RAMALLAH (Cisgiordania) - Che il blocco è davvero serio lo si nota subito appena fuori Gerusalemme, sulla strada che dopo l'incrocio per il Mar Morto conduce verso le zone palestinesi. Il traffico termina già verso l'aeroporto di Kalandia, ancora all'interno dei confini della municipalità israeliana. I check point militari fermano tutti, incluse le auto con la targa diplomatica dei consolati stranieri. I soldati sono in assetto di guerra, con il dito pronto sul grilletto, nessuno può avvicinarsi alle vetture ferme in coda senza portare il giubbotto anti-proiettili. La paura dei kamikaze palestinesi regna sovrana. «Ci saranno sorprese nelle nostre strategie di lotta al terrorismo», aveva dichiarato l'altra sera il ministro della Difesa israeliano, Benjamin Ben Eliezer. Ma, a giudicare ieri dal viaggio verso Ramallah, per ora si tratta dell'intensificazione draconiana di misure già ben note. La più evidente: chiusura totale dei territori occupati, nessuna possibilità di movimento per i circa 3 milioni di abitanti palestinesi. Insomma battaglia serrata per cercare di fermare gli attentati, i kamikaze, il terrorismo, gli estremisti, i massacri di civili israeliani. La chiusura vale in particolare per il nord della Cisgiordania, specie le città di Jenin, Nablus, Tulkarem, Qualqilia e sino a Ramallah. Ma in verità il traffico è nullo dovunque. Il paradosso per noi giornalisti è che per una volta le nostre auto si possono muovere con velocità. Non ci sono taxi palestinesi. Anche le ambulanze della Mezza Luna Rossa sono fermate, talvolta per ore. Il posto di blocco di El-Ram, il maggiore che separa Gerusalemme da Ramallah, negli ultimi mesi poteva essere passato solo facendo code che potevano superare le due ore (c'è chi vi è rimasto fermo sino a 5 o 6). Ieri abbiamo impiegato cinque minuti per entrare e meno di mezz'ora per uscire. Risultato: chi tra i palestinesi vive fuori dalle zone sotto coprifuoco si muove a piedi, cammina su vecchi tratturi tra i campi, usa carretti trainati dai muli, trasporta sulle spalle sacchi e valigie. Un'intera società sta precipitando con velocità impressionante allo stadio di un'esistenza primitiva. Ramallah è spettrale, silenziosa, vuota. Per la strada solo gruppi di ragazzini sfidano le regole assillanti del coprifuoco. L'asfalto è coperto di immondizie, i resti di qualche copertone bruciato, barricate improvvisate con rottami e sassi. Ogni tanto un cingolato israeliano passa sferragliando ad alta velocità. Molti tra i leader palestinesi più in vista, compresi scrittori e attivisti principali, sono all'estero, al più vicino in Giordania. «Vanno via perché qui non si può fare nulla. Ormai è dalla fine di marzo che la nostra libertà è condizionata dal coprifuoco. Per organizzarci e parlare tra noi siamo costretti ad andare ad Amman», dice Abduljawad Saleh, un anziano membro del parlamento del regime dell'Autonomia, che approfitta del coprifuoco per scrivere un libro di memorie. «Sharon pensa che così facendo può battere Hamas e gli estremisti. In verità non fa che rafforzarli. La gente non ne può più. Manca cibo, mancano medicine, soprattutto questa inattività forzata indebolisce la voglia di vivere, fa diventare tutti pigri, indolenti, corrotti. E vince chi predica la "guerra santa" in nome di Allah». Conferma tangibile delle sue parole arriva tra le macerie annerite del «Mukata», il quartier generale di Arafat. «Il raís dorme. Provate magari questa sera», dice una sentinella svogliata. I tank israeliani sono appostati a un centinaio di metri, i loro cecchini controllano dai tetti di alcuni palazzi più alti. Un gruppo di soldati palestinesi bivacca in capannoni di fortuna tra sacchetti di plastica e lattine vuote. Da oltre quattro mesi qui è come se tutto fosse congelato, paralizzato. Più attività si nota invece all'ospedale. «Siamo costretti a far fronte a una vera epidemia di casi di anemia e malnutrizione, specie tra i bambini. E' ovvio che il coprifuoco sta affamando la Cisgiordania», dice il pediatra, Mohammad Malek. Una verifica diretta delle dichiarazioni rilasciate pochi giorni fa persino dall'ambasciatore americano in Israele, Dan Kurzer: «Nei territori occupati siamo sull'orlo di una catastrofe umanitaria».
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