Anche sotto le bombe israeliane, la Borsa di Beirut non ha mai sospeso le contrattazioni così come il settore bancario ha retto senza troppi problemi e, mentre la guerra rimane nella realtà di ogni giorno, c'è già chi stima in 15 miliardi di dollari il costo necessario per ricostruire, in circa tre anni, quanto distrutto dai bombardamenti (dati forniti dall'Agenzia Onu per lo Sviluppo).
Secondo le stime governative libanesi, i bombardamenti hanno causato danni alle infrastrutture per 3,6 miliardi di dollari: tra abitazioni, uffici ed esercizi commerciali, sono stati distrutti 35 mila edifici, oltre a circa 10 mila unità abitative e a centinaia di ponti e viadotti. Colpiti, e non certo in modo collaterale, pure aeroporti, cisterne e strutture per la distribuzione dell'acqua, nonché depositi di carburante; pesantissimi anche i danni ai sistemi idrici e sanitari, tali da aver determinato le denunce di Amnesty International per le conseguenze sulla popolazione civile della politica terroristica attuata dal militarismo israeliano. Pressoché irrilevanti invece i danni inferti alle installazioni militari delle forze armate libanesi (danni per appena 16 milioni di dollari, al 16 agosto, secondo i dati del Centro ricerche economiche di Beirut); ma ciò non deve destare particolare meraviglia dato che dall'inizio dell'anno, Usa e Gran Bretagna sono impegnati nella riorganizzazione delle forze armate libanesi, fornendo, inizialmente, consulenza tecnica ed addestramento, quindi equipaggiamenti per circa dieci milioni di dollari (si veda a riguardo l'articolo "Washington corre in aiuto dell'esercito di Siniora", su Il Sole-24 Ore del 5 agosto scorso). Dopo che il Libano è così tornato alla situazione post-bellica, successiva all'infinita guerra civile iniziata nei primi anni Ottanta e durata quasi un ventennio, il ricco piatto della ricostruzione è infatti il vero elemento di divisione tra i diversi stati che, Italia in testa, forniranno le truppe per il contingente Onu di interposizione. Infatti, se il Partito di Dio (ossia Hezbollah) ha assicurato alle famiglie rimaste senza casa, il pagamento di un canone annuale d'affitto, oltre a prestiti agevolati e vendita a prezzi scontati di Tv e frigoriferi, mentre la Mikati Telecom Group di proprietà dell'ex-premier ricostruirà a sue spese 5 ponti nella regione di Saida, la corsa al business vede concorrenti internazionali più agguerriti dei reparti speciali incaricati della missione di peacekeeping. La Francia, dopo aver fornito armi alle forze libanesi, per una serie di motivi che storicamente la legano al paese dei cedri, era apparsa subito in pole position e già si avanzavano i nomi di sue imprese importanti quali Bouygues, Vinci, Alstom, ed infatti, dopo alcune schermaglie al fine di ottenere le dovute garanzie, il presidente Chirac ha annunciato l'invio di duemila militari. A seguire, gli Stati Uniti che però, essendo invisi nell'area, dovranno operare all'ombra di istituzioni finanziarie; ma la stessa Italia, forte dell'esperienza economico-militare in Libano negli anni Ottanta, ha sicuramente buone carte da giocare, soprattutto nel settore edilizio. Vi sono inoltre le borghesie e potentati arabi del Golfo, che, dopo aver assistito passivamente al dramma libano-palestinese, hanno già destinato ingenti investimenti per realizzare progetti turistici e immobiliari. Certo comunque l'aiuto, tutt'altro che disinteressato, consistente in 500 milioni di dollari subito e altrettanti in seguito da parte di re Abdallah dell'Arabia Saudita, tradizionale alleato economico del Libano, e del Kuwait, che ha inviato aiuti per 70 milioni di dollari, promettendone altri 300. Ancora una volta, quindi, l'interventismo umanitario occidentale e il soccorso fraterno islamico dimostrano d'essere nient'altro che le maschere delle immutate mire del capitalismo.
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