Le testimonianze di Battistini (Corriere) e dei colleghi Viaggio verso Bagdad, il racconto degli inviati Il posto di blocco. L'interrogatorio. Fino all'arrivo nella capitale. Così i reporter italiani ripercorrono 24 ore in mano agli iracheni Francesco Battistini, con i colleghi Vittorio Dell’Uva, Leonardo Maisano, Lorenzo Bianchi, Luciano Gulli, Ezio Pasero Toni Fontana, è arrivato ieri pomeriggio all’hotel «Palestine» di Bagdad. Le autorità irachene sono state gentili ma esplicite: i colleghi non sono considerati giornalisti, ma cittadini stranieri entrati senza visto. Il Palestine è l’albergo dei giornalisti, ma Francesco non può trasmettere il pezzo che avrebbe voluto scrivere. Questi sono i suoi appunti, le cose che mi ha detto in fretta, nella hall, fra un interrogatorio e un controllo.
Da sinistra, Fontana, Pasero, Maisano, Dell'Uva, Gulli, Battistini e Bianchi (Ansa) IL RACCONTO - «Abbiamo noleggiato alcune jeep e siamo partiti per Umm Qasr, il porto controllato dalle truppe britanniche. Si sentivano sparatorie, ma la strada sembrava percorribile e senza intoppi. Abbiamo percorso una quarantina di chilometri, fino alla periferia di Bassora. Due check-point inglesi ci hanno fermato e avvertito che la strada non era sicura. Ma i soldati lo dicono a tutti e poi eravamo in giro da qualche giorno, con tende, benzina e viveri. Non ce la siamo sentita di buttare via la nostra fatica. Siamo andati avanti, abbiamo passato un ponte e ci siamo trovati alla periferia di Bassora. Si sentivano colpi di mortaio, si vedevano profughi andare e venire dalla città, ma nel complesso la situazione ci è sembrata sotto il controllo degli iracheni. Ricordo di aver visto qualcuno pescare nel fiume e persino un traffico di automobili regolare». I giornalisti non si sono fermati, hanno incontrato un altro check-point, copertoni e qualche pietra sulla strada. Di traverso. Era una barriera irachena. «Ma ce ne siamo accorti soltanto quando l’abbiamo passata, perché alle nostre spalle è apparso un uomo armato, uno dei tanti civili con il Kalashnikov a tracolla, ma non ci ha fermato».
FERMATI - L’ingresso a Bassora consente una presa di contatto con una realtà un po’ diversa da quella dei bollettini di guerra. «Mi pare che gli iracheni tengano sotto controllo la città. Ci sono persino i vigili urbani, l’illuminazione, i negozi aperti». Sono stati proprio i vigili urbani a mettere involontariamente nei guai i nostri colleghi. I quali si sono fermati per chiedere informazioni. «Volevamo raggiungere la Croce Rossa e l’arcivescovado, punti di riferimento più importanti per avere il quadro della situazione». Ad un tratto è apparso un funzionario del Baath, il partito di Saddam Hussein. Un uomo gentile ma meno disponibile a dare notizie sulle vie e sulla situazione di Bassora. «Che cosa fate qui?» ha chiesto in inglese. «Per allentare la tensione abbiamo offerto sigarette, ma il funzionario ci ha fatto capire che non era il caso. Poi ci hanno accompagnato alla sede del partito, un palazzo con un grande ritratto di Saddam Hussein e molte bandiere sulla facciata. Davanti all’edificio si era radunata una piccola folla. Hanno cominciato a lanciare slogan pro Saddam, alzando al cielo pugni e Kalashnikov. Probabilmente avevano pensato che fossimo prigionieri di guerra, probabilmente eravamo già nella condizione di prigionieri senza accorgercene».
INTERROGATORIO - Il gruppetto viene fatto salire al primo piano, nella sala delle riunioni del partito. Si ritrovano tutti sotto un grande ritratto di Saddam Hussein e davanti a un dirigente, abbastanza anziano, presentato da un interprete come un eroe. «Ci hanno detto che questa stessa mattina aveva fatto saltare in aria da solo due carri armati americani». Per cominciare l’interrogatorio, viene chiamato un cronista della televisione araba Al Jazira. Intanto alcuni poliziotti frugano nelle borse, esaminano computer, maschere antigas, tute di protezione, telefoni satellitari, insomma tutto l’armamentario che ci segue ovunque, secondo la regola aurea che l’articolo più bello è quello che arriva al giornale. Questa volta il «pezzo» di Francesco non c’è, ma arriva al Corriere la sua preziosa testimonianza. «Volevano capire se fossimo in possesso di informazioni militari, se avessimo visto truppe americane nella zona, ma abbiamo spiegato che volevamo fare soltanto il nostro mestiere, capire come stessero davvero le cose a Bassora. Il funzionario ci ha chiesto se sapessimo che per entrare in casa di qualcuno si chiede permesso e che si passa dalla porta principale. Abbiamo spiegato che non sapevamo se la porta fosse aperta o socchiusa nella zona da cui siamo passati noi».
CLANDESTINI - «Da questo momento siete ospiti del governo iracheno»: il funzionario ha tagliato corto, ha fatto ritirare i passaporti e ha spiegato la nuova condizione dei colleghi, ribadita il giorno dopo a Bagdad dai funzionari del ministero dell’Informazione e degli Interni. I colleghi non vengono considerati giornalisti, ma stranieri entrati illegalmente. Clandestini, insomma, «anche se trattati meglio di come trattiamo noi i clandestini in Italia» hanno fatto notare alcuni inviati nelle interviste televisive. «Ci hanno portato in un albergo, lo Sheraton, e ci hanno assegnato camerette singole. L’albergo era buio, non c’era niente da mangiare. Ci siamo arrangiati con le scatolette. In serata hanno voluto fare un secondo interrogatorio. Questa volta singolo. Uno veniva sentito accanto alla cassa e gli altri aspettavano alla portineria il loro turno. Volevano accertarsi che la nostra versione dei fatti fosse veritiera. Il momento più brutto lo abbiamo passato all’alba, quando è cominciato un forte bombardamento della città. Poi è venuto il momento della partenza per Bagdad. Abbiamo attraversato ancora una volta Bassora, avendo modo di vedere distruzioni ed effetti dei bombardamenti e la sofferenza della gente che vive laggiù».
VERSO BAGDAD - Il viaggio verso la capitale irachena è andato liscio. Quattro ore, senza intoppi lungo il percorso. «La strada è sotto il controllo degli iracheni. Ci hanno dato una scorta e hanno fatto smontare e accartocciare per precauzione le targhe kuwaitiane delle nostre vetture». Nella hall dell’albergo i colleghi sono stati nuovamente interrogati. Abbiamo potuto assistere, recuperando altri particolari del racconto. Di solito gli articoli sui colleghi sono pettegolezzi o necrologi. Questa è una necessità, perché il buon lavoro fatto da Francesco e dagli altri inviati non finisse nelle sabbie irachene. Lo abbiamo raccontato per lui.
Massimo Nava 30 marzo 2003 “Corriere della Sera”
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