da il manifesto:
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/19-Novembre-2006/art23.html
La rete di mediattivisti in assemblea a Torino per decidere sul proprio futuro. La crisi del progetto nato a Seattle e cresciuto dopo Genova che per anni ha ospitato voci e immagini del movimento Problemi tecnici. E non Il provider gratuito si tira indietro. 31 siti internet, tra cui l'Italia, devono traslocare Sara Menafra Inviata a Torino
Indymedia rischia di chiudere. Il tam tam allarmato risuona da alcune settimane e da qualche giorno, sul sito italiano del network nato a Seattle, cresciuta a Genova e sopravvissuta alle tante diaspore del movimento, è apparso l'annuncio che convoca tutti i «mediattivisti» a Torino in questo weekend per una assemblea nazionale chiamata a decisioni radicali. Ad accelerare i tempi è un problema tecnico: il provider che dal 2002 fornisce gratuitamente un server ed una buona e costosa connettività di rete (che permette al sito di reggere migliaia di accessi), ha deciso che aiutare Indymedia comporta un impegno che lui non ha più voglia di fornire. Quindi, con uno stile americano che in Europa manda spesso nel panico, ecco una breve mail per chiedere a trentuno IndyMediaCenter sparsi nel mondo, tra cui il nodo italiano, di migrare altrove. Molti, in particolare alcuni nati in america centrale, saranno costretti a chiudere, altri cercheranno soluzioni alternative. Ovvio che per un gruppo tirato su da un «nocciolo duro» di espertissimi di computer il problema non sia solo tecnico. La mail che ha indetto l'assemblea è chiara e ambiziosa - «Quale ruolo svolge Indymedia e quale vorremmo che svolgesse?» - e del resto la parte del sito curata dagli attivisti langue da tempo senza particolari guizzi di novità. L'Asilo occupato, che ospita la riunione, è gelido già alle cinque di venerdì pomeriggio, quando arriva il primo gruppetto. Poco più di un mese fa un attivista di Indymedia New York, Bradley Roland Will, è morto durante una manifestazione in Messico filmando l'attimo in cui è partito il colpo che lo ha ammazzato. Eppure il dubbio c'è: è possibile che le ragioni su cui è nato il progetto non siano più attuali?
Mediattivismo E' il 12 giugno 2000 e siamo a Bologna quando Indymedia Italia (http://italy.indymedia.org) entra in azione per la prima volta. Il sito Indymedia.org è nato durante le manifestazioni di Seattle del novembre 1999 e si distingue subito dal pulviscolo degli altri spazi digitali di movimento perché in se ha un grande innovazione tecnica e un idea forte. L'innovazione tecnica è la possibilità di «uploadare» in tempi rapidi e rendere immediatamente scaricabili video e immagini digitali. All'epoca - sembra un'altra era geologica, non ci sono ancora i videofonini e manco a parlarne di sistemi come youtube - è una grossa novita: Indymedia è il primo sito al mondo che permette di mettere in circolazione le proprie immagini velocemente, gratuitamente e «anonimamente», come vuole una filosofia che oltreoceano è particolarmente legata ai movimenti anarchici. Lo slogan in controcanto sintetizza il concetto: «Became your media», ovvero fatti tu la tua comunicazione, non aspettare che arrivino le telecamere dei telegiornali. Nei giorni in cui il «movimento di Seattle» si scalda è lo strumento giusto per documentare rapidamente cortei, manifestazioni e scontri. Ad ogni iniziativa nata per contestare i vertici globali corrisponde un Mediacenter: è soprattutto un supporto «tecnico», per essere «di Indymedia» non serve nessun requisito, basta presentarsi e partecipare. Funziona così a Praga per la riunione della Banca mondiale (settembre 2000), a Napoli per il G7 (marzo 2001), a Goteborg il 14 giugno 2001. Poi arriva Genova 2001 che per tutti è il punto di passaggio. Il sito diventa il punto di riferimento per coloro che vogliono sapere che cosa accade nelle piazze della città. E' il più veloce a dare gli aggiornamenti su quel che si muove in quelle giornate. E i video amatoriali che raccoglie, nei mesi successivi, saranno la base per ricostruire quel che è accaduto nelle strade della città. Lo sanno i mediattivisti e lo sanno polizia e carabinieri che durante la sanguinolenta perquisizione nella Diaz non dimentica di dare una occhiata alla Pascoli. Nel febbraio 2002 i poliziotti si presenteranno a Bologna - su mandato dei magistrati genovesi - a Bologna e sequestra l'archivio del Teatro polivalente occupato che conserva la maggior parte dei video raccolti a Genova. E' la prima vera botta d'arresto che il progetto subisce in Italia ed è più o meno contemporaneamente che gli attivisti del gruppo decidono di dedicare spazio e impegno ai processi genovesi (una parte di loro si dedicherà sempre di più al progetto Supportolegale) e nella riorganizzazione dei server, il «donatore» che oggi si tira indietro offre un aiuto agli italiani. Parallela alla «crisi» del movimento nasce la difficoltà di scegliere a quali iniziative dare priorità e quali lasciare indietro. Schierarsi con le fronde è difficile e fare la sintesi fra tutte impossibile.
Il metodo del consenso Il nodo è complicato perché tocca anche il metodo. Forse perché nato sulla rete, Indymedia cercare di mettere in discussione la «gestione del potere», ovvero il problemone un po' astratto con cui si misurano prima o poi tutti i movimenti. La formula trovata, rubata al movimento di Seattle, è il «metodo del consenso». C'è un problema x, ogni partecipante alla discussione dice cosa pensa dell'argomento, e non si fa nulla finché le due proposte più estreme non abbiano trovato una sintesi. Il che vuol dire che non è possibile che il «leader» naturale di un gruppo decida sulla base del proprio carisma. In Italia, ammettono gli indyattivisti, non ha quasi mai funzionato. E dire che i tentativi li hanno fatti e spesso: dopo l'assemblea nazionale del 2004 i «vecchi» del gruppo per un lungo periodo hanno abbandonato la gestione del sito internet in modo da lasciare più spazio possibile ai nuovi. Eppure la questione è ancora aperta.
Open publishing E poi c'è la valanga di «post» che piovono continuamente sul sito nato per essere «aperto». La forza di Indymedia negli anni in cui il progetto parlava forte era la «pubblicazione aperta». Solo grazie a quello strumento diventava possibile pubblicare e mettere in circolazione rapidamente immagini e testimonianze di quel che accade nel mondo. Negli anni il meccanismo ha mostrato le prime crepe, esposto alla continua pubblicazioni di cose (dai porno agli insulti) che col mediattivismo hanno poco a che fare. Tant'è vero che alcuni Imc non ne sono più provvisti. Indymedia Madrid (http://madrid.indymedia.org) lo ha eliminato e lo stesso sito madre indymedia.org, raccoglie le news dai siti sparsi negli Stati uniti attraverso un sistema di feed. In Italia una scelta del genere sarebbe difficile, eppure c'è stata una occasione in cui un gruppo ha deciso di mollare. E' successo per Indymedia Sicilia: «I tifosi del Palermo - racconta una attivista - usavano lo spazio come valvola di sfogo per i loro litigi e protestavano quando questi messaggi venivano oscurati. Una volta uno di loro ha telefonato ad un gestore del sito minacciandolo perché aveva cancellato i suoi insulti. Abbiamo chiuso per diversi mesi, ma anche ora che il sito è stato riaperto è difficile pensare che le cose possano davvero funzionare».
Decisioni Oggi il gruppo di Indymedia Italia è composto da un centinaio di persone che si coordinano via internet pubblicando periodicamente notizie locali e nazionali, gestendo uno spazio del sito «aperto» (le notizie fasciste, sessiste, razziste o a carattere personale vengono oscurate) e tenendo in vita spazi di informazione locale. Si riunisce raramente, l'ultima assemblea nazionale data autunno 2004. E' per questo che l'assemblea di questi giorni sembra ancora più decisiva. «Davanti a noi - dice un attivista fiorentino - abbiamo tre soluzioni: mantenere il sito cosi com'è spostandolo da un'altra parte, costringere il sito nazionale a decrescere, oppure fare solo siti regionali e locali che poi periodicamente riversano le informazioni che hanno su un sito nazionale quasi automatizzato. Oppure chiudere, almeno per un po'».
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