Sgomberata una delle ultime esperienze antifasciste in città.
Ennesimo sgombero e sconfitta. Ieri hanno chiuso l’Orso, l’Officina di resistenza sociale sui Navigli, una delle ultime esperienze di antifascismo di quartiere a Milano. Il luogo di Dax, assassinato da quattro coltellate di due fascistelli non lontano da qua. I suoi compagni si sono fatti portare via, quattro asserragliati dentro e una trentina sul portone; resistenza passiva e slogan di rito di fronte al consueto esagerato schieramento di forze dell’ordine. Poca gente attorno, il consigliere regionale Luciano Muhlbauer (Prc) a vigilare che non ci scappasse la manganellata e un anziano passante che chiedeva: «Ma chi c’è lì dentro il figlio di Totò Riina?». E’ il ritratto della fine di un’epoca che sarebbe bene per il movimento celebrare con un degno funerale laico, con tanto di festa, e con un battesimo per qualcosa di nuovo, introvabile forse in una sola definizione, ma senza le menate del passato di un’area che pochi anni fa avrebbe mobilitato in una mattina d’ottobre centinaia di giovani, compagni, proletari… L’onda dei centri sociali a Milano è finita da un po’, si sa, ma non si dice, perché fa male e alimenta il giro infinito di accuse e divisioni. Quelli dell’Orso l’hanno dimostrato proprio ieri. Si sono vissuti lo sgombero come una comunità, rilanciando l’iniziativa in quartiere già da sabato, senza contare sulla solidarietà di un’area che non c’è quasi più. Ieri hanno pagato il prezzo a questa città e all’immobiliare Yucatan che per 400mila euro ha rilevato la palazzina a un’asta giudiziaria. Un ottimo affare nel cuore dei Navigli in continuo rifacimento. Qui la movida tiene sempre, estate e inverno. E il prezzo del metro quadro non scende mai. Lo sanno le cooperative costruttori, area centrosinistra, che dietro all’Orso costruiranno due nuovi palazzi, e lo sapevano anche quelli dell’immobiliare Magolfa che volevano costruire la Residenza Navigli, su quello che fu un altro spazio “liberato”, via Gola. Dopo cinque anni il cantiere edilizio è fermo, qualcuno è scappato con la cassa. E’ la jungla immobiliare di Milano, tra case popolari dove vivono anziani ostaggi di un quinto piano senza ascensore e promesse residenziali a prezzi da Manhattan. Quelli dell’Orso continueranno a battersi contro la speculazione edilizia: «Un luogo ce lo prenderemo, questo è sicuro - ci dicono - bisogna dare un segnale di inversione della tendenza».
Sui Navigli adesso rimane solo Conchetta e la Calusca City Lights, un monumento alla storia dei movimenti di questa città. Non si è mai capito se occupa o no, ma non è lì il problema: Cox18 c’è, sulle controculture e sul quartiere. Ma il catalogo dei centri milanesi ormai è corto. C’è il Garibaldi nell’omonima via, orfana di Valpreda e di case popolari trasformate a “ringhiera di lusso” per ricchi che presto li sfratteranno. In via Friuli c’è il Vittoria, che affitta e non rischia, salvo incursioni di squadracce, e sembra il più piantato nel solco dell’antagonismo storico. In zona Greco il Leoncavallo cerca un’originale e complessa trasformazione in S. p. A. (spazio pubblico autogestito) con l’acquisto dell’area e una serie di cooperative e collettivi più rivolti al sociale che al conflitto tradizionale. E in viale Monza c’è la casa dei Transiti che nessuno si azzarda più a comprare con quegli inquilini dentro, troppa storia politica e di vita attaccata a quei muri. La storia a cavallo dell’assalto al cielo di Milano finisce qua. E si passa ai figli degli anni ’90. Il Bulk si è sciolto insieme alla speranza di una nuova generazione ribelle. Sono in giro, fanno cose e vedono gente, tra “conflitti in comune”, critical-wine, media-attivismo e le periferie. Il Torchiera, anarchico e spettacolare coi suoi giocolieri e mangiafuoco, continua il suo percorso da cascina occupata. Pergola Tribe si dice sia sotto sgombero, ma sarà sotto sfratto a gennaio perché in scadenza d’affitto. Nel frattempo dentro sono cresciuti oltre al bar, al ristorante e all’ostello i Chainworkers, San Precario e Serpica Naro, il meglio della creatività precaria sovversiva. Sono quelli che più di tutti si sono staccati dal centro tradizionale e dall’autonomia di classe, puntando radicalmente sulle soggettività, sul loro tempo. Ci riescono e si divertono. E forse questa è la strada.
Esistono poi Casa Loca, occupazione studentesca e migrante davanti all’università Bicocca, una delle uniche novità milanesi post-Genova, viva e attiva, anche se non proprio in solidali rapporti con gli altri, causa ruggini disobbedienti. Stessa famiglia per il Cantiere che lavora con i collettivi studenteschi e sulla comunicazione con Global Project, ma ha un problema di probabile sgombero essendo tra i pochi ad aver rotto le scatole in giro in questi anni con manifestazioni, azioni a sorpresa e provocazioni. Quando li spazzeranno via potranno contare sulle loro forze e sugli studenti cresciuti sulla lotta nelle superiori contro la Moratti (ora sindaca). Di altro, di nuovo, ci sono i Giovani comunisti, sempre più attivi e presenti, e realtà a Rozzano, Rho, San Giuliano, nella speranza che fioriscano le periferie.
Gli anni ’90 non sono stati facili per nessuno a Milano con 4mila denunce da smaltire e una pesante svolta a destra della città (prima le Lega e poi Forza Italia). I centri si sono lentamente disgregati. «Credo che l’esperienza dei centri sociali degli anni ’80 debba essere rivista, la politica e la città si sono mosse e il movimento è rimasto su se stesso. E le forme del conflitto di un tempo non sono più adatte a questo», racconta Mirko Mazzali che oltre ad essere lo storico avvocato del movimento, ne è un vecchio militante. In questa città non ha attecchito la ripresa della questione della casa, non è fiorita l’unione anti-Cpt nonostante una manifestazione di 20mila persone non più di sei anni fa, l’anti-precariato non ha sfondato (salvo nella May Day ma con scontri interni), sono naufragati i Forum sociali e il movimento contro la guerra, fortissimo nei numeri iniziali, è stato preda della malattia disfattista di tutta la sinistra milanese. Nemmeno l’antifascismo è più un collante. I fatti del 11 marzo, con gli scontri in corso Buenos Aires per impedire il corteo della Fiamma Tricolore, hanno separato ancora di più. Domani il tribunale potrebbe decidere la scarcerazione dei 18 condannati ai domiciliari e alcuni di loro non troveranno più l’Orso.
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