Memoria
LA RESISTENZA NOTTURNA
Testimonianza su Emilio Vita Finzi
di Guido Weiller
http://www.hakeillah.com/5_04_16.htm
Il "campo di Trevano", a pochi minuti di cammino da Lugano, era costituito da un edificio abbastanza strano, realizzato nel periodo post-napoleonico. Attorno ad una struttura centrale erano disposte una dozzina di sale e salette ognuna delle quali, in origine, era decorata e ammobiliata secondo uno stile architettonico del passato. Al piano terra si tenevano le lezioni. Al piano di sopra, nelle tre maggiori sale, erano sistemati i dormitori, con letti a castello a due piani. In un’ala ad un solo piano erano sistemate una cucina di tipo militare, un magazzino, una falegnameria. Si diceva che a far costruire un insieme di edifici così particolari fosse stato un certo Luigi Lombard, privo di eredi, che aveva quindi lasciato, per legge, la proprietà alle autorità cantonali del Canton Ticino. Queste, in tempi successivi, avevano usato la struttura per alloggiarvi militari. Della proprietà faceva parte un ampio parco abbandonato da decenni, costituito da un intrico di alberi, cespugli, arbusti ed erbacce.
Scoprimmo, qualche tempo dopo l’apertura del campo, che dalla cantina, nella quale erano collocate le caldaie per il riscaldamento, il deposito del carbone, delle patate (nostra base alimentare) e di vecchi mobili, si diramavano sotto il "parco" gallerie in ottime condizioni, naturalmente completamente buie, che si sviluppavano per centinaia di metri, arrivando anche oltre il parco in una struttura, pur essa abbandonata, un tempo adibita a scuderia. Saremmo stati noi "internati" a scoprire tutto questo: gli svizzeri che gestivano il campo non ne seppero mai nulla.
Il nostro ruolo era quello di "studenti-lavoratori": al mattino ci era affidato il compito di mettere a coltura l’ex-prato (pomodori, cipolle, fagioli, piselli, fagiolini…) e di diradare il bosco. Eravamo poi studenti fino alle cinque del pomeriggio, distribuiti nelle varie sale del pian terreno dove i professori, internati civili pure loro, tenevano le lezioni; poi, fino all’ora della cosiddetta cena ed eventualmente fino alle dieci di sera, potevamo studiare e fare i compiti. Domenica eravamo liberi (libera uscita dalle 12 alle 22) e due volte la settimana libera uscita dalle 18 alle 22.
Arrivai a Trevano quando c’era una ventina di persone, che sarebbero salite nel giro di pochi giorni a quasi duecento. Pochi giorni dopo di me arrivò Emilio Vita Finzi che proveniva da una sorta di "collegio di preti" ove era stato piazzato, data la sua giovane età, sedici anni non ancora compiuti.
Emilio era molto alto, un metro e ottanta, forse di più, e di struttura solida. Forse era, tra noi, il più alto. Per questo, con l’umorismo un po’ rudimentale dei sedicenni, qualcuno lo chiamò "Emilietto" ed Emilietto rimase per tutti.
L’Emilietto era molto tranquillo, seguiva bene le lezioni e lavorava l’orto con impegno. Io invece, che non avevo nessuna simpatia per l’orto e per il bosco, riuscii a collocarmi come "addetto alla manutenzione". Appena fu deciso di accendere l’impianto di riscaldamento, mi feci anche affidare la relativa conduzione, il che mi permise di prendere possesso del sotterraneo ampio e disordinatissimo ove potei sistemare una serie di nascondigli per la stampa clandestina e, quando erano in attesa di esser convogliate in Italia alla Resistenza, armi, munizioni, esplosivi (per lo più nelle notti di luna nuova, con una barca a remi fino alla costa italiana del lago).
A periodi mi facevo assegnare il compito di "guardia notturna" che mi impegnava dalle dieci di sera alle sette del mattino, con base nelle cucine (luci accese) ed una serie di ispezioni più o meno ogni ora a tutto il campo.
Nel corso di questa attività di guardiano notturno ebbi la conferma che l’Emilietto fosse impegnato in un’attività clandestina. Un paio di volte infatti rilevai che l’Emilietto sistemava la sera sul pagliericcio un "pupotto" di vestiti ben nascosto dalla coperta e si squagliava tornando poi molto tardi, verso le cinque del mattino. Era logico pensare ad un’attività decisamente clandestina; io stesso avevo più di una volta operato come "rematore" nel trasferire in Italia un carico per i partigiani ed ero rientrato alle cinque o alle sei del mattino. Ma chi aveva sentore che uno di noi internati svolgesse un’attività del genere stava ben zitto, non lo diceva a nessuno e non faceva domande. Sapevo quindi che l’Emilietto faceva "qualcosa", ma mi guardavo bene dal cercare di saperne di più.
La cosa venne fuori da sé una mattina, poco dopo le sei, quindi notevolmente tardi rispetto al normale rientro dopo una nottata di attività. Ero "di guardia" quella notte e me ne stavo seduto in cucina a leggermi l’ultimo numero di "Italia all’armi", uno dei periodici clandestini che circolavano tra i giovani che consideravamo "di fiducia". Facendo pochissimo rumore, comparve ad una finestra, dall’esterno, l’Emilietto. "C’è nessuno in giro?" mi chiese "posso entrare a parlarti?" ed io "Entra pure, ma parla sottovoce" ed alzai leggermente il volume della radio che mi faceva compagnia durante le ore notturne.
"Ho con me una partigiana ferita, mi disse, me l’hanno consegnata perché là (in Italia) si sarebbe trovata molto esposta" "Ha una ferita grave?" "No, tanto che me la sono portata oltre i Denti della Vecchia (la cresta di montagna, non troppo alta, che separa Lugano dalla zona orientale, italiana, sovrastante il lago) Ha perso sangue, non sta più in piedi, per l’ultimo tratto l’ho portata quasi di peso" "Va bene" non feci commenti "la portiamo in una delle gallerie dove gli svizzeri non la troveranno di sicuro. Però dobbiamo essere in tre. Vado a chiamare Giorgio".
In cinque minuti Giorgio aveva indossato una tuta ed un paio di scarpe da tennis. Calammo nella cantina-deposito e prelevammo da dietro una catasta di legna un pagliericcio, una sorta di cuscino in tela di sacco pieno di paglia e due coperte che, tempo prima, avevo "grattato". Prelevai anche un pacchetto di candele, anche queste "grattate". La partigiana ferita era debolissima; bevve mezzo litro di acqua e venne con noi.
Giorgio ed io la trasportammo praticamente di peso mentre l’Emilietto faceva strada, via cantina-deposito-ingresso alle gallerie nascoste da una pila di fascine, fino ad un vano, posto in una posizione che conoscevamo bene. Si eran fatte le sei e mezza, eravamo appena in tempo per tornare ai nostri posti, l’Emilietto e Giorgio sul loro pagliericcio, io in cucina.
"Senti, qui sei al sicuro. Devi sentirti male, non stai in piedi. Sdraiati, ti mettiamo una coperta. Tra due ore al massimo siamo qui con il dottore e vedremo meglio." La partigiana, della quale tra l’altro non ho mai saputo il nome, disse semplicemente "si", la sdraiammo sul pagliericcio lasciandole una candela accesa, fiammiferi e tre candele di scorta.
Più tardi, subito dopo l’appello e quindi verso le sette e mezza, l’Emilietto ed io chiamammo con una scusa il dottore che, in quanto rifugiato civile, non aveva l’autorizzazione degli svizzeri ad esercitare la propria professione, dicendogli: "Dottore, abbiamo bisogno di lei come medico. Salga a prendere la valigetta del pronto soccorso senza farsi notare da nessuno. L’aspettiamo tra cinque minuti fuori dall’uscita verso il parco. Si tratta di un’emergenza grave. Non una parola." Il dottor Soria impallidì e non fece commenti. Dopo cinque minuti venne all’appuntamento, nascondendo la valigetta sotto una vestaglia. "Molto bene, dottore, facciamo quattro passi poi andiamo." Ci portammo dietro al muro che recingeva il giardino del castello, dove tirai fuori una sciarpa: "Dottore, mi dispiace ma la devo bendare. È molto meglio che non sappia dove la portiamo."
Lo prendemmo a braccetto, gli facemmo fare diversi giri e piroette, poi infilammo uno degli ingressi laterali alle gallerie, nascosto da un gruppo di cespugli. Arrivammo in pochi minuti al luogo dove giaceva la ragazza: era tranquilla, semiassopita, la candela era ancora accesa. "Dottore, è una partigiana ferita, è arrivata qui stamattina." Soria fu perfettamente all’altezza della situazione: abbassò la spallina della veste della ragazza, pulì la ferita e la sondò. La partigiana diede un gemito e svenne. Soria la rianimò. "Adesso le faccio un’antitetanica, poi le do un sulfamidico. Ne dovrà prendere quattro al giorno. Datele da bere, molto. La ferita non è grave, ma la ragazza ha perso molto sangue."
Fasciò per bene la partigiana, l’adagiò sul pagliericcio, mi diede un tubetto di sulfamidici (gli antibiotici non esistevano ancora) e le misurò la temperatura. "Febbre non ne ha, ma è molto debole. Dovrei farla ricoverare in ospedale, ma vedo che avete preso un’altra strada. Nel tardo pomeriggio voglio visitarla ancora. Organizzatevi".
Riordinò la valigetta e si dispose ad essere nuovamente bendato. Nessuno, al campo, si era accorto di niente.
Alle sei e mezza, ripetizione della "scena" del mattino e altra visita. "Credevo peggio. È resistente. Io faccio il medico, voi fate l’assistenza. Un’altra coperta, questa è leggera. Ancora latte e domani un po’ di avena cotta."
Ci "organizzammo" sempre noi tre, ossia l’Emilietto, Giorgio ed io, per portarle altre candele, e via via un po’ di nutrimento e giornali da leggere.
La partigiana non si lamentò mai, non diede mai segno di insofferenza e, anche se viveva al buio con le luci delle candele, migliorava visibilmente.
Il dottor Soria diede via libera alla sua alimentazione e dopo pochi giorni ci disse che doveva cominciare a muoversi. Pescammo, attraverso le nostre amicizie luganesi, qualche capo di biancheria femminile, due camicette, una gonna e un maglione e cominciammo a portarla a spasso, un po’ l’uno e un po’ l’altro.
Nessuno notò niente: più della metà dei ragazzi di Trevano s’era "fatta la ragazza" o comunque andava sovente a spasso in compagnia. Nessuno notò mai la nuova venuta, alla quale facemmo fare anche un paio di visite alla città. L’esperienza ci insegnava che le autorità ci consideravano "ragazzini", per di più "rifugiati", soggetti al regolamento del campo, per cui nessuno era mai fermato per controllo.
La cosa finì rapidamente come era cominciata. Il dottore aveva dichiarata guarita la partigiana e lei stessa dichiarò di sentirsi bene.
Una mattina, alle cinque (ero ancora guardia-notturna) comparve l’Emilietto alla solita finestra. "Tutto bene" sussurrò "l’ho portata oltre i Denti della Vecchia e l’ho consegnata ad una pattuglia della sua formazione. Mi hanno detto che siamo stati furbi, ma anche bravi."
Non ne parlammo mai più.
Non posso sapere quante volte e con quali compiti l’Emilietto si recasse oltre i Denti della Vecchia. Sapevo che la sua attività continuava, ma non gli chiedevo niente. E lui non disse mai niente.
Qualche tempo dopo, non ricordo la data precisa ma penso si trattasse di uno dei primi mesi del 1945 (tanto per cambiare era il mio mese di guardiano-notturno) una mattina alle sei passate l’Emilietto si affacciò alla solita finestra. Era sudato, aveva la faccia sofferente. "Mi sono fatto male ad un ginocchio" mi disse "bisogna trovare una spiegazione per gli svizzeri" Andai a svegliare Giorgio, il Coenino e l’Arnaldo. Giorgio era un maestro nel metter su sceneggiate e superò se stesso. Conducemmo l’Emilietto ai piedi della scala dell’atrio, facendo una gran cagnara. Io schiodai una delle assi che coprivano uno dei gradini, gridando: "Ecco qui, ha preso dentro nel coprigradino con i chiodi di uno scarpone e ha fatto un volo". Sette o otto di noi presero a commentare ad alta voce le responsabilità degli svizzeri nel fornirci solamente scarponi chiodati e zoccoli di legno ferrati, adatti alla montagna ma non certo a vivere in un edificio normale.
Arrivò il dottor Soria e decretò che l’Emilietto fosse ricoverato in infermeria, nella saletta riservata agli eventuali affetti da malattie infettive, dove non c’era nessuno.
Subito dopo il caffè (la sceneggiata era stata recitata alle sette e mezza) il dottore mi chiamò. "Ho visitato l’Emilietto. È una bella botta, e dovrà stare in branda almeno dieci giorni, ma non venitemi a dire che si è conciato così per esser caduto a metà scala. Io sono con voi, ma non ho scritto "giocondo" in fronte."
In serata andai a trovare l’Emilietto e gli chiesi se avesse qualcosa da dirmi, naturalmente se riteneva opportuno farlo. "Stavo rientrando, ero ancora in territorio italiano, sotto i Denti della Vecchia, e ho incocciato una pattuglia di due tedeschi con due cani. Erano abbastanza lontani, ma mi hanno visto e intimato "Wehr da" e "Haende hoh" (chi va là – mani in alto). Io sono scappato e loro mi hanno lanciato dietro i cani. I cani mi stavano raggiungendo. Ho preso la pistola e, voltandomi un po’, ho sparato tre colpi. Ho centrato uno dei cani. L’altro si è accucciato e si è messo a guaire. I due soldati hanno incominciato a sparare. Sono riuscito ad arrivare alla rete, in una zona decisamente scomoda, mi sono arrampicato e buttato giù dall’altra parte, in territorio svizzero. Non sono riuscito a tenermi dritto e ho fatto un rotolone. Ad un certo punto ho battuto il ginocchio, ho sentito una fitta tremenda e sono svenuto. Sono rinvenuto e mi sono accorto che avevo un ginocchio massacrato. La strada fino a Trevano è stata molto dolorosa. Adesso si vedrà"
Non feci commenti. "Soria adesso farà quello che deve fare. Tu stai tranquillo. Ma non sapevo che avessi una pistola. Quella non deve saltar fuori, se no gli svizzeri si scatenano" "Prendila tu e nascondila. Prendi anche la borsa che avevo con me. Le ho nascoste nel cassonetto delle cartacce prima di rientrare. Poi prendi le chiavi del mio armadietto, aprilo. Dentro agli zoccoli ci sono due caricatori. Nascondi tutto, poi ne parliamo"
Trovai la pistola, la sacca (dentro la quale non guardai in base alla regola della clandestinità) e nascosi tutto accuratamente dentro un vano della cantina, dietro una pila di fascine.
Qualche settimana dopo l’Emilietto, con il ginocchio ancora fasciato e gonfio, uscì dall’infermeria e riprese la sua attività normale di "studente internato nel campo scuola del Castello di Trevano".
Una mattina mi prese in disparte e mi chiese sottovoce : "la mia pistola? la borsa? i caricatori?" "Sono nascosti. Dimmi se e quando ti servono, te li ridò." "Questa sera, quando c’è la gran confusione, prima dell’orario mensa."
E così feci; gli consegnai tutto nascondendolo con una tuta da lavoro. Il giorno dopo mi restituì la tuta, dicendomi "Bene". E non ne parlammo più.
Pochi giorni prima della Liberazione, forse ai primi di aprile, parlando con uno dei "clandestini" con cui ero in contatto, venni a sapere che a Lugano operava un’organizzazione clandestina canadese e che l’Emilietto ne faceva parte. Naturalmente non ne parlai, né con l’Emilietto né con altri.
Non mi pare sussistano dubbi sul fatto che il nome di Emilio Vita Finzi debba comparire tra quelli di coloro che hanno preso parte attiva alla Resistenza, anche se non ha fatto parte di una formazione partigiana combattente.
L’Emilietto apparteneva a quelli che, pur avendo preso parte attiva alla grande epopea della Resistenza, non ne parlavano.
Guido Weiller
Milano, 12 ottobre 2004
Alla testimonianza, giunta inaspettata, dell’ing. Guido Weiller e che collima perfettamente con quanto mi raccontava Emilio, posso aggiungere che, anni dopo la Liberazione, Emilio incontrò per strada – mi pare a Firenze – la ex-partigiana. Baci, abbracci e poi queste sue parole: "Mi avete curata così bene che ho potuto persino allattare!"
Elena Vita Finzi
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