rilettura di Gomorra
Aprendo Gomorra è difficile reprimere il sospetto: quanto c’era di vero, e quanto di marketing, nella campagna per concedere una scorta all’autore? Saviano non l'aveva chiesta, e almeno in un primo tempo non la voleva; il suo libro è un atto di accusa e di sfida, ma non dice nulla di veramente nuovo; nulla che non ci sia capitato di orecchiare qua e là sui giornali e persino in tv. Nomi e cognomi ce n’è, ma perlopiù di condannati o latitanti; il quadro finale risulta frammentario, soprattutto per la mancanza di quella Teoria Unificata del Complotto che il lettore italiano si attende ormai per assuefazione. Nessun grande vecchio qui: solo un’anarchia feudale sfarinata in centinaia di territori e dinastie che Saviano nemmeno tenta di ricostruire. Davvero ha senso metterlo a tacere? Di storie di camorra tutti si riempiono la bocca. Cosa c'è di così pericoloso proprio in questo libro?
Una risposta, parziale, arriva verso la fine, nel capitolo dedicato all'assassinio di Don Diana: un prete, ma soprattutto un testimone, che credeva nella parola. "Una parola capace di inseguire il percorso del denaro seguendone il tanfo. Si crede che il denaro non abbia odore, ma questo è vero solo nella mano dell'imperatore. Prima che giunga nel suo palmo, pecunia olet. Ed è un puzzo di latrina. Don Peppino operava in una terra dove il denaro reca traccia del suo odore, ma per un attimo. L'istante in cui viene estratto, prima che diventi altro, prima che possa trovare legittimazione".
Più in là si racconta di come finiscano i boss. Chi non muore ammazzato a volte si ricicla come cronachista. Sopravvivono rivendendo allo Stato la loro storia, un complicato meccanismo di potere e denaro, un percorso olfattivo che senza di loro resterebbe sconosciuto. La loro parola è davvero preziosa. Avremmo dovuto smettere, da un pezzo, di chiamarli “pentiti”: solo ai cronisti della domenica può interessare il loro pentimento. Quello che davvero interessa è la competenza, il know-how, la storia di un imprenditore di successo. Nel silenzio generale, i camorristi detengono un bene prezioso.
In questo silenzioso mercato della parola, il libro di Saviano è un tuono e un lampo. La Napoli di cui sentivamo parlare ne esce trasfigurata, come sul negativo della pellicola. Non è una teoria unificata, non è (per fortuna) il romanzone criminale pronto a trasformarsi in epica cinematografica. Ma è la fine di cento luoghi comuni.
- Per esempio: Napoli fannullona.
Gomorra racconta una città, una civiltà intera, in rapida espansione economica e commerciale. C’è tutta la fuliggine e il sudore dei sobborghi industriali dickensiani. Il porto di Napoli è il centro del mondo, non il cuore ma il piloro: tutto ciò che è merce transita da lì. Tessile, droga, armi, turismo, cemento, cemento, cemento, per finire con l’industria lucrosa dello stoccaggio rifiuti (Napoli è anche lo sfintere). I campani non stanno con le mani in mano un secondo solo. Ecco una parola che a nord di Caserta risulta ancora scandalosa: ricchezza. Il Meridione non è l’eterno passato dell’Italia, la regione bloccata nel sottosviluppo, imprigionata nelle sue tradizioni. Senza troppo chiasso Saviano capovolge il quadro: il Sud è il futuro dell’Italia, il suo sottosviluppo è funzionale alla produzione, la sua forza lavoro se la batte ad armi pari coi draghi cinesi, le sue cosiddette tradizioni sono quelle modernissime del gangsterismo globale reinventato a Hollywood.
- Un altro esempio: la bella Napoli.
Mentre i telegiornali ci mostrano una Napoli da cartolina che va a piangere la morte del suo re dei guappi, Saviano ci racconta una Napoli che spreme ricchezza dallo sconfinato disprezzo che nutre per sé stessa. I camorristi non amano il loro territorio, né i loro conterranei. Il loro potere è basato sul disprezzo per quello che hanno intorno, la loro ricchezza è basata sull’impoverimento sistematico delle risorse. Non si tratta soltanto di depredare una regione: si tratta di mantenerla, artificialmente, nel Terzo Mondo, quando improvvisamente il Terzo Mondo diventa competitivo. Per reggere la concorrenza con la produzione tessile asiatica, gli opifici casertani devono mantenere paghe da fame. Per garantirsi un bacino di manovalanza disperata, gli impresari del traffico di droga hanno bisogno che Scampia e Secondigliano restino terra di nessuno. Il camorrista inedito che esce dalle ultime pagine del libro di Saviano non è il boss sanguinario, ma lo “stakeholder”, il libero manager dello stoccaggio abusivo che svende la sua stessa terra in proficui lotti di discarica.
(Ti fa schifo questo mestiere? Robbe', ma lo sai che gli stakehoder hanno fatto andare in Europa questo paese di merda? Lo sai o no? Ma lo sai quanti operai hanno avuto il culo salvato dal fatto che io non facevo spendere un cazzo le loro aziende?)
La monnezza ci ha portato in Europa (del resto, avverte Saviano, i padri della nazione sono i palazzinari, altro che Parri ed Einaudi). La città del sole e del mare si è riciclata in pattumiera del mondo, per creare ricchezza che andrà a fruttare altrove: nel nord operoso, o nella Scozia del clan La Torre o sulla costa spagnola, ovunque i boss decideranno di reinvestire e riciclare in imprese, spesso alla luce del sole.
- Infine: l’omertà.
Che in Gomorra non è l’antica reazione della piccola comunità che si chiude a riccio, ma un più moderno e neoliberista pensare agli affari propri. Un’omertà che coinvolge tutti noi, anche qui a nord, quando liquidiamo la camorra come sopravvivenza del passato, eterno ritardo del meridione. Una bugia comoda per le nostre velleità di padroncini del mondo, reucci della piccola impresa. Saviano ci grida che è sbagliato: Gomorra non è un mondo a parte, ma è una città del nostro mondo. I suoi traffici sono i nostri traffici, la sua ricchezza è la nostra. Non un passato altrui, ma forse il nostro futuro: un far west tossico, popolato da bulletti senza prospettive, e governato da signori rinchiusi nelle loro ville hollywoodiane nascoste tra i rifiuti.
Di questo ci parla Saviano. Senza i compiacimenti dei professionisti del noir o dei teorici della mitopoiesi, nel suo libro rifonda il suo materialismo sugli odori e le tracce di sangue e denaro. Al centro, finalmente, il vero motore da cui tutto dipende (politica inclusa): la Merce. Per averci raccontato quello che siamo o che diventeremo, per avere spacciato a poco prezzo parola e conoscenza, Saviano è stato minacciato di morte. Ma esiste una minaccia ben peggiore per gente come lui, ed è sempre la stessa: il non esser più letti, il non essere più compresi. Leggete Gomorra.
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