Palmieri’s Blues... Note sulla questione abitativa nella Metropoli di Milano.
Il 26 luglio 2002, sei poliziotti travestititi da tecnici AEM, con il pretesto di controllare delle fughe di gas, si intrufolano nell’appartamento di un’occupante di via Palmieri 1 a Milano e la stessa viene, nel giro di pochi minuti, costretta a lasciare la casa (in cui viveva da dieci anni) insieme ai suoi figli (minori). La trappola funziona e lo sgombero viene eseguito. Il giorno successivo, però, l’appartamento viene rioccupato dalla stessa famiglia, che al sopraggiungere di “forze dell’ordine” di ogni tipo, ben determinata a tenersi la casa, mostra tre bombole di gas. Riesce così a mantenere l’occupazione. Si costituisce da subito un comitato di lotta per la casa, formato dalla stessa famiglia, da altri occupanti e da inquilini solidali, si organizzano assemblee, presidi davanti alle case, volantinaggi ecc. Il 21 agosto, alle sei del mattino, 200 tra poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa militarizzano parte del quartiere Stadera per poi invadere lo stabile di via Palmieri 1. Obiettivo: eseguire i primi sei sfratti dei dodici previsti nello stabile, primo della lista quello della famiglia che un mese prima aveva rioccupato dopo essere stata sgomberata. La reazione immediata da parte del comitato è stata quella di occupare gli uffici dell’ALER e chiedere il blocco immediato di tutti gli sfratti e una sistemazione per le famiglie. I dirigenti ALER con i quali si è svolto un incontro, hanno scaricato su comune e regione ogni responsabilità ed hanno accuratamente evitato di dare risposte precise. Alle famiglie sfrattate non è stata proposta alcuna alternativa, sono seguite promesse e incontri, tantè che vivono tuttora accampate presso parenti e amici.
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L’esperienza di via Palmieri e il lavoro del comitato di lotta per la casa, sono anche occasione per riaprire una riflessione sulla condizione proletaria nella metropoli e sulle prospettive di lotta.
La trasformazione delle politiche sulla casa è strettamente correlata ai processi sull’abbattimento dello “stato sociale”, alla ristrutturazione del mercato del lavoro che ne precarizza sempre più i rapporti e alle politiche sull’immigrazione. Questi processi che attaccano pesantemente le condizioni proletarie e ne riformulano i processi di riproduzione, sono in questa fase, con il governo di centrodestra, gestiti con una forte rigidità. Già il centrostinistra aveva creato le condizioni “quadro”, ora si tratta di dare la spallata decisiva (vedi art.18, patto per l’Italia, legge Bossi-Fini ecc.).
E’ in questo quadro che si colloca anche la questione della casa. Nel quadro di un generale smantellamento di tutte quelle conquiste strappate alla borghesia dalle lotte operaie e proletarie degli anni ‘70 (conquiste e non diritti concessi), da quelle sul terreno della casa, alla sanità, alla scuola, ecc. (che costituivano una sorta di salario indiretto), si inserisce anche la privatizzazione dei beni pubblici, compresi quelli immobiliari e dei servizi di utilità collettiva. L’obiettivo è quello di liberare enormi capitali da rilanciare nei processi di valorizzazione capitalistica.
La vendita di tutto il patrimonio immobiliare degli enti previdenziali pubblici, la cosiddetta “cartolarizzazione” (oltre 1.000.000 di alloggi, più un numero enorme di unità ad uso diverso) è stata affidata ad un gruppo finanziario guidato dalla Deutsche Bank ed è in corso la privatizzazione della gestione di 1.000.000 di alloggi pubblici (180.000 in Lombardia), con un corrispondente attacco al sistema dei canoni sociali.
Per quanto riguarda il mercato immobiliare privato, siamo ormai di fronte a una situazione drammatica: i canoni d’affitto sono totalmente inaccessibili (i proprietari di case possono speculare senza limiti sulle loro proprietà), 60.000 contratti d’affitto in scadenza imporranno alle famiglie aumenti del 300% e 13.000 sfratti sono in esecuzione in Milano (di questi l’80% sono per morosità) e nei comuni dell’hinterland.
E’ interessante vedere qual è il ruolo del sindacato all’interno di questi processi. Sul fronte lavorativo, assistiamo alla completa privatizzazione del collocamento pubblico che potrà fare anche intermediazione di manodopera in via permanente e che vedrà la partecipazione degli “enti bilaterali”, organismi cioè, costituiti da imprese e sindacati confederali; questi ultimi, anziché salvaguardare i lavoratori rispetto al business di “manodopera”, diverranno gestori dei servizi del mercato del lavoro e “commercianti di lavoro altrui”. Ruolo analogo il sindacato lo assume in tutto il processo di privatizzazione della gestione di alloggi pubblici. A fronte di una situazione di emergenza abitativa, che solo a Milano vede 22.000 famiglie in lista d’attesa da anni per una casa popolare, il Comune avvalendosi della partecipazione di enti locali, organizzazione sindacali degli inquilini (sunia, sicet) ecc., costituisce un’agenzia che reperirà alloggi privati e pubblici (sottraendoli al nostro patrimonio) da destinare a locazioni temporanee. Inoltre, una cooperativa (sostenuta da nomi illustri dello spettacolo, del sindacato confederale e della sinistra istituzionale) realizzerà “un progetto di risanamento” di un intero stabile del quartiere Stadera (case Aler cedute alla cooperativa per 25 anni), grazie al quale, saranno disponibili 48 appartamenti per i soci della cooperativa.
Progetti come questi, divenuti ormai un elemento significativo delle politiche sull’edilizia pubblica, richiederebbero una particolare riflessione. Oggi, la condizione nei quartieri di edilizia popolare accomuna buona parte degli inquilini che vi abita, sia da un punto di vista delle problematiche vissute, sia rispetto alle controparti istituzionali. Ciò ha consentito una maggiore identificazione comune e una capacità di relazionarsi in termini di lotta e di resistenza; elementi questi, difficili da realizzare nell’edilizia privata. Con strumenti di questo tipo, ritagliati sul modello di frammentazione del mercato del lavoro, si precarizza la condizione abitativa ( introduzione di contratti a termine), si lavora alla frammentazione di un tessuto sociale che si vorrebbe diviso e disperso in una giungla normativa in cui paiono diverse le condizioni, le controparti e dunque le soluzioni. Queste trasformazioni vanno comprese e assunte nella lotta per ritrovare un’identità comune, di classe, che faccia saltare vecchi e nuovi elementi di divisione.
Intanto le occupazioni non si fermano (a Milano sono circa 3800 gli alloggi occupati), ma sono individuali, slegate e “invisibili”, costrette, anche laddove trovano un aiuto, su un terreno difensivo. Inoltre, le famiglie, gli occupanti quando attuano forme di resistenza, si trovano di fronte un apparato repressivo e aggressivo soverchiante, sostenuto da una campagna di falsificazione e diffamazione dei media, che ha il compito di preparare il terreno a soluzioni più dure, come abbiamo visto negli ultimi sfratti (via G.da Cermenate, via Palmieri, i rom di via Adda ecc).
Quando queste contraddizioni iniziano ad avere un carattere meno individuale, rischiando di assumere un carattere politico in cui altri possono riconoscersi, allo strumento repressivo, si affianca anche quello della mediazione e della cooptazione con lo scopo di depotenziare la lotta, di annacquarla, facendola smarrire nel percorso snervante delle finte trattative, con promesse, mai mantenute, che dividono, chi ha “diritto” da chi non ne ha.
Come non chiediamo il diritto ad essere sfruttati nel lavoro salariato, così non chiediamo il diritto per gli immigrati a integrarsi nella società dello sfruttamento; ai lavoratori immigrati, chiediamo di lottare insieme per costruire nostre rivendicazioni e trovare risposte concrete ai bisogni di tutti. Oggi abbiamo diritto a una casa se versiamo due terzi del nostro salario al padrone di casa, abbiamo diritto al lavoro quando accettiamo le pessime condizioni che ci vengono imposte… anche l’immigrato “clandestino” ha diritto a un tetto se paga 165 euro a posto letto in una camera da condividere con altri 14 nella sua stessa condizione (un mq a testa) e ha diritto ad un lavoro che poi non gli verrà pagato perché, quale “clandestino”, non esiste e non può reclamare alcun diritto.
Ci rendiamo conto quindi che, di fronte a questa situazione, mancano i presupposti per appellarci alla rivendicazione dei diritti e che il nuovo modello sociale, ordinato secondo i principi della precarietà, della competizione, della flessibilità, non può concedere neanche la minima parvenza di sicurezza sociale.
Ci si pone, piuttosto, il problema di costruire un terreno di organizzazione, una rete di solidarietà che, da subito, riesca ad unificare quei soggetti che vivono il problema della casa, concependo il movimento per la casa in stretto rapporto alle lotte dei lavoratori; la necessità di riconquistarci una consapevolezza, come classe, dei nostri interessi, un protagonismo, dal basso, che annulli le deleghe, che proponga un orizzonte di eguaglianza e di solidarietà di classe.
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