Clara Sereni ha intervistato Manuela Dviril, scrittrice e attivista pacifista israleliana, nata e vissuta in Italia per vent'anni. Dopo aver perso nel 1998 un figlio nella striscia di sicurezza libanese, Manuela ha fondato "Saving children", organizzazione pacifista gestita dal centro Peres per la Pace, che tra l'altro ha salvato la vita di più di tremila vite bambini palestinesi, curati negli ospedali israeliani se in quelli palestinesi le strutture non erano all'altezza. Manuela se la prende con gli ebrei della diaspora che, a suo giudizio, parlano senza conoscere la realtà di israele e si trincerano dietro la Shoah.
«Da israeliana dico: Israele non si trinceri dietro la Shoah» di Clara Sereni
Gli occhi, già normalmente bellissimi ed espressivi, adesso mandano lampi. Manuela Dviri, più che triste, mi sembra arrabbiata. Israeliana nata e vissuta fino a vent'anni in Italia, Manuela Dviri è diventata attivista per la pace dopo aver perduto nel 1998, nella striscia di sicurezza, in Libano, un figlio amatissimo. Il suo progetto «Saving children», gestito dal centro Peres per la Pace, ha salvato più di tremila vite palestinesi bambine, curate negli ospedali israeliani quando e se in quelli palestinesi le strutture non erano all'altezza. Ma c'è anche la formazione di personale medico, la condivisione di strumenti e di competenze: salvare un bambino vuol dire tessere relazioni, imparare che l'altro non è soltanto il tuo nemico, collaborare , conoscersi. La sua ostinazione a raccogliere attorno al progetto aiuti ed affiancamenti, a partire da quelli di molti Enti locali italiani (Umbria, Toscana, Marche, Emilia Romagna, Lazio), dà frutti che travalicano le previsioni, e consente il dispiegarsi delle diplomazie parallele, quelle nate dal basso, forse alla fine le più efficaci nella complessa geografia mediorientale. Riconoscendo il valore di quel che fa, le hanno anche conferito numerosi premi e riconoscimenti. Dunque dovrebbe essere contenta, ma visibilmente non lo è.
Perché sei così arrabbiata, Manuela? «Ogni tanto non ne posso più. La situazione in Israele, in questa fragile tregua dopo la guerra, è molto preoccupante, i pericoli tanti (dalla classe dirigente che è in bilico e sotto inchiesta all'esercito che chiede rivincita, ai rapporti con il mondo arabo e con i vicini palestinesi), ma continuo a sentir dire dagli ebrei della diaspora che io, per esempio, non la capisco mica bene, la situazione di Israele. Che sono pacifista perché mica li conosco, gli arabi: penso che ci si possa fidare di loro, e invece...Il piccolo dettaglio, quello che periodicamente mi manda fuori dalla grazia di Dio, è che io in Israele ci vivo, e loro no. Che io conosco questa realtà e pago per le decisioni prese dal governo del mio paese e loro no. Pensano (suppongo in buona fede) che schierarsi acriticamente a favore dello Stato di Israele sia il modo migliore per salvaguardarne non solo l'esistenza, ma la purezza, il suo continuare ad essere uno Stato speciale, un luogo dello spirito e non uno Stato come tutti gli altri, con i pregi e i difetti di tanti altri. Criticano me, criticano molti altri attivisti israeliani (ma non i politici o i capi di stato , quelli no…), criticano tutti coloro che cercano di aiutare criticamente il Paese ad uscire da una situazione di stallo e di rischio, così si sentono a posto con la coscienza, magari anche raccogliendo fondi per progetti, che spesso sono anche fuori dal tempo e dalla realtà di Israele oggi».
Cosa dovrebbero fare, secondo te, gli ebrei italiani, e in generale gli ebrei della Diaspora? «Hai presente quei genitori che, chiamati dagli insegnanti per segnalare un problema serio, concreto (una balbuzie, una dislessia), difendono a corpo morto il proprio figlio, adducendo ogni serie di motivazioni, anziché affrontare il problema vero e tentare di risolverlo? Ecco, bisognerebbe che si smettesse di fare così, di trovare scusanti per ogni errore o problema. A noi israeliani non serve che ci si trinceri ogni volta dietro la Shoah, che pure resta un segno tragico e incancellabile della nostra storia. A noi israeliani serve che ci si aiuti a capire fino in fondo la realtà in cui viviamo e che determiniamo, e cosa possiamo fare per uscire dal cul-de-sac in cui ci troviamo. E, per tutti, è necessario che lo si capisca in fretta: prima che l'Iran si doti dell'atomica, prima che i fondamentalismi di ogni tipo trovino armi (non solo militari) ben peggiori delle attuali. Un esempio fra tanti: la situazione di Gaza. Una situazione che è ben poco definire drammatica, e scandalosa. I cori della Diaspora vanno nella direzione di ignorarla. E io mi chiedo, e lasciamo per il momento da parte la questione morale, cos'è più utile, per Israele, che si lasci imputridire la situazione nella Striscia fino all'esplosione, che ci riempirà tutti di fango, o non invece cominciare noi ad affrontare il problema, intervenendo fin d'ora per il miglioramento delle condizioni di vita a Gaza? Sia da parte israeliana che palestinese si insiste continuamente sulla rivendicazione delle proprie sofferenze, come se la questione di due popoli e due Stati potesse essere risolta pesando su una bilancia il dolore degli uni piuttosto che quello degli altri».
Come pensi che se ne possa uscire? «Anche nella vita quotidiana, e per problemi ben minori di quelli di cui stiamo parlando, la propria sofferenza è immancabilmente più "importante" di quella altrui. Per non dire che se si lega il diritto alla terra a un'investitura divina, l'unica conseguenze può essere l'acuirsi dei contrasti religiosi. Dunque non è in questa direzione che può muoversi la speranza. Ci vuole la politica: quella dal basso, fatta di progetti di cooperazione che aiutano a conoscersi, a misurarsi attorno ai problemi e non alle ideologie. E la politica "alta", quella dei dirigenti politici e delle diplomazie».
Sui progetti di cooperazione capisco come gli ebrei della Diaspora, e non solo loro, possano dare il proprio contributo. Ma sulla politica alta? «Tutti abbiamo imparato quanto l'opinione pubblica pesi sulle grandi decisioni. Certo, se la gran parte dell'ebraismo internazionale si schiera con Bush e la sua guerra preventiva, con l'idea che questo sia il modo migliore per salvaguardare Israele, è ben difficile che quel peso sia positivo. Ma si può cambiare. Si può aiutare Israele proponendo nuove idee, e creative, per la risoluzione del conflitto, l'abbiamo visto anche ultimamente, con l'importante intervento dell'Italia nella sua mediazione tra le parti. Tutto è possibile, ma bisogna provarci, non solo commuoversi e soffrire per noi. Si può aiutare Israele cercando di conoscerlo meglio, seguendo più da vicino, ricordandogli come è nato, uno Stato compiutamente laico, forte di un progetto che ha prodotto risultati eccezionali (la rivitalizzazione della lingua ebraica, ad esempio, la costruzione stessa di un paese così straordinario e unico in meno di sessant'anni) ma che va sempre più smarrendosi nelle secche di problemi tipici di tutte o quasi le economie post-capitaliste, più qualche altro "piccolo" dramma in sovrannumero. La fine del mito onnipotente di Tzahal come esercito perennemente vincitore, che produce un netto senso di lutto non solo in Israele, può essere l'occasione per aiutarci a capire fino in fondo che non c'è vita per noi - vita fisica e vita comunque degna di essere vissuta - senza pace. Israele resta, in Medio Oriente, l'unico Stato con strutture compiutamente democratiche, e di questo tutti gli ebrei vanno giustamente fieri. Ma se qualcuno ci aiutasse a studiare fino in fondo quanto la nostra democrazia, come quella di altri Paesi, si sia deteriorata in tanti anni di guerra, credo che questo sarebbe molto più utile delle pacche sulle spalle, inevitabilmente complici, che così di frequente ci rifilano. Io personalmente non so che farmene di pacche sulle spalle. Voglio e devo pensare al futuro dei miei figli e dei miei nipoti. Voglio vivere in un Paese in cui tzedakà, giustizia, torni ad essere una parola-chiave: per tutti quelli che vivono al suo interno - arabi-israeliani inclusi -, e per tutti quelli che, all'estero, lo sentono come parte della propria identità».
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