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noprofit e cooperazione sociale
by uomonero Thursday, May. 06, 2004 at 12:31 PM mail:

cerco e posto materiale anche nn proprio "fresco" ma spero interessante per la discussione sulla cooperazione

No profit e cooperazione sociale
forme mascherate di toyotismo nostrano




Nell'odierna esaltazione della "imprenditoria volontaria e cooperativa" viene chiesta al "no profit" una collaborazione diretta nella "riforma dello stato sociale". Tale riforma implica, come anche Gianni Agnelli ha fatto notare in una recente intervista apparsa nel suo giornale "La Stampa", l'affidamento dei servizi al Welfare mix: il mercato "entro cui operano, integrati e in competizione, imprese profit, imprese pubbliche e imprese solidali". Questa prospettiva si inserisce a pieni voti nella tendenza a privatizzare i servizi socio-sanitari-educativi ed è definita, da dirigenti del movimento cooperativo, come la fase del passaggio dalla mutualità alla solidarietà.


E' in questo contesto che si sviluppa e allarga la cultura dell'impresa sociale, atta ad affermare, insieme alla scelta di stare dentro il mercato, una particolare forma di consenso e integrazione fortemente ideologizzata, capace di garatire dedizione lavorativa in situazioni particolarmente disagiate (per il tipo di utenza e per i trattamenti "contrattuali").


Le trasformazioni del comparto, oltre che dovute ai mutamenti in corso nell'ambito della produzione e della riproduzione della vita, sono state favorite anche dal forte battage teso a promuovere una "mentalità competitiva" che si sviluppa attorno ai criteri di "responsabilità sociale" e di "imprenditorialità diffusa". Il prof. Zamagni, economista estensore di una proposta di legge sulle "organizzazioni non lucrative di utilità sociale", indica nella "economia sociale di mercato" l'elemento atto ad "aggiustare i danni prodotti dal mercato" e a "garantire ritmi, sentieri di sviluppo crescente anche per l'intera economia", affermando, in aggiunta, che "la cooperazione sociale diventa l'elemento trainante, il motore per la realizzazione di un modello nuovo di economia"; sempre Zamagni, nello stesso intervento per un convegno torinese sulla cooperazione sociale, afferma che scopo precipuo della cooperazione è quello di "civilizzare la competizione" ponendo le proprie attenzioni non tanto verso l'interno della propria impresa - la mutualità -, quanto verso lo sviluppo "di un mercato solidale, che non crei più esclusione ma sia strumento di solidarietà e di civiltà" - la solidarietà.

Le cooperative sociali nascono nel corso degli anni 70 e si diffondono rapidamente nel corso degli 80. Sorgono come aggregazioni spontanee di soggetti che avvertono la necessità di superare la limitatezza dell'associazionismo, in gran parte disorganizzato, per divenire strumento organizzato al fine di apprestare soddisfazione alle esigenze di solidarietà sociale. La riuscita di questo modello è in relazione alla crescita dell'area dei bisogni non soddisfatti dall'intervento pubblico (a fronte "di un parziale e male organizzato sistema di welfare"), così come al venir meno di forme aggregative radicali che caratterizzavano ancora il finire dei 70 (circoli, collettivi, ecc.). Operando direttamente sul territorio e a stretto contatto con le esigenze, le cooperative sociali sono state in grado, per le caratteristiche degli strumenti e delle risorse umane a disposizione (molto motivate e flessibili), di poter assolvere alla funzione di "lettura" dello stato dei bisogni (numero dei soggetti bisognosi, tipologie dei bisogni, mutamenti in corso, dislocazione sociale dei soggetti, ecc.), determinando quali nuovi servizi attivare e in quale misura continuare a far funzionare quelli esistenti. Tale fase di crescita progressiva dell'impegno della cooperazione sociale, ha trovato applicazione nel nostro ordinamento giuridico relativamente alla stesura della legge 381 del 1991, indove il legislatore le ha considerate come le strutture più idonee a dare corpo a quel trasferimento di incombenze prima spettanti allo stato. Con la legge 381/91, infatti, e precisamente con l'Art. 5 della stessa, è introdotto un meccanismo di trasferimento "dal pubblico al privato", là dove si stabilisce che le cooperative sociali sono preferite, al di fuori di ogni sistema di scelta di contraente tipico della contrattualistica pubblica, per l'attribuzione di convenzioni relative alla fornitura di beni e servizi. Le cooperative sono strutture imprenditoriali pure, sottoposte alle leggi del mercato, operano nell'ambito del diritto privato ed hanno, in più, la duttilità propria delle strutture societarie di tipo cooperativistico e fanno riferimento ad un contratto considerato, persino dai sindacalisti confederali che hanno contribuito a redigerlo, come "uno dei meno costosi". Non solo, ma le stesse cooperative sociali, per la presenza dell'elemento ideologico della "solidarietà con gli ultimi", dànno le garanzie di un intervento nel settore non soltanto per fini di lucro - che anzi statutariamente dovrebbero essere assenti, per quanto, in realtà, i vincoli non sono adeguatamente regolamentati né sono sufficienti i controlli -, ma anche e soprattutto per il raggiungimento di finalità legate "a perseguire l'interesse generale della comunità" (Art. 1 legge 381/91). La presenza di tutti questi elementi ha reso possibile - e sempre di più in futuro - il passaggio "dal pubblico al privato sociale" di ampi settori dei servizi socio-assistenziali-educativi.

La formula oggi tanto alla moda di impresa sociale tende in realtà a costruire un humus culturale che leggittima il passaggio dallo "stato sociale" al Welfare market, cioè, pragmaticamente, tende ad agevolare la trasformazione delle garanzie o diritti dovuti in sicurezze da acquistare. Ciò necessita dell'affermazione preventiva di una "cultura d'impresa" capace di permettere la trasformazione in senso competitivo della fornitura di servizi - dall'assistenza al mercato è la formula che accompagna ogni intervento sull'impresa sociale. L'aumento e la diversificazione dei bisogni e, in relazione, della domanda di servizi, non corrisponde all'offerta delle amministrazioni pubbliche e dello stato - e il necessario adeguamento contrasta con i limiti imposti alla crescita della spesa pubblica; inoltre, storicamente, vista la propria sistemazione capillare sul territorio, cooperazione e no profit sono sempre stati capaci di leggere i mutamenti e formulare risposte adeguate. Questo intreccio di elementi ha permesso e permette di far esaudire le domande eccedenti al "privato sociale" - emblematico il caso delle cooperative sociali di inserimento lavorativo che, a fronte sempre dell'Art. 5 della legge 381/91, si vedono interlocutori privilegiati delle principali Città italiane in merito a pulizia nelle scuole (sostituzione dei bidelli), mantenimento delle aree verdi (riduzione o non ampliamento degli operai comunali e dei giardinieri), ecc..


Si delinea dunque un panorama di Welfare mix, inteso come:
* le politiche d'intervento sociale, sanitario, educativo rimangono allo stato;
* la gestione concreta dei servizi è affidata ai privati, profit e no.
Per giungere a definire tale situazione due sono le strategie che si stanno perseguendo: a) limitare la gratuità delle prestazioni alle fasce più emarginate e chiedere agli altri il pagamento dell'intero costo del servizio o di una parte dello stesso; b) ridurre la tipologia di bisogni della cui soddisfazione si fa carico la pubblica amministrazione.


L'obiettivo è quello di aumentare, attraverso la creazione di forme di concorrenza (ampliamento del meccanismo delle gare di appalto a tutti i servizi e sviluppo delle politiche di "contracting-out"), l'efficienza delle unità di offerta, riducendo i costi a carico del bilancio pubblico. Ciò porta, classicamente, ad un frastagliato processo di concentrazione: nell'acuirsi della concorrenza tra elementi del "privato sociale", ed in particolare nel comparto della cooperazione, sua parte più immediatamente economica, passando dal superamento delle precedenti forme aggregative di tipo "familiare" e giungendo alla fase attuale di alleanza strategica nella forma del "consorzio di cooperative", si è affermata come vincente la struttura dell'impresa sociale, in grado, previo annichilimento di tutti gli elementi sostanzialmente democratici (assemblea, commissioni interne, passaggio informazioni "trasversali" e conoscenze per tutti i soci), di competere sul mercato, la qual competizione non può che passare anche dalla sottrazione di risorse all'interno della propria organizzazione per metterle a disposizione dell'azione verso l'esterno: partecipare ad una gara d'appalto ribassando i prezzi dell'offerta per avere maggiori possibilità di aggiudicarsi il servizio significa alta intensità nello sfruttamento dei lavoratori (che si esplica in forme di vero e proprio ricatto, costringendo i lavoratori a ore di lavoro "volontario", dunque non retribuito, alla rinuncia di alcuni elementi contrattuali tipo maggiorazione notturna o inquadramento a livello confacente le mansioni svolte, alla sottoscrizione indotta di "contratti interni" capestro, al tentativo di rendere norma l'applicazione del "salario medio convenzionale"), flessibilità e precarietà, bassi salari: il tutto, ovviamente, infarcito della solita ideologia spicciola che recita del "rischio imprenditoriale" di cui ogni socio lavoratore deve farsi carico.

I fattori che connotano l'impresa sociale sono:
a) una forte identità, tesa ad affermare la propria diversità e ad evidenziare un sistema di valori attorno a cui far svolgere l'operato quotidiano e attorno a cui compattare i comportamenti dei singoli;
b) la condivisione del rischio imprenditoriale e la partecipazione di ogni socio lavoratore, tramite politiche di "cogestione", al "bene" dell'impresa - e dunque il senso di responsabilità di ogni socio nei confronti dell'impresa stessa e della dirigenza;
c) l'essere un organismo a natura economica, quindi portato a gestire la propria esistenza secondo critieri di efficacia e di efficienza nonché di attenzione alla "qualità" - meglio se "totale" - e al vincolo, nel caso delle cooperative formale ma nel complesso sostanziale, del "reinvestire gli utili";
d) l'esigenza di rispettare le leggi economiche e di affrontare "razionalmente" i problemi di limitatezza delle risorse, insieme all'obiettivo di creare un aumento del valore economico e la remunerazione (diretta o indiretta, nella forma di premio o di aumento di stipendio o di rimborso spese) del rischio imprenditoriale, in particolare dei dirigenti;
e) l'attenzione prioritaria, al di là delle dichiarazioni di principio, ai "valori economici", per cui si modificano assetti organizzativi o si propongono beni e servizi solo se non portano a delle "perdite di valore";
f) l'obiettivo di massimizzare il soddisfacimento dei molteplici interessi convergenti nell'impresa;
g) la necessità di un coinvolgimento totale della persona, anche oltre la formalità del tempo-lavoro, per "qualcosa" - solitamente connotato con "l'azione in favore degli ultimi, dei poveri, degli emarginati" - che assume la connotazione di un valore-guida astratto e generale che non deve essere messo in discussione e che non consente titubanze;
h) un'attenzione particolare alle recenti teorie manageriali che prescrivono "un forte orientamento al servizio" e "l'equilibrato contributo" del lavoro ai processi d'impresa;
i) l'accettazione della logica della "individualizzazione" degli interventi socio-assistenziali, contribuendo alla censura delle cause sociali dei fenomeni di emarginazione e degrado;
l) la specializzazione dei compiti e la standardizzazione delle metodologie di gestione di servizi;
m) un forte impegno nel campo dell'innovazione delle proprie offerte.

I fattori connotativi appena delineati ci consentono di avvicinare l'impegno entro l'impresa sociale, in particolare quello del lavoro, alle forme "giapponesi" di estorsione del consenso, dove "dovere e lealtà nei confronti dell'autorità" costituiscono la specificità del "capitalismo confuciano" laggiù in vigore: "Il confucianesimo ... si basa, infatti, su una morale già insita nella 'natura' che emerge evolvendosi all'interno dello stesso sistema sociale, di cui indica e salvaguarda i criteri di uguaglianza, giustizia, solidarietà, occupandosi prevalentemente di problemi concreti" (C. Filosa - Gf. Pala "Il terzo impero del sole" Ed. Synergon).


E' dunque possibile individuare indirizzi teorici e politiche economiche e sociali del tutto simili tra imprese dette "for profit" e quelle "no profit". Ed in effetti, muovendosi entrambi i comparti, sulla linea della realizzazione, alla fine dell'esercizio, di un "sovrappiù di capitale da destinare all'investimento", dell'aumento del tempo di lavoro sociale non pagato (riduzione salario sociale), della partecipazione ("civile") alla bagarre della competizione, dei mercati s-regolati (e saturi), di fatto vengono ridotte le distanze tra il modello dell'impresa sociale e quella più smaccatamente capitalistica - ovviamente sono le prime, quelle sociali, che si avvicinano alle seconde, assorbendone i requisiti qualitativi.


Tale omologia è ravvisabile anche nel processo di consolidamento delle situazioni di autoreferenzialità del potere decisionale, che consente di sfuggire "alla piena comprensione dei dati di realtà" da parte di tutti i soci (si creano veri e propri meccanismi di accentramento dei saperi) e che blocca la verifica del rapporto tra finalità "da statuto" (scopi sociali che sottostanno all'aggregazione dei singoli, funzionamento democratico dell'insieme e partecipazione paritaria di ogni associato) e le risorse messe in gioco e gli obiettivi raggiunti. Insomma, è resa impossibile la verifica delle differenze reali tra impresa sociale e quella capitalistica.


Storicamente tale processo di omologazione ha attraversato le seguenti fasi:
* standardizzazione e gerarchizzazione dei processi tecnico-operativi, dei processi organizzativi e di quelli decisionali - per aumentare l'efficienza interna;
* ampliamento ed estensione del confronto competitivo (apertura del meccanismo delle gare d'appalto, integrazione al mercato) che ha spinto ad articolare le condizioni di scambio (prezzi per unità di servizi, costo del lavoro, garanzie di qualità) per meglio adattarle alle esigenze della domanda e dell'offerta - aumento dell'efficienza esterna;
* rafforzamento della capacità di ridefinire tutti gli elementi dell'impresa (servizi gestiti, organizzazione generale e quella delle singole équipe, condizioni contrattuali, in particolare la normazione delle differenze tra "socio lavoratore" e semplice "dipendente") per consentire un adattamento rapido e tempestivo alle condizioni dell'ambiente esterno - flessibilità aziendale.


La presenza di energie generate da forti motivazioni ideologiche (che si trasformano in lavoro volontario e autosfruttamento), insieme alle particolari condizioni "di favore" riconosciute dal sistema politico-giuridico (trattamento fiscale privilegiato, canali d'accesso agevolati verso commesse, prestiti a minor tasso d'interesse con lo sviluppo di banche "etiche" e di particolari "compagnie" di investimento) e insieme all'assenza pressoché totale di competizione, ha permesso alle cooperative sociali di rispettare il vincolo dell'equilibrio economico senza applicare al massimo grado gli strumenti "distorti" - che sono in realtà la norma - della "razionalità economica" applicata nelle imprese "for profit", e che vanno dalle "tangenti" al ricorso ai licenziamenti alla repressione delle istanze critiche.


Di fronte alla necessità di ridefinire, limitandola fortemente, le parti di spesa da devolvere ai servizi socio-assistenziali-educativi e di fronte all'ampliarsi del numero delle persone senza occupazione e al ridefinirsi di particolari e nuove "domande sociali", è sorta "spontaneamente" la necessità di creare condizioni favorevoli allo sviluppo del mercato della solidarietà, in cui quelli che fino ai ieri erano diritti esigibili si trasformano in domande esaudibili con il meccanismo della compra-vendita. In questo contesto non può che vacillare uno degli elementi che davano stabilità al comparto, e cioè l'assenza della competizione: nello sviluppo in senso mercantile del comparto socio-assistenziale-educativo aumenta la concorrenza tra enti capaci di gestire od offrire unità di servizi. Di riflesso, visto che l'aumento della conflittualità tra imprese sociali porta ad una revisione dei costi, in particolare di quello del lavoro, e spingerà sempre di più alla divaricazione tra fini statutari delle cooperative e valori economici, è presumibile che in tempi medio-brevi si arriverà alla messa in crisi dell'adesione "fideistica" dei lavoratori all'impresa e si svilupperanno tendenze alla "sindacalizzazione" - insieme all'abbassamento qualitativo delle prestazioni offerte, vistoché i bassi salari e le poco edificanti condizioni di lavoro creano, insieme al distacco, la stanchezza, e a perderci saranno, oltre ai lavoratori, anche gli utenti. E' invece prevedibile che i privilegi fiscali verranno mantenuti, o limitati solo in piccola parte, e proprio per favorire l'utilizzo del "no profit" come sostituto di qualcosa che dovrebbe spettare allo stato.

La cooperazione, insieme a tutto il comparto "no profit", si sta trasformando in terreno su cui sperimentare innovative politiche di aggregazione attorno all'amministrazione degli equilibri di potere esistenti. Non solo, dunque, un ruolo semplicemente sostitutivo, di supplenza, ma ruolo complementare e integrativo. Complementare e integrativo non sul piano dello svolgimento delle attività, nel quale anzi, come già evidenziato, si attiveranno relazioni di competizione crescente, ma sul piano delle risposte ai bisogni di identificazione e di appartenenza. In sintesi, le modalità operative, organizzative e decisionali dei vari attori operanti nel settore dei servizi (amministrazioni + soggetti no profit + soggetti profit) tenderanno ad uniformarsi, ma le imprese no profit avranno garantito, nella competizione totale che si prospetta, un maggiore raggio d'azione - e proprio grazie al differente grado di identificazione delle persone con i fini e con i meccanismi di esercizio del potere.


Inoltre, le condizioni di rischio di crisi critica delle persone impiegate nel no profit - la cui professionalità resta valida ma che non condividono più la logica, le politiche, il clima organizzativo delle imprese sociali - possono tradursi in sindromi da burn out - persone che ostacolano o non assumono più quegli atteggiamenti collaborativi che oggi sono considerati fattore determinante del successo in campo economico. Nella repressione di tali atteggiamenti "negativi", il comparto della cooperazione sociale offre maggiori garanzie di riuscita, venendo di fatto meno tutta una serie di garanzie formali di tutela dei lavoratori. Un socio lavoratore di cooperativa, qualora si ponga criticamente nei confronti della dirigenza e delle decisioni da essa prese, subisce tutta una serie di "manovre ricattatorie" o di "linciaggi terroristici" proprio sulle motivazioni e, al limite, quando la sua è ritenuta presenza sgradita, può essere allontanato - insindacalmente - dal Consiglio di Amministrazione perché il suo operato "è in contrasto con gli scopi sociali" dell'impresa - la storia odierna narra di spostamenti di operatori in comunità particolarmente difficili, di multe, di esclusione fino a costringere all'autolicenziamento e di licenziamenti veri e propri mascherati dal venir meno dei presupposti associativi. Esattamente la stessa cosa - e forse peggio - che nelle imprese "for profit".


Nelle cooperative sociali tutto questo insieme di fattori hanno determinato l'acuirsi della distanza tra le condizioni "di proprietà" e i soci, permettendo alle strutture dirigenziali una gestione privatistica di beni e patrimoni che, almeno sulla carta, appartengono a tutta la base sociale. Il bene comune, cioè la cooperativa intesa come proprietà di una comunità di associati, è gestito e utilizzato sotto ferreo controllo dei Consigli di Amministrazione, e ogni investimento, come ogni nuova acquisizione o passo di politica sociale, riguardano esclusivamente i membri di quello, senza che nessuna possibilità concreta venga data ai soci di attivare verifiche o controproposte - le parole dette in convegni o documenti contano poco di fronte ai fatti che le smentiscono. Anche questo è fenomeno omologo a quanto accade nelle imprese specificatamente capitalistiche, ma assume, entro il contesto formale delle cooperative sociali, una valenza di "contraddizione da far esplodere" nel tentativo di aprire spazi di crisi critica.


(Da queste considerazioni ne scaturisce un interessante tema di ricerca: il plusvalore cooperativo. A ben analizzare il comparto non è difficile coglierne le peculiarità come le omologie nell'utilizzo, da parte delle dirigenze o di tutta quanta la società, di tempo di lavoro non pagato. Il riportare l'accento sulle tecniche di gestione e organizzazione dei processi lavorativi comprendenti la presenza di lavoro non retribuito - volontariato coatto -, sia tramite richieste ai lavoratori di espletare ore di lavoro "per il bene della cooperativa" sia nell'utilizzo dispiegato di volontari e obiettori di coscienza sia nell'accantonare figure contrattuali quali permessi retribuiti o parte delle ferie, permette, internamente all'impresa sociale, l'acquisizione di nuove commesse e l'aumento del valore economico, esternamente l'aumento del capitale da riversare in nuova accumulazione. Altro elemento di "risparmio" è la "subordinazione di una quota del salario al principio della partecipazione": i premi, le maggiorazioni notturne o le indennità di turno, la tredicesima mensilità, l'adeguamento del salario a quanto previsto dal Contratto Nazionale, ecc., sono "congelati" e ripartiti solamente nel caso di bilanci positivi. Inoltre, la precarietà determinata dall'assunzione "a tempo determinato" per far fronte alla necessità di particolari progetti stagionali, contribuisce ad aumentare socialmente la fascia di lavoratori ricattabili, non garantiti, cui ricorrere a seconda delle fasi economiche (C. Filosa - Gf.Pala, op. cit.). Insomma, difficilmente è riscontrabile una natura non capitalistica nelle cooperative sociali e, di nuovo per estensione, nelle imprese sociali di terzo settore).


(Altro tema di ricerca interessante, legato all'enfasi "liberante" che in molti ripongono nel no profit, è quello della dipendenza dell'impresa sociale dalla organizzazione del lavoro internazionalmente stabilita dai centri di potere economico-finanziario. Lo smantellamento del Welfare è determinato dalla riorganizzazione degli assetti di potere inperialistici, i quali determinano anche gli spazi di azione di ogni singola impresa, profit e no, grandi e piccole. Una analisi seria, condotta ovviamente da un punto di vista di parte, basterebbe a demistificare le potenzialità alternative o di liberazione dalla forma-merce o di fuori-uscita dal capitalismo riposte nell'impresa sociale).

NEVIO

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SI!
by de-koop Thursday, May. 06, 2004 at 12:57 PM mail:

anche questo tipo di articoli si sposa con il ftr DE-COOPERAZIONE.
Peraltro Zamagni è stato uno dei teorici più affermati dell'imprenditoria sociale spinta di derivazione prodiana (v.univ. di bologna e forlì)

merci bien

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