mondo incantato. Avanti con le grandi opere, con i colossali tappeti di bitume per le sognate masse di turisti in visita a cosa, se non alle stesse presunte grandi opere?

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Titolo Autore Data
Contatto Redazione TN Thursday, Aug. 24, 2006 at 11:55 AM
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