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La violenza di BOLZANETO raccontata da un infermiere
by solidali con MARCO POGGI Wednesday, Mar. 16, 2005 at 3:04 PM mail:

Marco Poggi (Bologna, 1948) è infermiere psichiatrico dal 1971. Ha lavorato presso l’ospedale psichiatrico provinciale "Luigi Lolli" di Imola dal marzo 1972 all’ottobre 1973 e da quella data fino al febbraio 1991 presso l’ospedale psichiatrico provinciale "Francesco Roncati" di Bologna. Ha prestato la sua opera alla "Dozza" di Bologna dal settembre 1988 al settembre 1999 e dal settembre 1990 sino al luglio 2001. Dall’ottobre 1993 ha svolto mansioni di coordinamento e di ristrutturazione del servizio infermieristico. Con la collaborazione del collegio IPASVi di Bologna ha organizzato due corsi di formazione ed aggiornamento per infermieri penitenziari. Dal 1998 è segretario nazionale del SAI ( sindacato autonomo infermieri), che ragruppa una parte degli infermieri penitenziari. Dopo i fatti di Genova, pur non essendo stato licenziato, ha dovuto lasciare il lavoro.

Intervista a Marco Poggi:


I mezzi di informazione, che hanno acceso i riflettori su di lui quando era un testimone privilegiato, hanno poi ignorato la sua vicenda umana e personale.

Il 30 agosto, Marco Poggi è intervistato dal Tg3 nazionale. Dice: "Io mi sono nutrito di violenza, è il mio mestiere, ne ho vista tanta. Ma se dovessi dare una spiegazione a quello che ho visto a Bolzaneto penso che in altri 52 anni non riuscirei a darla.
Già dal venerdì sera io ho visto numerosissimi episodi di violenza esercitati all'interno della caserma di Bolzaneto, sia all'interno che all'esterno dell'infermeria. In infermeria ho visto un medico che ha tolto ad una ragazza un piercing dal naso con la mano, strappandolo (...) Io devo sinceramente chiedere scusa a tutti questi ragazzi e alle loro famiglie, perché io ho assistito senza fare nulla. Probabilmente non sarei riuscito a fare nulla, ma avevo il dovere di provarci". Prima di quell'intervista, dopo aver già rilasciato la sua testimonianza davanti al sostituto procuratore Francesco Pinto, Poggi aveva scritto una lettera datata 29 agosto e indirizzata al presidente della commissione parlamentare d'indagine Antonio Bruno dove racconta le violenze di cui era stato testimone a Bolzaneto dalla sera del venerdì 20 alle ore 8 del giorno 21 luglio. Ma la commissione d'indagine non ha ritenuto di doverlo ascoltare. Le sue accuse non sono generalizzate: non tutti gli agenti si sono lasciati andare a violenze ma, ripete Poggi, "ho avuto la netta sensazione che nessuno comandasse o avesse responsabilità di coordinamento, nonostante la presenza di ufficiali e graduati".


- PERCHÉ HAI DECISO DI RACCONTARE QUELLO CHE HAI VISTO A BOLZANETO?

"Probabilmente dopo Genova mi sarei tirato indietro anch'io come tutti gli altri, ma appena sono tornato a casa la mia vita era cambiata. Ho visto delle cose che avrei mai ritenuto possibili. Lavorando per l'amministrazione penitenziaria ho imparato il concetto di legalità, la necessità di essere al di sopra delle parti. Nonostante i miei 15 anni di lavoro all'interno del carcere, a Genova ho incontrato una situazione completamente nuova. Quando sono stato convocato dal giudice Pinto in qualità di persona informata sui fatti, ho sentito in coscienza di dover andare fino in fondo. Nei giorni precedenti all'interrogatorio ho parlato anche con i miei colleghi di questa decisione, e c'è stato un grande dibattito su questo. Molti mi hanno dato ragione, la maggioranza no, e infatti sono stato praticamente costretto a lasciare il lavoro, dopo forti pressioni. Già nel momento in cui stavo firmando le mie dichiarazioni davanti al giudice ero consapevole di firmare la perdita del mio lavoro. A parole mi è stata lasciata libertà di decidere se rimanere o no, ma dietro le parole si nascondeva un messaggio chiaro: se rimani lo fai a tuo rischio e pericolo. Onestamente devo dire che se non avessi avuto famiglia sarei sicuramente rimasto al mio posto. Davanti al giudice non ho parlato male di nessuno, non ho enfatizzato nulla, non mi sono inventato nulla, ma ho semplicemente risposto, in scienza e coscienza. Le cose che ho raccontato al giudice riguardano solo una minoranza, ma a mio parere questa minoranza non avrebbe potuto comportarsi come si è comportata se non avesse avuto la sensazione di essere in qualche modo 'coperta' o di non doversi preoccupare troppo delle conseguenze dei propri atti. Queste, tuttavia, sono solo mie supposizioni".

- QUALI ALTRE MOTIVAZIONI TI HANNO SPINTO AD USCIRE ALLO SCOPERTO?

"La mia formazione scolastica si limita ad una terza media conquistata alle scuole serali, ma nella mia famiglia ho imparato il senso della giustizia e la necessità di essere vicino ai deboli. Non sono religioso e non credo in Dio, ma credo molto in questo. Io vorrei che la mia testimonianza non fosse fine a se stessa, ma che possa essere un esempio concreto per dare un senso a tutte le parole sull'onestà e la giustizia che ci sentiamo dire sin da quando siamo piccoli, mentre diventando grandi ci abituiamo all'omertà e ci troviamo a lottare contro tutti quando proviamo a rompere il muro del silenzio. Io vengo considerato un eroe o un criminale, a seconda dei punti di vista, ma non sono ne l'uno né l'altro, sono solamente una persona normale che si è indignata e ha voluto raccontare le cose che ha visto. Spero che il mio gesto abbia dato un minimo di speranza ai giovani, soprattutto a quelli che erano presenti a Genova".

- A PROPOSITO DI GIOVANI: MI CHIEDO CHE COSA DIRESTI AD UNO DEI RAGAZZI CHE HANNO SUBITO LE VIOLENZE DI BOLZANETO...

"Direi innanzitutto che è importante rimanere sul terreno della legalità e della democrazia, perché la Polizia non è tutta marcia. La maggior parte è ancora vicina ai cittadini, perché chi ha picchiato a Bolzaneto erano in pochi, ma se questi pochi non vengono isolati, non vengono perseguiti, quei pochi diventeranno molti e quelli che a Bolzaneto si sono trattenuti per paura delle conseguenze la prossima volta potrebbero decidere di imitare i loro colleghi che l'hanno passata liscia nonostante tutto. A un giovane direi di scendere ancora in piazza, ma insieme alla Polizia, non contro. Tutta la rabbia e la frustrazione nate dall'esperienza di Bolzaneto dovrebbero essere incanalate per lottare contro le ingiustizie con una forza che non sia finalizzata a distruggere ma a costruire. La mia scelta di testimoniare le cose che ho visto a Bolzaneto è stata anche una forma di adesione alla sofferenza di quei ragazzi. Lo dovevo a loro e alle loro famiglie".

- CHE CONSEGUENZE HANNO AVUTO LE TUE DICHIARAZIONI?

"Appena ho rilasciato la mia intervista al Tg3, successiva al colloquio con il magistrato, ho subito minacce e ritorsioni per quello che ho detto, mentre nulla è stato fatto per fare in modo che non si ripeta più quello che è successo. Forse è questo che mi fa arrabbiare di più, il fatto che da questa esperienza non si sia imparato niente".

- QUALI SONO SECONDO TE I PROBLEMI DA AFFRONTARE ALL'INTERNO DELLA POLIZIA PENITENZIARIA?

"Nonostante tutto quello che è successo, io continuo ad essere affezionato al corpo di Polizia Penitenziaria, perché è un corpo fondamentalmente sano. L'unico problema è il forte senso di 'gruppo', la chiusura corporativa e la mancanza di trasparenza. Loro sanno perfettamente quello che è successo a Bolzaneto, e parlando singolarmente con le persone coinvolte non hanno problemi a riconoscerlo e a darmi ragione. Quello che appare inaccettabile all'interno del 'gruppo' è che io abbia parlato di queste cose all'esterno. Fuori dal carcere ho avuto molte dimostrazioni individuali di affetto e di solidarietà, ma all'interno della struttura io resto comunque un 'traditore' che ha fatto qualcosa di intollerabile. Quando il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria ha disposto una indagine interna per i fatti accaduti a Genova, ho dichiarato di fronte alla commissione d'indagine del Dap che la mia decisione di uscire allo scoperto è stata presa innanzitutto per un senso di giustizia nei confronti di quei giovani che hanno dovuto subire cose innominabili, ma anche e soprattutto in difesa di quelle migliaia di poliziotti che con onestà e dedizione fanno il loro lavoro, nonostante la presenza di un piccolo gruppo di persone che io continuo a definire delinquenti".

http://www.marcopoggi.org

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IO, L’INFAME DI BOLZANETO
by IO, L’INFAME DI BOLZANETO Wednesday, Mar. 16, 2005 at 3:15 PM mail:

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Dedicato a mio figlio Maurizio ai miei nonni Maria, Bruno, Elio, Elvira ai miei suoceri Gino e Teresa ricordandoli con vivissimo e tenero affetto

Se un giorno vedrete volare la mia anima vorrà dire che si sarà liberata della zavorra dei miei sensi di colpa e dei rimorsi.
Marco Poggi
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IO, L’INFAME DI BOLZANETO
Il prezzo di una scelta normale

A cura di Walter Cavatoi
Prefazione di Giuliano Giuliani
Postfazione a cura di Giuliano Pisapia

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© febbraio 2004, Yema Srl
Strada Curtatona 5/2 loc. Fossalta - 41100 Modena
http://www.yema.biz
ISBN 88-88770-03-8
Tutti i titoli pubblicati da Yema sono disponibili sul sito
http://www.wordtheque.com di http://www.logos.it

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Un ringraziamento particolare a:
• CARLO GUBITOSA che ha avuto il meritro di spronarmi a scrivere questo libro e che mi onora della sua amicizia
• IVANO PRATISSOLI, collega, compagno di sindacato e non più amico ma fratello il quale a pari mio ha vissuto, sofferto e testimoniato quei giorni. Grazie Ivano
Grazie anche a:
• WALTER CAVATOI, che si occupa di giornalismo su piattaforme multimediali ed è tra i promotori del progetto Telestreet e redattore di OrfeoTv
• ALEX CICCONI, documenterista e video operatore, anche lui fra i promotori del progetto Telestreet
• MARCO TROTTA e LUCA ROSINI, autori di alcune schede inserite nel libro
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PREFAZIONE

Ho conosciuto Marco in piazza Alimonda.
Uno dei tanti che erano venuti a Genova per abbracciare Carlo, per portare la sua solidarietà alla famiglia e agli amici. Ha cominciato subito a raccontarmi pezzi della sua storia, molti di quelli raccolti nel libro. Con in più le espressioni del volto, i gesti, la parlata emiliana, che non sono certo poca cosa nel trasferimento di sensazioni e di emozioni.
Poi ci siamo rivisti in molte occasioni, nel corso di varie iniziative alle quali eravamo stati invitati per parlare di Genova, per mantenere intero il filo della memoria. Una di queste occasioni è capitata a Venezia, Marco la ricorda qui senza reticenze. Una ragazza del lager (vedi, Marco, io continuo a chiamarlo così) intervenne piangendo e lo accusò di essere anche lui un aguzzino per non aver fatto nulla al fine di evitare torture, umiliazioni, devastazioni del corpo e della mente. Ho provato anch’io a spiegare a quella ragazza che le ragioni di un comportamento giudicato troppo prudente, indifferente o addirittura complice stavano prevalentemente nel non aggravare la condizione dei violentati e non solo, come peraltro è umano, nella paura delle ritorsioni. Ma è stata fatica improba, perché a chi ha subito ciò che è stata la Diaz, ciò che è stato Bolzaneto, non riesci a spiegare e giustificare nulla. E sarà così ancora per lungo tempo, perché i segni, anche quando scomparsi dalle ossa, dalla carne, dalla pelle, ciascuno se li porta dentro, nella paura per le ombre, nell’ossessione dei rumori, nel turbamento dei sogni, negli incubi delle notti insonni.
Agli altri puoi spiegarlo, quando ci riesci. Sta qui la grande importanza della decisione di parlare, di raccontare, di denunciare. Sta qui il valore di una testimonianza, sta qui il coraggio civile di Marco Poggi.
Già il doverlo chiamare “coraggio” è un segno dell’inquietudine dei nostri tempi. Dovrebbe essere assolutamente normale, un dovere persino banale, denunciare ciò che è avvenuto. E prima ancora, in un paese normale ciò che è avvenuto non sarebbe dovuto avvenire. E invece è successo. E per quelle ragazze, per quei ragazzi, per quelle persone che dormivano alla Diaz o che sono passate dal lager, il fatto che sia successo, la dolorosa e tragica constatazione che stesse succedendo, è ferita altrettanto grave di quelle subite dal corpo, ancora più grave, forse, ancora più difficile da rimarginare.
È la sfiducia nelle istituzioni, nello Stato; sono la paura e il sospetto per ogni divisa, per una toga, per tutti i simboli di un potere estraneo, patrigno, maligno.
L’accertamento delle responsabilità e la punizione dei colpevoli sono assolutamente necessarie non per rancore o per vendetta, ma per giustizia e soprattutto per cercare di restituire fiducia a quelle ragazze, a quei ragazzi, a quelle persone, a tutti coloro che ancora oggi si sentono colpiti da ciò che hanno visto, letto, sentito.
Proprio in questi giorni, le ulteriori testimonianze di alcuni agenti di polizia hanno impedito che si giungesse a una conclusione di fatto assolutoria per le violenze di Bolzaneto. È un altro merito di Marco Poggi, avere aperto una strada difficile sulla quale altri, oggi, decidono di camminare. Tanto più necessario, quando il potere utilizza il controllo sull’informazione per nascondere, per trasformare in verità una menzogna. Con dovizia di mezzi, e con lo strumento più subdolo: il silenzio imposto, variante mediatica della falsità e dell’archiviazione.
Quando a Bolzaneto arrivano, sabato sera, i carabinieri del Tuscania, Poggi nota che il clima migliora. Ne prendo atto, ma non nascondo un certo stupore. Il Tuscania venerdì è in piazza Alimonda, dove scatta la trappola terribile. E dove qualcuno in divisa, come purtroppo si ricava senza equivoco dalle fotografie, rompe con una pietrata la fronte di Carlo che giace sull’asfalto, e lo fa quando il suo corpo è già circondato da un duplice cordone di carabinieri. Ricordate quella scena ripresa dalle telecamere, nella quale un poliziotto insegue un manifestante accusandolo di avere ucciso Carlo? “Tu l’hai ucciso, bastardo, col tuo sasso!” Una messinscena orrenda, atroce, che rappresenta adeguatamente il clima di quei giorni, le decisioni assunte ai massimi livelli politici e della catena di comando.
Ecco perché Genova è una cartina di tornasole per capire i comportamenti e la vera natura del potere. Sopra c’è l’aspetto grottesco (a luglio del 2001 la preoccupazione per i limoni finti, le fioriere, le mutande stese, in una città devastata dalle cancellate e dalle zone rosse; oggi un tagliando di lifting e una tiratina mentre l’economia del paese è allo sbando e l’imbroglio è la condizione prevalente). Sotto l’autoritarismo, la repressione violenta, l’umiliazione del parlamento, le leggi ad personam, il gigantesco conflitto di interessi, l’invito esplicito all’illegalità diffusa.
Nel racconto Marco fa un salto all’indietro di un po’ di anni, ci parla delle sue esperienze, a volte traumatiche, di vita e di lavoro. Infermiere psichiatrico, prima e dopo la legge 180. E basta il prima, per entrare nella preistoria, quando la regola è l’istituzionalizzazione, la violenza, accompagnata quasi sempre dal disprezzo. Sono convinto che, a Bolzaneto, Marco abbia rivissuto alcune ore nella preistoria: l’abuso del forte sul debole, l’assenza di regole, la violenza gratuita, il considerare l’altro non una persona portatrice di diritti ma un oggetto trascurabile sul quale sfogare una presunta superiorità o esercitare un ingiustificato spirito di vendetta. E ha fatto bene a ricordare quelle cose, perché non veniamo dal nulla. In quegli anni Settanta, pur segnati anche dalla follia del terrorismo, si sono compiuti passi grandi verso conquiste di civiltà e di democrazia. La riforma Basaglia, la democratizzazione delle forze di polizia (della quale si sente ancora l’influsso positivo), il consolidamento del tempo pieno nella scuola, la riforma sanitaria, per citarne alcuni.
Ecco, continuare a testimoniare ciò che a Genova è successo davvero, pretendere verità, accertare e colpire le reali responsabilità, significa, io credo, provare anche a riproporre impegni morali, idonei comportamenti politici, priorità e garantire così un ritorno a fasi di crescita democratica e civile della società. In questo meritevole lavoro ciascuno può portare il suo granellino.
Marco Poggi lo ha fatto e per questo lo ringrazio.
Dobbiamo ringraziarlo tutti.


Giuliano Giuliani
Genova, 28 gennaio 2004


INTRODUZIONE


Il testo che segue è tratto da un’intervista effettuata da Walter Cavatoi a Marco Poggi durante il luglio 2003. Ogni momento dell’intervista è stato videoregistrato grazie alla collaborazione di Alex Cicconi.
Non tutti i materiali facenti parte dell’intervista sono qui di seguito pubblicati. Ogni nota aggiuntiva è responsabilità del curatore.
Il 30 agosto, Marco Poggi è intervistato dal Tg3 nazionale.
Dice: “Io mi sono nutrito di violenza, è il mio mestiere, ne ho vista tanta. Ma se dovessi dare una spiegazione a quello che ho visto a Bolzaneto penso che in altri 52 anni non riuscirei a darla. Già dal venerdì sera io ho visto numerosissimi episodi di violenza esercitati all’interno della caserma di
Bolzaneto, sia all’interno che all’esterno dell’infermeria.
Io devo sinceramente chiedere scusa a tutti questi ragazzi e alle loro famiglie, perché io ho assistito senza fare nulla.
Probabilmente non sarei riuscito a fare nulla, ma avevo il dovere di provarci.”

C. Gubitosa, 2002
(http://www.altreconomia.it/Numeri/numero27/bolzaneto.html)

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In movimento verso Genova

La stagione dei movimenti in Italia, quella coincidenza di percorsi sociali che si sono incontrati, hanno dialogato, si sono contaminati, hanno costruito insieme le mobilitazioni più importanti degli ultimi anni, hanno forse un prologo che si è ricordato poco e che, però, è arrivato poco prima della contestazione al “Millennium Round” dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Seattle nel ‘99. Già nella primavera di quell’anno, infatti, un cartello di soggetti che andavano dal Centro sociale Leoncavallo di Milano fino ai Beati Costruttori di Pace di Padova, accoglieva in Italia la “Carovana
Inter Continentale”. In uno sforzo condiviso con molte altre realtà d’Europa, si riuscì a far venire da noi circa cinquecneto indiani provenienti dallo stato del Karnataka, ai quali si aggregarono molte altre donne e uomini provenienti da altre parti del Sud del mondo. Problemi come gli OGM o il debito estero dei paesi poveri erano tutt’altro che all’ordine del giorno nel dibattito pubblico da noi, ma quella iniziativa con le testimonianze portate in città quali Milano, Roma, Bologna,
Venezia, insieme alla contestazione di simboli come la Borsa di piazza Affari o la Fao, e alla marcia fatta insieme a migliaia di pacifisti ad Aviano, da dove partivano i bombardieri verso i Balcani, furono uno stimolo importantissimo anche alla luce di tutto quello che è venuto dopo.
Il 29 gennaio 2000, a Milano, quindicimila persone furono protagoniste della contestazione del Centro di Permanenza
Temporanea di Via Corelli, istituzione voluta dalla nuova legge sull’immigrazione Turco-Napolitano che recepisce il trattato europeo di Schengen sull’immigrazione. Venivano portate lì persone accusate del reato amministrativo di trovarsi senza documenti: le condizioni di detenzione e segregazioni inumane furono documentate in alcuni dossier fotografici. Fu anche la prima volta delle tute bianche e della strategia delle imbottiture e dei gommoni. Anche in seguito a quell’evento e al dibattito in città, che coinvolse organizzazioni e istituzioni, il CPT di via Corelli fu poi chiuso. Il 20 maggio, ad Ancona, venne contestata la “Conferenza sullo sviluppo e la sicurezza dell’Adriatico e dello Jonio” organizzata dall’Ue per parlare anche dei Balcani da ricostruire dopo i bombardamenti dell’anno prima. Un coordinamento di associazioni e realtà della società civile chiamato “Maggio 2000” organizzò un controforum denominato “Adriatico: un mare di diritti”, per parlare, invece, di libera circolazione delle persone, pace, dignità e diritti. Il 24 maggio fu la volta di Firenze. Venne annunciato un vertice della Nato per parlare della situazione in Kossovo, dei rapporti Nato-Russia, della Difesa europea. E fu ancora contestazione ai “potenti della terra”, al braccio armato del neoliberismo che ha coniato il termine di “guerra umanitaria” in settantotto giorni di bombardamenti e trentaseimila missioni, ma anche la ridefinizione del trattato che permette all’alleanza di “intervenire ovunque gli interessi degli stati membri siano minacciati”. Nonostante la blindatura della città con battaglioni di poliziotti, un grande corteo riuscì a sfilare con l’adesione di sindacati di base, movimenti, associazioni, collettivi, centri sociali. Il 25 maggio a Genova si aprì “Tebio”, annunciata come la prima grande mostra convegno in Italia sulle biotecnologie. Un corteo di circa diecimila persone contesterà l’evento con slogan ambientalisti, maschere allegoriche, cartelli colorati. L’appello di Mobilitebio, con lo slogan “Quando il mondo è in vendita, ribellarsi é naturale”, raccoglierà quattrocento sigle, insieme alle delegazioni di trentasei comuni antitransgenici, organizzando diversi momenti di approfondimenti e dibattito pubblico. Il tentativo di entrare nei padiglioni fu fermato dalla polizia con diverse cariche, ma il risultato fu comunque raggiunto: in un documento vennero spiegate le ragioni dei contestatori fatte arrivare in sala durante la sospensione dei lavori ufficiali che si era così prodotta. Il 15 giugno l’appuntamento fu a Bologna dove, da circa un mese, nel più totale riserbo, si stava organizzando una conferenza dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). I ministri dei ventinove paesi più industrializzati, insieme a rappresentanti delle piccole e medie imprese, dovevano parlare di globalizzazione e competitività, prendendo come esempio il tessuto industriale emiliano romagnolo e il suo modello di funzionamento, da sintetizzare nella cosiddetta “Carta di Bologna”. Il coordinamento “Contropiani”, nato un paio di mesi prima, organizzò una serie di eventi di contestazione e informazione tra i quali: uno sciopero di cittadinanza, manifestazioni simboliche fatte con carrelli della spesa con dentro persone, seminari e conferenze per tre giorni nella zona universitaria.
Non mancarono, per la prima volta pubblicamente in Italia, anche tentativi di vera e propria “culture jamming” (la strategia di sovversione dei messaggi pubblicitari, descritta da Naomi Klein in “No Logo”) con uno pannello pubblicitario della Telecom sui “confini da superare” che finirà per diventare lo slogan del movimento “per la libertà di circolazione degli esseri umani”, ma anche extraterrestri che diffondo volantini ai semafori, uno spogliarello pubblico di protesta organizzato da Bifo per lanciare lo slogan dei “corpi non in vendita”. Bologna divenne anche il primo esperimento per la nascita di una nuova forma di comunicazione nel movimento: il mediattivismo. Così nacque il primo nucleo italiano della nascente Indymedia, che fu protagonista solo qualche mese prima a Seattle e che divenne determinante per documentare le mobilitazioni in città, e allo stesso modo venne promosso un “netstrike”, un vero e proprio sciopero della rete.
Nella giornata conclusiva del vertice si succedettero diverse iniziative: il blocco delle vie d’accesso ai delegati, un corteo delle tute bianche (che fu caricato, con il risultato di un ragazzo contuso) e un corteo di tutto il movimento che sfilò vicino al palazzo in cui i delegati stavano discutendo. L’allora primo ministro D’Amato dichiarò: “Le preoccupazioni dei manifestanti sono anche le nostre preoccupazioni”. Migliaia di donne e uomini che sfilarono con il caschetto giallo da cantiere, a simboleggiare gli infortuni e le morti sui posti di lavoro, dimostrarono un impegno che andava ben oltre le semplici “preoccupazioni”. A questo punto il movimento cominciò a diventare un protagonista riconosciuto sulla scena pubblica, tanto da partecipare l’8 luglio al World Gay Pride, organizzato a Roma nell’anno del giubileo dal movimento gay, lesbico e transessuale, per ribadire il diritto a manifestare che le interferenze di un fronte trasversale sulla scena politica, del
Vaticano e di ampi settori dell’estrema destra volevano togliere. Nel frattempo un’altra vittoria a Brescia: un movimento antirazzista ampio e determinato, riuscì a instaurare ottimi rapporti con le locali comunità di migranti per condurre una serie di lotte che culmineranno con il permesso di soggiorno per molti di loro.
A settembre il Fondo Mondiale Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM) organizzarono un vertice a Praga. Il tema era l’allargamento ad Est e si temevano le solite ricette basate sulle privatizzazioni e sui piani di aggiustamento strutturali che hanno già portato sul lastrico diversi paesi del sud del mondo. Il 26 settembre si diede appuntamento l’intero movimento europeo, dalle ong al blocco anarchico, dalla campagna per la Riforma della Banca Mondiale e l’annullamento del debito, alle rivendicazioni sui diritti sociali e nel mondo del lavoro. Il presidente ceco Havel tentò un dialogo con i manifestanti invitandoli ai lavori, ma 11.000 poliziotti in assetto antisommossa, 5.000 soldati e diverse misure preventive di espulsione alla frontiera per molti manifestanti definiti “indesiderabili”, resero chiara la strategia da portare avanti.
Il movimento assediò il vertice con tre blocchi: quello biancorosa pacifista e nonviolento, quello blu anarchico e antagonista e quello giallo delle tute bianche, dei centri sociali. Per tutta la giornata si fronteggiarono con blindati, idranti, lacrimogeni e gas al peperoncino. In alcuni casi gli scontri furono davvero violenti, con diversi feriti. Il vertice ufficiale finì un giorno prima del previsto.
A dicembre, il movimento si spostò a Nizza per il vertice europeo che doveva sancire una carta dei diritti. Fu probabilmente il momento più importante dell’anno, in cui le rivendicazioni del movimento riuscirono a trovare un terreno comune con il sindacalismo di base, le marce dei disoccupati e tutti quei percorsi che si sono attivati per contrapporsi all’Europa delle banche, della finanza e dei vincoli di bilancio di Maastricht. E il movimento accettò la sfida non per contrapporsi all’idea di Europa, ma a un processo costituente che produce regole di cittadinanza, diritti e doveri dall’alto. Per questo le tute bianche annunciarono uno striscione con un altro articolo 1: “Sono cittadini europei tutti coloro che, indipendentemente dalla loro origine, vivono e risiedono nei territori d’Europa”. Ma nelle giornate dal 7 al 10 dicembre la Francia sospese il trattato di Schengen ai propri confini per controllare meglio il flusso dei manifestanti, dimostrando nei fatti la volontà di dialogo con le ragioni che venivano portate. Il treno italiano fu bloccato a Ventimiglia, dove si verificarono scontri. Lo stesso avvenne a Nizza con alcune vetrine rotte e la città completamente assediata.
Gli inizi dell’anno porterono il World Economic Forum di Davos (dal 28 gennaio al 02 febbraio), un incontro annuale organizzato dalle dirigenze dell’alta finanza e dell’imprenditoria mondiale insieme ai capi di stato dei paesi più industrializzati in una rinomata località sciistica della svizzera. L’anno prima il vertice era stato contestato mentre stava discutendo del MAI (Accordo Multilaterale sugli Investimenti), in quest’anno oltre alle contestazioni locali venne organizzato un vero e proprio vertice a Porto Alegre, in Brasile (dal 1 al 2 febbraio), dall’altra parte del mondo, alternativo fin dal nome: World Social Forum, Forum Sociale Mondiale. La scelta della città nacque dalle interessanti sperimentazioni di democrazia locale che da tempo venivano portate avanti nella capitale dello stato del Rio Grande do Sul, e l’appuntamento si affermò come un’importante occasione di dialogo e confronto per tutto il movimento mondiale, per le reti sociali e le realtà del nord e del sud del pianeta che vogliono “un altro mondo possibile”. A Porto Alegre venne anche lanciata la scadenza mondiale del G8 a Genova, nel luglio successivo, e il cartello di realtà sociali che si incaricò di organizzare la contestazione prenderà il nome proprio da qui: Genoa Social Forum.
Ma prima, in Italia, ci fu tempo per un altro vertice, quello dal 17 al marzo a Napoli del Global Forum. Organizzato dall’OCSE, ebbe per tema l’utilizzo delle nuove tecnologie al servizio della governance degli stati, ovvero quelle politiche di introduzione e uso di sistemi tecnologici che permettono l’accesso del cittadino al funzionamento della pubblica amministrazione, ma anche controllo sociale, sicurezza, sorveglianza elettronica ecc. Per contestare il vertice nacque un cartello di realtà dietro la sigla No Global Forum che scelse per simbolo un pulcinella arrabbiato sullo sfondo del Vesuvio e che diede anche la possibilità alla stampa nazionale di trovare finalmente un’etichetta più spendibile per questo movimento “contro la globalizzazione”: noglobal. Ma Napoli divenne importante anche perché si inaugurò il concetto di zona rossa, ovvero di una zona della città iperpresidiata, dove ogni forma di protesta fosse proibita, mentre per la prima volta, al Sud, 40.000 persone provenienti dalle realtà più diverse, e in massima parte giovani e giovanissimi, parteciparono a una manifestazione sostanzialmente autoconvocata.
La risposta delle forze dell’ordine fu piuttosto dura. Alle 13 del 17, il corteo che si era mosso da piazza Garibaldi venne caricato in piazza Municipio con pestaggi e lanci di lacrimogeni. Alla fine della giornata si contarono molti feriti soprattutto tra le persone travolte in zone della città dove non c’erano vie di fuga. Amnesty International aprì un’inchiesta su questo con un rapporto che non fu mai preso in considerazione dall’allora ministro degli interni ulivista Bianco, né ancora oggi il nostro paese ha riconosciuto la tortura un reato.
Un anno dopo, arriverono i primi provvedimenti di custodia cautelare per alcuni poliziotti, ma anche le testimonianze sulla caserma Raniero, dove diversi manifestanti furono portati dalle forze dell’ordine denunciando sevizie e torture. Questi fatti verranno tutti documenti in un libro bianco edito da Deriveapprodi con il titolo “Zona Rossa”. Il netto cambio di strategia delle forze dell’ordine sul diritto a manifestare divenne la premessa con la quale ci si preparò all’appuntamento di Genova a luglio. Il cambio di governo, con la vittoria del centrodestra alle politiche del 2001 e l’affermazione di Silvio Berlusconi, fecero pensare a molti che ci fosse una specie di gara tra le varie componenti delle forze dell’ordine a dimostrare quale tra esse fosse la più efficiente nel mantenere l’ordine pubblico all’avvio di una stagione dove le riforme annunciate erano la facile premessa di molte manifestazioni di piazza. Ma Genova-G8 fu anche il vertice internazionale deciso dal precedente governo al quale partecipò il nuovo presidente degli Usa Bush, che aveva appena inaugurato la nuova linea unilateralista della Casa Bianca, rifiutando la ratifica del trattato di Kyoto sull’emissione di gas serra e del trattato ABM (anti missili balistici). In compenso, la partecipazione annunciata di Bush jr. servì anche a convincere la Russia, invitata al summit, a non opporsi alle nuove strategie della Casa Bianca sullo scudo stellare. Ufficialmente, però, il vertice doveva occuparsi di sviluppo per i paesi del sud del mondo. Il Giubileo Cattolico era passato senza grossi passi avanti in direzione della cancellazione dei debiti che tengono soggiogata buona parte dei paesi cosiddetti “in via di sviluppo” e le richieste del movimento venivano portate avanti dal Genoa Social Forum con un documento al quale aderirono circa 800 sigle della società civile mondiale. Il governo fece anche alcuni tentativi di dialogo con il ministro degli esteri Renato Ruggiero, uno che i noglobal li conosceva bene per essere stato qualche tempo prima il segretario generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. In diverse riunioni di “dialogo” fatte tra governo e rappresentanti del movimento, Vittorio Agnoletto dichiarò di aver fatto tre richieste specifiche: l’impegno sostanziale del governo sul debito estero dei paesi poveri, l’opposizione italiana in seno al WTO contro le sanzioni al Brasile “reo” di non aver rispettato i brevetti sui farmaci anti-AIDS per fronteggiare l’emergenza sanitaria interna e la rimessa in discussione dell’adesione ai trattati che prevedono privatizzazioni dei beni pubblici, l’introduzione della Tobin Tax e di tutte le misure necessarie a frenare le speculazioni finanziarie. A tutte queste richieste il governo rispose “no” e a poco varrà il goffo tentativo, rispedito al mittente, di Renato Ruggierodi cooptare il cantante Manu Chao tra gli invitati al vertice in rappresentanza del movimento. I problemi, invece, furono evidenti fin da subito sugli incontri relativi ai problemi logistici e di ordine pubblico. Il Governo ribadì la divisione di Genova in una zona rossa, ovvero tutto il centro storico delimitato da grate altissime e una vigilanza strettissima, dove non era possibile entrare, e la zona gialla dove le manifestazioni dovevano essere autorizzate. La situazione sui treni, le autostrade e gli ingressi alla frontiera fu tesa fino all’ultimo, con un rimpallo di responsabilità tra le istituzioni locali, la prefettura e il governo, mentre sulla stampa nazionale cominciava subito la guerra delle illazioni basate su presunti rapporti dei servizi segreti: dai palloncini pieni di sangue infetto alla preparazione di imboscate ai danni di poliziotti da sequestrare, fino ala notizia di un grosso quantitativo di bare pronte per ogni evenienza.
Puntuali arrivarono anche i pacchi bomba. Uno scoppiò il 16 luglio alla caserma San Fruttuoso di Genova, un altro alla redazione del Tg4 ma anche al Centro Sociale Leoncavallo di Milano. Ma il programma del movimento andò avanti lo stesso con i public forum che si svolsero dal 16 al 18 luglio tra la palestra di via Battisti e Punta Vagno invitando diverse personalità: da Susan George a Walden Bello, da don Ciotti a Hebe de Bonafini, da Antonio Papisca a José Bové, da Giorgio Dal Fiume a Riccardo Petrella sui temi dell’altra economia, della militarizzazione, dell’ambiente, delle diversità culturali e di genere. Molti interventi furono pubblicati in “Le voci di Genova: idee e proposte dal movimento” (ed. Fandango, a cura di Radio Gap). Il 19 partì la prima manifestazione, quella dei migranti da piazza Carignano, in una città simbolo dei viaggi e dell’incontro fra culture. Il corteo si snodò colorato, tra balli, slogan, colori, bandiere, suoni, voci e facce diverse. Si parlò di 50.000 persone, un record per una manifestazione fatta con le comunità migranti così difficili da coinvolgere sulle manifestazioni pubbliche. In giro la città blindata, i container messi in mezzo alla strada e la polizia che in alcuni punti era molto defilata. La paura dei giorni precedenti sembrava essersi sciolta dietro le risate sul simbolo della contestazione: le mutande che il presidente Berlusconi aveva chiesto ai genovesi di non appendere per non urtare la sensibilità degli otto grandi della terra. Il 20 fu la giornata dell’assedio dietro lo slogan “Voi G8, noi 6.000.000.000”. Le piazze tutte intorno alla zona rossa videro presenze “tematiche”. Piazza Manin fu quella dei pacifisti e nonviolenti. In piazza Dante ci furono Attac, Arci, Rifondazione. In piazza Montano i sindacalisti Cub, Sla-Cobas, e gruppi anarchici. In piazza Paolo da Novi Cobas, Network per i dirizzi globali, Socialist Workers e Globalize Resistance. In piazza Rossetti c’era Altragricoltura, un ponte per i Verdi. A Boccadasse si svolse una veglia di preghiera e allo stadio Carlini i disobbedienti con le tute bianche, la Rete Rage, la Rete Noglobal e i Giovani Comunisti. I primi disordini cominciarono già alle 11.30 con persone vestite di nero che cominciarono a spaccare pezzi si selciato, indisturbati, e prima di allontanarsi verso il mare attaccarono le forze dell’ordine, che reagirono caricando tutta la piazza. In piazza Manin coinvolsero negli scontri con la polizia anche il gruppo nonviolento che stava portando avanti con successo il blocco al varco del Portello. Il corteo dei Disobbedienti (autorizzato) lasciò lo stadio alle 14 e incontrò sulla strada le devastazioni fatte durante il mattino per poi essere caricato all’incrocio tra via Tolemaide e via Casaregis, nel varco più stretto per un corteo di 10.000 persone, aggredito da una quantità impressionante di lacrimogeni e che, indietreggiando in salita, rischia di schiacciare decine di persone. Dagli scontri che ne seguoirono prese avvio la sequenza di avvenimenti che portò poi all’uccisione di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, poco distante dal punto dove era avvenuta la prima carica. Gli scontri si moltiplicarono in molti altri punti della città per tutta la giornata. Il vice presidente Gianfranco Fini, insieme ad altri parlamentari di Alleanza Nazionale, era presente nella sala di coordinamento dei carabinieri. La versione ufficiale fu “per portare solidarietà all’arma”, una “solidarietà” che durò però più di otto ore. Emblematica anche la prima versione ufficiale delle forze dell’ordine: Giuliani è morto per un sasso lanciato da un manifestante. In serata, nel ritrovo di piazzale Kennedy si tennero le prime assemblee volanti: seduti sul selciato, le denunce, le voci sull’identità del morto in piazza, e una riunione che decise di confermare la manifestazione del giorno dopo chiedendo al G8 la sospensione dei lavori. Il 21 sfilò un corteo di 300.000 persone, nel clima teso del paese con tutte le televisioni a rilanciare immagini di scontri cruenti, nonostante defezioni importanti come quella del gruppo dirigente dei DS che annullò l’adesione. L’anno successivo, l’onorevole Violante, tornando in piazza Alimonda, ammise lo sbaglio. Ma il paese rispose lo stesso, con un corteo colorato, multietnico, pieno di facce e storie diverse che passò tra le strade di Genova accolto dai saluti di molti cittadini rimasti e dai secchi d’acqua invocati per temperare un’altra giornata di caldo intenso. A riproporre le stesse scene viste il giorno prima, però, provvidero ancora gruppi di persone vestite di nero che tentarono più volte di infiltrarsi, con le conseguenti cariche delle forze dell’ordine, che cominciarono dalle 15. Il corteo venne diviso tre volte e gruppi di persone inseguite fino sulla spiaggia. La sera, quando i manifestanti cominciarono a defluire verso i centri di accoglienza per tornare a casa, in via Cesare Battisti, intorno alle 23, la polizia irruppe nelle scuole Diaz-Pertini, massacrando con calci e manganelli tutti i presenti e occupando il media center e la sede del Legal Social Forum nel palazzo di fronte, distruggendo alcuni computer sui quali i legali avevano raccolto dati e denunce. Tutti gli arrestati furono accusati degli incidenti delle due giornate precedenti e di resistenza a pubblico ufficiale. Fuori dai cancelli, dove ai giornalisti e perfino ai deputati fu vietato l’ingresso, il portavoce della polizia Sgalla parlò di sangue dovuto alle ferite riportate nei due giorni precedenti. Dopo quasi due anni, tutti i 93 occupanti della Diaz furono prosciolti, il poliziotto Nocera - che aveva accusato di essere stato aggredito con un coltello dentro la Diaz - indagato per false dichiarazioni, e si aspetta l’esito delle indagini sui poliziotti dopo mesi travagliati nei quali si è cercato anche di spostare il processo da Genova. La vicenda è stata raccontata da Lorenzo Guadagnucci in un libro testimonianza “Noi della Diaz” (ed. Altreconomia) e nel successivo “Distratti libertà. Napoli, Genova, Cosenza, Milano. E se accadesse di nuovo?” (ed. Altreconomia) che racconta gli sviluppi e li inquadra nel contesto di molte altre vicende successe dopo nel paese. Nel paese, il dibattito successivo fu molto teso e venne istituita una commissione parlamentare d’indagine che a settembre produsse tre relazioni. Molti altri fatti emersero più tardi, come per esempio per quanto riguarda Bolzaneto. Per diverse settimane dopo il G8, decine di persone risultarono disperse. Ma diversi elementi continuano a non essere del tutto chiari su quelle giornate, e sono stati raccolti in due pubblicazioni “Il Libro Bianco” (che fu venduto insieme a Carta, Liberazione, Manifesto ed Unità) e “Genova nome per nome” di Carlo Gubitosa (ed. Altreconomia), entrambi con cd di documenti audio e video. Più volte è arrivata la richiesta di una commissione di inchiesta parlamentare da parte del comitato “Verità e Giustizia” e una rappresentazione teatrale itinerante è stata messa in piedi dal Comitato “Piazza Carlo Giuliani” per raccontare quello che il gup Elena Daloiso, su richiesta del pm Silvio Franz, ha impedito di dibattere archiviando le accuse contro il carabiniere Mario Placanica.
Ma ancora oggi Genova è diventato un luogo di memoria viva per una parte importante del paese, che torna a darsi appuntamento lì ogni anno, e che in decine di città ha dato luogo a dibattiti, proiezioni, incontri, mostre su questo, alimentando la speranza migliore di chiudere con Genova quel capitolo di storia che negli ultimi quarant’anni ha segnato con tragici lutti e bugie la democrazia nel nostro paese. Uno dei tanti motivi che ha spinto milioni di persone successivamente a difendere diritti, democrazia e pace nelle tante manifestazioni che sono venute dopo.
Info: http://www.piazzacarlogiuliani.org
http://www.veritagiustizia.it

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LA STORIA DELL’INFAMIA


Comincia con quella dichiarazione al Tg3 l’odissea di Marco, infermiere penitenziario in servizio a Bolzaneto durante il G8. Marco decide di cominciare a raccontare cosa davvero è successo nella caserma genovese, squarciando il buio su dei fatti che non potevano essere documentati o filmati.
Durante i mesi precedenti al G8, i media parlano molto delle manifestazioni e del vertice. La città di Genova viene riempita di cantieri per ripulirla e abbellirla. Intorno alla zona rossa, centinaia di blocchi di cemento “New Jersey” formano una cintura, isolando una parte della città e rendendo “prigionieri” i suoi abitanti: solo i residenti possono attraversare la zona rossa e solo dopo molti controlli. Il presidente Berlusconi e il ministro dell’interno Scajola, invitano i cittadini a lasciare Genova, durante i giorni del vertice. Anche all’interno delle forze dell’ordine c’è un certo movimento: reparti speciali vengono addestrati appositamente per quello che sarà uno dei maggiori spiegamenti di forze di polizia (circa 18.000 uomini) della storia repubblicana. Vengono ristrutturate le caserme di Pontedecimo, San Giuliano e Bolzaneto in previsione di un numero altissimo di arrestati, mentre centinaia di bare di plastica sono rese disponibili per fare fronte a un uguale numero di morti.
Le caserme adibite alla detenzione sono a San Giuliano e a Bolzaneto. Da queste caserme, moltissimi manifestanti fermati escono dopo avere subito, fisicamente e psicologicamente, innumerevoli violenze. Già poche ore dopo, i fermi non vengono convalidati e pochissimi degli arrestati verranno accusati formalmente di alcunché.
A Bolzaneto, Marco Poggi ha lavorato, durante quei giorni, come infermiere. Solo Marco e Ivano Pratissoli hanno deciso di raccontare quello che hanno visto. Forse qualche poliziotto, che avrebbe scelto di dare testimonianza anonima, ha seguito la stessa scelta. Oltre queste pochissime persone, il buio. Tutti gli altri che hanno lavorato all’interno della caserma, poliziotti, medici e infermieri, affermano di non aver visto nulla.
Nell’estrema visibilità mediatica che ha caratterizzato il G8 di Genova, infatti, le torture nelle caserme rappresentano un tratto oscuro. Grazie alla auto-organizzazione di centinaia di mediattivisti armati di telecamerina digitale, tutti hanno potuto farsi un’idea di ciò che è accaduto per le strade di Genova. Un movimento composto da un reticolo di individui, radio libere, televisioni di strada, siti di controinformazione, che già da qualche anno stava diventando protagonista della scena mondiale, ha ribaltato il flusso della comunicazione sui centri di potere globali, dimostrando che la potenza di mille immagini può essere un argine contro la menzogna e il monopolio. Durante la fine di luglio 2001, i media hanno acceso i riflettori sulla contestazione anti-globalista, svelato mistificazioni e responsabilità. Molto sappiamo su ciò che è stato fatto in piazza, ma non esiste alcun filmato, nessuna foto sulle ben più assurde violenze perpetrate ai danni degli arrestati nel chiuso delle caserme. Fatti che sono diventati quasi subito di dominio pubblico, ma che correvano il rischio di sembrare, nella loro gravità, fin troppo esagerati, frutto di una versione di parte. Necessitavano di un riscontro dall’interno. Qui la storia di Marco Poggi e di Ivano Pratissoli s’inserisce per portare chiarezza e un giorno, si spera, anche un po’ di giustizia e verità.
Questi fatti hanno lasciato qualcosa di molto più profondo di una ferita sul corpo di uomini e donne: il ricordo e il terrore lasciano un segno indelebile. Non è semplicemente il fatto di aver subito un’ ingiustizia: è il terrore di essere in balia di un potere arbitrario. Tante versioni possono essere accettabili su alcuni degli scontri avvenuti per le strade di Genova in quelle calde giornate estive, ma non si possono trovare scuse quando le violenze vengono fatte su decine di individui arrestati e custoditi in una cella. Incredibile, in questa storia, è che solo due persone, fra le decine che dall’interno hanno osservato immobili le violenze, abbiano deciso di raccontare. Ogni cosa è stata rovesciata e se, da un lato, Marco viene candidato per ottenere una medaglia al valor civile proprio per il coraggio e il senso civico dimostrato con la sua testimonianza, dall’altro si ritrova senza lavoro.
Dal giorno di quella intervista al Tg3 Marco Poggi è un traditore, un infame. Le luci della televisione, le interviste ai giornali: questo gli rimproverano. Nessuno può più garantire la sua sicurezza all’interno di un penitenziario, ma nessuno può confutare i fatti che lui racconta. All’interno del carcere aveva discusso parecchio prima di decidere di testimoniare ma la sua colpa sarebbe stata quella di parlarne “là fuori”. Ha “tradito” i colleghi.
Dopo un po’ anche le luci della televisione si spengono, il sipario si chiude e a restare sono solo i rimorsi, il lavoro perso e un assordante silenzio. Il silenzio di quei ragazzi “che mi vedevano come un aguzzino in mezzo agli altri”...


LE GIORNATE DI BOLZANETO


La mia esperienza di lavoro a Genova-Bolzaneto dura da martedì 17 alle ore 8.00 a domenica 22 alle 16.00.
Nel mese di giugno del 2001, un giorno mi trovavo al telefono con una funzionaria del dipartimento penitenziario e parlavo con lei di questioni sindacali, quando venni a sapere che stava cercando infermieri da mandare a Genova. “Cosa ci vanno a fare gli infermieri al G8?” chiesi, e lei mi rispose che stavano allestendo due siti penitenziari provvisori. Mi proposi di occuparmi della ricerca degli infermieri e il giorno dopo cominciai a rintracciare gli iscritti al mio sindacato (Marco
Poggi dal 1998 è coordinatore del Sindacato autonomo degli infermieri penitenziari - S.A.I. ndc). Feci una lista di nove infermieri, ma diversi furono scartati perché venivano da lontano e il rimborso spese per il viaggio sarebbe stato troppo alto.
Alla fine partimmo in tre: io da Bologna, Ivano Pratissoli da Reggio Emilia e Luca Mancini da Velletri. L’indomani ci raggiunse in macchina il dottor Pasquale Paolillo, il dirigente sanitario del carcere di Bologna.
Il nostro era un incarico assegnato per decreto, ben pagato, non ci pensammo due volte ad accettarlo.
Arrivammo a Genova-Pontedecimo lunedì sera, 17 luglio.
Lì erano stati preparati i nostri alloggi: una confortevole camerata con sei lettini all’interno della caserma appena ristrutturata. Pontedecimo dista circa dieci chilometri da Bolzaneto, pochi minuti di macchina, che noi avremmo dovuto coprire ogni giorno.
La mattina alle 8, ora della riunione e dell’inizio delle nostre attività, ci accolse il dottor Giacomo Toccafondi, che sarebbe stato il responsabile dell’infermeria e del servizio sanitario a Bolzaneto. Capimmo che si trattava di un individuo piuttosto esuberante: si presentò raccontandoci delle sue esperienze negli ospedali militari in Bosnia e ci descrisse i “trofei” di guerra che aveva riportato a casa per ricordo, soprattutto oggetti personali dei prigionieri: magliette e cappellini. Alcune di queste macabre “reliquie”, ci disse un medico che lavorava con lui, erano conservate in una vetrinetta del suo ufficio a Pontedecimo.
Mi fu subito chiaro che qualcosa non andava: Toccafondi vestiva una tuta mimetica, anfibi e maglietta della polizia. E guanti neri imbottiti. Quei guanti che tutti, nelle interviste e nelle deposizioni al tribunale, affermano che non ci sono mai stati: io ne ho indossato uno quella mattina, per curiosità.
Toccafondi dichiarerà, in seguito, di aver indossato la mimetica solo dopo aver ricevuto uno spintone da un agente che non lo aveva riconosciuto, ma noi sappiamo che non c’era alcun pericolo di essere confusi con i detenuti: durante i cinque giorni di servizio, io ho sempre portato abiti civili, faceva troppo caldo anche per tenere il camice. Ho provato a indossarlo, ma me lo sono tolto quasi subito.
Questo episodio è importante perché, se anche fosse vero ciò che ha dichiarato il medico, non farebbe che confermare lo stato di disordine e violenza che regnava nella caserma. Non ho mai visto, in trent’anni che faccio questo mestiere, un medico indossare la mimetica in una caserma.
Nel frattempo, Toccafondi ci distribuiva del materiale informativo su eventuali attacchi con armi chimiche.
Dopo quella riunione il dottor Paolillo, che era partito con noi da Bologna, decise di tornare a casa. “Un problema di soldi”, ci disse, ma mi sembrò strano che un dirigente sanitario del carcere di Bologna fosse arrivato a Genova senza sapere quale fosse l’accordo economico. Non si affronta un viaggio per poi, solo dopo il primo giorno, accorgersi di non guadagnare abbastanza. Penso, piuttosto, che avesse capito quale sarebbe stata la gestione dell’infermeria.
E scelse di rifiutare l’incarico.


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Nei giorni precedenti al G8 di Genova, informative dei servizi segreti anticipano il pericolo di possibili attentati terroristici. Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, arriva scortato da una portaerei americana e, per tutta la durata del vertice, vengono prese numerose precauzioni eccezionali:
- lo spazio aereo viene interdetto a qualsiasi velivolo non autorizzato;
- vengono allestite postazioni di missili terra-aria e viene deciso l’uso di armi da fuoco, durante le manifestazioni, mentre si accantona la proposta di usare proiettili di gomma;
- vengono fatti affluire mezzi blindati e cingolati del battaglione Tuscania, reparti a cavallo, polizia scientifica, servizi segreti, unità cinofile e agenti in borghese;
- viene sospesa la convenzione di Shengen, che prevede la libera circolazione di uomini e merci all’interno della
UE, dalla mezzanotte del 13 luglio alla mezzanotte del
21 luglio 2001. Numerose persone rimangono bloccate alle frontiere;
- Genova viene divisa in diversi settori. Viene recintata una “zona rossa” all’interno della quale nessun cittadino è libero di spostarsi. Molti i disagi anche per gli stessi residenti.

(Diario, 16 novembre 2003)

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Noi, invece, al termine della riunione siamo stati accompagnati con un blindato all’ambulatorio di Bolzaneto, dove tutto era ancora da sistemare.
L’infermeria era grande circa trenta metri quadri, all’interno 27 dei quali avevamo una scrivania, tre box divisi da paraventi, ognuno dotato di un lettino, una bombola per l’ossigeno, uno sfigmomanometro e un fonendoscopio. Appena entrati, sulla sinistra, c’era un piccolo spazio dove la Polizia Penitenziaria svolgeva le perquisizioni.
Ci mettemmo subito al lavoro: montammo i lettini, notammo che i ferri chirurgici non sarebbero stati sufficienti nel caso in cui si fossero dovute fare parecchie suture, e pareva che i medici si aspettassero proprio di doverne fare parecchie. Ne ordinammo di nuovi e il pomeriggio stesso arrivarono circa una ventina di ferri composti da pinze anatomiche, porta aghi e forbici: tutto nuovo di zecca.
A quel punto, riordinato l’ambulatorio e resolo operativo, cominciammo a organizzare i turni di lavoro. In tutto, noi infermieri eravamo in sei: quattro uomini e due donne. A ogni turno di dodici ore, ci sarebbero sempre dovuti essere due medici e due infermieri, oltre al dottor Toccafondi, che non avrebbe quasi mai lasciato il servizio. I turni sarebbero stati dalle 8 alle 20 e il giorno dopo dalle 20 alle 8, alternando un turno di riposo e un turno di lavoro.
La prima notte toccò a me e Ivano, insieme ai dottori Amenta e Mazzoleni. Era martedì, ancora non c’era niente da fare, così io e Ivano cominciammo a fare un giro per la caserma chiacchierando di questioni riguardanti il carcere. Parlavamo di come il nostro lavoro stesse diventando sempre più duro.
Insomma, le tipiche discussioni che due sindacalisti come noi potevano fare in un momento come quello.
Camminando e discutendo, ci allontanammo dall’infermeria facendo una lunga passeggiata. Ogni tanto davamo un’occhiata in giro, come si fa normalmente in un luogo visto per la prima volta.


La caserma di Bolzaneto


Bolzaneto era una tipica caserma militare: si entrava e alla destra c’era il “blocco”, come in gergo viene chiamata la portineria. Andando avanti, a sinistra, si vedeva una palazzina recentemente ristrutturata dove era stata allestita una mensa molto ben organizzata: si mangiava bene e si spendeva pochissimo. Un po’ staccata, qualche decina di metri sulla destra, si estendeva l’area del sito penitenziario provvisorio: una costruzione rettangolare, un capannone prima adibito a palestra, all’interno della quale si svolgevano tutte le funzioni di detenzione e di servizio sanitario. A fianco, un’altra palazzina uguale alla prima conteneva un sito per l’identificazione dei fermati e degli arrestati, gestito dalla
Polizia di Stato, organizzato con alcune postazioni per l’identificazione e la schedatura delle persone, dotate di nuovissime attrezzature per scattare le foto e rilevare le impronte digitali.
A me capitava spesso di andare alla matricola per fare le fotocopie delle cartelle cliniche per i referti medici e lì non ho mai visto violenze, durante le mie brevi visite.
Nel retro, un altro prefabbricato fungeva da magazzino. Un giorno ci sono entrato per cercare delle chiavi per fissare i bulloni dei lettini e ho visto che c’erano un mucchio di scudi e manganelli: era tutta roba vecchia. Non lontano, di fronte a queste due palazzine c’era uno spiazzo occupato da un campo da tennis, mentre il resto era stato adibito a parco macchine. Poi la strada si allontanava per altri 400 metri, verso i dormitori per gli agenti. La stessa sera, passeggiando con Ivano, stavo avvicinandomi da quelle parti quando sono stato, cortesemente, avvisato che tutta la zona era off limits.
Quando descriviamo Bolzaneto, parliamo di distanze piuttosto grandi, anche se, di fatto, noi eravamo liberi di muoverci solo dallo spaccio al penitenziario - circa cinquanta metri - e poi fino all’uscita.
Il sito penitenziario provvisorio era stato appena ristrutturato. Saliti cinque gradini, si entrava in un atrio al quale seguiva un lungo corridoio che dava accesso a numerose stanze, sia sulla destra sia sulla sinistra. I primi uffici erano occupati dalla polizia, c’era quello della Squadra Mobile, della Digos.
Dopo seguivano due bagni, quello a sinistra aveva le docce di decontaminazione, dove in caso di guerra chimica avremmo dovuto disinfettarci gli arrestati. Di fronte c’era l’altro bagno con i water senza porte.
Andando avanti, c’erano due stanzoni di disimpegno per noi e per gli agenti, con il televisore, dove ogni tanto andavamo a riposarci per qualche minuto. poi iniziava serie dei gabbioni all’interno dei quali venivano rinchiusi i detenuti.
Erano otto, di cui uno sarebbe poi stato riempito con gli oggetti sequestrati ai manifestanti. Ogni gabbione, grande circa sei metri per sei, aveva delle enormi finestre chiuse con sbarre di ferro. Era impossibile, passando per il corridoio, non vedere quello che succedeva all’interno. Io, dentro questo edificio avevo completa libertà di movimento. Mi capitò spesso di attraversare il corridoio: mi chiamavano per medicare qualche nuovo arrivato o per trasportare bendaggi e attrezzature, anche se la maggior parte del tempo lo passai in infermeria.
Il nostro compito, come nelle carceri, era quello di assicurare che tutti, all’interno di Bolzaneto, avessero un’adeguata assistenza sanitaria. Formalmente, avevamo il compito di collaborare con il medico durante le visite dei detenuti per i quali era stato confermato l’arresto; avremmo dovuto medicare gli arrestati ed eventualmente mandare in ospedale i casi più seri. C’erano anche da espletare le pratiche burocratiche, documenti da compilare, fotocopie di certificati e cartelle cliniche.
Normalmente, in carcere ci sono due moduli distinti, il 99 sul quale va segnalata tutta la vita sanitaria del detenuto con anamnesi remota e recente, le eventuali malattie o ricoveri ospedalieri avuti; e un secondo modulo, di recente istituzione, nel quale segnalare le eventuali lesioni riportate dal detenuto al momento del suo ingresso in carcere e chiarire i motivi di queste eventuali ferite; si sarebbe dovuto chiedere, in pratica, se le ferite fossero dovute a incidenti fortuiti o prodotte da percosse. Alla fine, un medico avrebbe dovuto confermare o smentire la compatibilità della versione del detenuto.
Per quanto riguarda l’espletamento delle pratiche burocratiche delle visite di primo ingresso, è necessario anticipare una cosa: non credo che i referti medici siano stati regolari.
A Bolzaneto questi moduli non c’erano, nessuno dei due.
Venivano solo segnalate le eventuali lesioni che il paziente aveva, senza che ne fosse specificata la causa e, soprattutto, non veniva fatta un’anamnesi né remota né recente.
Molto sbrigativamente, questi dati venivano scritti direttamente sulla cartella clinica, che poi veniva fotocopiata.
Molti non sono stati registrati in infermeria, non saprei spiegare il perché. Credo solo che sia stata una dimenticanza, una grave dimenticanza. In realtà, non appena iniziò “l’inferno”, non facevamo che correre avanti e indietro per cercare di dare aiuto a chi potevamo, sono saltate tante formalità e in quel momento nessuno si accorgeva di quanto sarebbero stato utili. Si sarebbero potute ricostruire le vicende di molti dei manifestanti passati per Bolzaneto e sarebbe stato più facile l’accertamento delle percosse e degli abusi, di quelli avvenuti fuori e dentro la caserma.
In un penitenziario gli stati di insofferenza, shock e patologia sono frequenti: è il carcere stesso a produrli. Chi viene privato della libertà, costretto a stare in un ambiente chiuso, subisce contraccolpi psicologici e fisici che scatenano immediatamente delle patologie.
Generalmente, in carcere dovrebbe anche esserci uno psichiatra o uno psicologo, per dare un parere sullo stato psicologico del detenuto.
A Genova non ci fu mai una figura che prestasse cure per questo genere di esigenze, proprio perché questo obbligo non scatta immediatamente, ma dopo le ventiquattro ore dall’entrata in carcere. È per questo, purtroppo, che a Bolzaneto non fu data assistenza psicologica.
L’imponente spiegamento di forze militari fu giustificato con il rischio di attentati. Furono piazzate delle batterie di missili antiaerei, i sommozzatori e le portaerei nel golfo di Genova e, mesi dopo, il ministro dell’interno Scajola giustificò il suo operato citando informative dei servizi segreti a riguardo. All’interno delle caserme si parlava di possibili attacchi terroristici?
Dall’altra parte, il GSF e molti altri hanno sostenuto che il piano repressivo da parte delle forze dell’ordine fosse già preparato da tempo. Che cosa successe nei vostri primi giorni di servizio? C’era qualcosa che avrebbe potuto far presagire ciò che stava per succedere? Quali voci circolavano all’interno?
I primi giorni tutto era fermo, non c’era quasi nulla da fare e spesso stavo a guardare gli agenti che si esercitavano simulando le cariche, qualcuno si è anche ferito e Ivano ha dovuto medicarlo. Tutto quasi normale, eravamo in una caserma! Spesso si pensa a Bolzaneto come a un lager. Questo non è esatto anche se non mancarono episodi che dovevano far riflettere. Fino a quel momento avevamo notato molte piccole stranezze, dall’atteggiamento del medico a quello degli agenti, ma niente che potesse far presagire quello che sarebbe cominciato di lì a poco.
Non posso dire che ci fosse qualcosa di già pianificato sarei disonesto perché io non ho le prove per dirlo - però, conoscendo il carcere, posso immaginare che abbiano creduto di essere impunibili. È chiaro: essendo proprio loro quelli deputati alla sorveglianza, potevano contare sull’auto-assoluzione, sulla copertura corporativa. Nel momento in cui tutto è iniziato, si sono contagiati e rassicurati l’un l’altro; gli sguardi, i sorrisi o anche soltanto un mancato rimprovero avrebbero dato agli agenti violenti un messaggio chiaro di solidarietà e protezione. Ho incontrato, in seguito, a Bologna, alcuni agenti che mi hanno detto: “Bisognava educarli!” “Educarli a cosa?”, mi sono spesso chiesto senza mai trovare alcuna risposta plausibile.
Non tutti hanno usato violenza, alcuni (due o tre) hanno compiuto gesti isolati di sdegno verso i colleghi, ma la maggior parte ha coperto gli abusi.
Certamente, nessuno ha fatto niente per fermarli; tutti i capi erano lì e avrebbero potuto fermare e contenere i loro sottoposti in qualsiasi momento.
La questione degli attentati non fu mai presa veramente sul serio o almeno questa fu la mia impressione. Bisogna ricordare che eravamo ancora lontani dall’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle. Circolava del materiale informativo sulle armi chimiche, avevano anche predisposto un’area di decontaminazione e c’era, in infermeria, un numero spropositato di mascherine per l’erogazione dell’ossigeno, credo qualche centinaio. Noi pensavamo che la situazione fosse un po’ comica, sembrava più un’esaltazione individuale che un pericolo reale.
Fino al 18 luglio non ci fu niente da fare, eravamo anche un po’ annoiati. Arrivò solo qualcuno che era stato notato nelle vicinanze, forse gente che non aveva nemmeno a che fare col G8 e che, infatti, venne rilasciata subito dopo l’identificazione. Durante il mio turno, - non ricordo bene a che ora, ero in servizio dalle 8 alle 20 - passò in visita un generale della polizia e mi ricordo che il medico disse: “Quando il generale visita le truppe siamo vicini all’attacco!”. Toccafondi amava usare questo gergo militare e non lesinava occasioni per dimostrarcelo.
A volte sentivo gli agenti riparlare dei manifestanti. Non capivano le loro ragioni. Per loro il fatto stesso di scendere in piazza per manifestare rappresentava quasi un reato. Scherzavano dicendo che non ne sarebbe arrivato nessuno in caserma perché li avrebbero tutti massacrati per strada. In effetti, i primi giorni tutto rimase tranquillo, ma poi gli arresti ci furono. E furono tanti, più di quanti nessuno si aspettasse.
Gli agenti commentavano il merito delle manifestazioni anti-globaliste? Esprimevano una loro opinione riguardo ai grandi temi come la divisione della ricchezza fra mondo ricco e mondo povero? Hai mai sentito dire loro che manifestare fosse un segno di democrazia, che tutta quella gente potesse avere una qualche legittimità a manifestare il proprio pensiero?
Sentivo spesso dire fra di loro: “Perché vanno in piazza? Chi glielo ha detto di andare in piazza? Perché non stavano a casa? Se fossero rimasti a casa loro non sarebbe successo niente…” e via dicendo.
Durante quei giorni, centinaia di migliaia di persone esprimevano la loro visione di un mondo diverso, manifestavano contro le enormi disparità che si sono create fra paesi ricchi e paesi poveri e anche contro le stesse enormi disuguaglianza esistenti all’interno delle società occidentali.
Secondo me, neanche se la gente fosse scesa in piazza per i motivi opposti, neanche se qualcuno avesse manifestato per difendere i privilegi del mondo ricco, loro sarebbero stati d’accordo. Non lo concepiscono proprio, il fatto che si possa democraticamente manifestare un’opposizione o un disagio.
Io credo, invece, che chiunque debba poter dire: “Il governo non mi piace”, “La globalizzazione non mi piace”, o gridare contro qualsiasi altro tipo di istituzione.
Certo, se tu vai in piazza e poi, visto che sei lì, butti giù un
Bancomat perché è di una multinazionale, allora non va bene. Io non ci starò mai a questo gioco.
E poi…andiamo! Lo abbiamo visto tutti: certamente ci furono anche centinaia di devastatori, ma la maggior parte erano ragazzi pacifici. Che ballavano, suonavano! Colorati…
Vediamo solo quello che vogliamo vedere. È per questo che difendo la polizia penitenziaria. Perché non sono tutti così. È per questo che dobbiamo parlarci molto di più, raccontare e spiegare queste cose. Perché se ci conoscessimo un po’ di più potremmo imparare a capire le ragioni degli altri.
Il giovedì ci fu la manifestazione dei migranti che, anche dal punto di vista dell’ordine pubblico, andò molto bene e qualcuno ci rimase quasi male per il fatto che non fosse successo nulla.
Il venerdì, io e Pratissoli saremmo dovuti entrare in servizio alle 20.00.
Prima ancora che noi prendessimo servizio, cominciarono ad arrivare le prime notizie sui casini scoppiati in piazza.
Noi eravamo nell’alloggio di Genova-Pontedecimo dove, con gli altri colleghi fuori servizio, passavamo qualche ora in una sala di sosta attrezzata con bevande e televisore.
Quando scendemmo dal primo piano, dove c’era la nostra stanza da letto, già una decina di altri colleghi stavano intorno alla tv.
Sia noi che qualche agente passammo alcune ore a guardare i primi servizi che venivano messi in onda sulla manifestazione. Seguivamo Primo Canale di Genova, una rete privata commerciale che durante quei giorni fece informazione in modo puntuale e onesto. Guardammo tutti insieme le prime immagini degli scontri e, fra di noi, si sparse la notizia che un carabiniere fosse stato ferito. Questo ci turbò molto, anche perché la notizia ebbe un seguito all’interno del nostro ambiente.
Durante quei raduni davanti al televisore, parlavo spesso. Lo dicevo anche agli agenti: ero solidale con quei ragazzi, sarei sceso in piazza con loro, ma non potevo tollerare quelli che devastavano, incendiavano macchine (che, ad andar bene, appartenevano a un operaio). Quello non riuscivo a capirlo.
Per alcune ore restammo lì, vicino al televisore, cercando di capire cosa stesse succedendo.
Più tardi arrivarono le immagini della morte di Carlo Giuliani (dopo le 17); seguimmo la notizia quasi in diretta. La tv mostrò anche la disgustosa scena nella quale un poliziotto inseguiva un manifestante urlando: “Sei stato tu a ucciderlo, sei stato tu, col tuo sasso”. Quello è stato uno degli episodi che ha continuato a rimanermi impresso per parecchi mesi, soprattutto dopo avere saputo come fosse realmente andato l’episodio della morte di Giuliani.
Si cominciava a respirare un’aria pesante. Come non pensare al desiderio di vendetta che serpeggiava fra gli agenti?!
Qualche ora più tardi eravamo al lavoro, a Bolzaneto.
Incrociai un maresciallo dei carabinieri e chiesi notizie del carabiniere ferito. La sua risposta mi gelò: “È morto!”, mi disse. Per diverse ore continuai a credere che un carabiniere fosse morto veramente.
Perché mai avrei dovuto dubitare di una cosa detta da un maresciallo dei carabinieri? D’altronde credo che anche lui ne fosse convinto. Nel silenzio, cominciò a salire la tensione. Ivano disse: “Non vorrei essere nei panni del primo che arrestano”.
Nel frattempo erano scattati i fermi, gli arresti e cominciò la processione dalle strade verso le “gabbie” e le caserme.
I primi ad arrivare a Bolzaneto furono un ragazzino e una giornalista che credo fosse francese. Il ragazzo lo vidi già nel cortile: era ammanettato dentro la pantera e un poliziotto cercava di picchiarlo dando manganellate con una furia cieca. Nel frattempo, il ragazzino si era spostato dal posto laterale verso il centro della vettura e l’agente riusciva a colpire solo la portiera: non gli bastava per sfogare la sua rabbia.
Una scena comica, pur nella sua tragicità. Poi uscì un altro poliziotto in borghese, visibilmente arrabbiato per il comportamento del collega. I poliziotti non è che fossero tutti dei violenti. La polizia non ha fatto solo delle porcate. Per correttezza d’informazione, bisogna raccontare anche le cose normali che ci sono state.
Poi entrambi arrivarono in infermeria e per un po’ furono costretti a stare nella posizione del cigno. La posizione del “cigno”, come si dice in gergo, consisteva nel rimanere in piedi contro il muro, con le mani appoggiate in alto, la testa appoggiata anch’essa contro il muro e le gambe divaricate.
Durante queste attese vige l’assoluto divieto di muoversi o parlare.
Di norma le perquisizioni non si sarebbero dovute tenere in infermeria, in carcere naturalmente questo non avviene, ma per motivi di spazio e di tempo i detenuti venivano spogliati, visitati e perquisiti in successione. È questo uno dei motivi, casuale, per cui tante violenze sono state consumate proprio sotto gli occhi del personale sanitario. Abbiamo visto parecchi ragazzi e ragazze denudarsi, ma questo è normale durante le perquisizioni e le visite. È umiliante, soprattutto in occasioni come quella, ma mi risulta essere legittimo. In quindici anni di lavoro in carcere ho visto centinaia di ragazze denudarsi. Forse, in mezzo a tutte le altre, questa è stata una delle cose legali avvenute in quei giorni.
Dopo un po’, andai nel gabbione a vedere come stava la donna: non dimenticherò mai i suoi occhi dentro i miei. Eppure, avendo lavorato in galera a contatto con assassini e stupratori, pensavo di avere una sorta di corazza che mi proteggesse dal coinvolgimento con le sofferenze dei detenuti.
Non quella volta. I suoi occhi, lì, non li dimenticherò mai.
Al ragazzo, minorenne, ordinarono di fare le flessioni. Non era una cosa strana: il regolamento lo prevede come completamento alla perquisizione, per accertarsi che l’arrestato non abbia nascosto oggetti proibiti. Il detenuto doveva spogliarsi nudo e poi flettersi sulle ginocchia, col tronco eretto - non la tipica flessione da marine - così, se avesse avuto qualcosa nell’ampolla rettale, lo avrebbe fatto venire fuori. Il dramma fu che il ragazzino era talmente impaurito da non riuscire a farle, quelle maledette flessioni, forse non riusciva a capire neanche cosa gli stessero chiedendo. E continuò a tremare senza emettere alcun grido, anche mentre un agente lo prendeva a calci e pugni. Dopo oltre due anni, ho ancora nelle orecchie quel rumore dei pugni nelle reni. Stava a terra, in silenzio, con una grandissima dignità ma anche senza fiato per il dolore.
Là sono stati annientati come individui: dare delle botte nei reni a un ragazzino di 17 anni, che p

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x favore
by un* Wednesday, Mar. 16, 2005 at 3:30 PM mail:

postalo tutto

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ALLEGO
by INDIO Wednesday, Mar. 16, 2005 at 5:38 PM mail:

ALLEGO IN TXY T IL TESTO INTEGRALE**********************************************
Dedicato a mio figlio Maurizio ai miei nonni Maria, Bruno, Elio, Elvira ai miei suoceri Gino e Teresa ricordandoli con vivissimo e tenero affetto

Se un giorno vedrete volare la mia anima vorrà dire che si sarà liberata della zavorra dei miei sensi di colpa e dei rimorsi.
Marco Poggi
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IO, L’INFAME DI BOLZANETO
Il prezzo di una scelta normale

A cura di Walter Cavatoi
Prefazione di Giuliano Giuliani
Postfazione a cura di Giuliano Pisapia

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© febbraio 2004, Yema Srl
Strada Curtatona 5/2 loc. Fossalta - 41100 Modena
http://www.yema.biz
ISBN 88-88770-03-8
Tutti i titoli pubblicati da Yema sono disponibili sul sito
http://www.wordtheque.com di http://www.logos.it

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Un ringraziamento particolare a:
• CARLO GUBITOSA che ha avuto il meritro di spronarmi a scrivere questo libro e che mi onora della sua amicizia
• IVANO PRATISSOLI, collega, compagno di sindacato e non più amico ma fratello il quale a pari mio ha vissuto, sofferto e testimoniato quei giorni. Grazie Ivano
Grazie anche a:
• WALTER CAVATOI, che si occupa di giornalismo su piattaforme multimediali ed è tra i promotori del progetto Telestreet e redattore di OrfeoTv
• ALEX CICCONI, documenterista e video operatore, anche lui fra i promotori del progetto Telestreet
• MARCO TROTTA e LUCA ROSINI, autori di alcune schede inserite nel libro
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PREFAZIONE

Ho conosciuto Marco in piazza Alimonda.
Uno dei tanti che erano venuti a Genova per abbracciare Carlo, per portare la sua solidarietà alla famiglia e agli amici. Ha cominciato subito a raccontarmi pezzi della sua storia, molti di quelli raccolti nel libro. Con in più le espressioni del volto, i gesti, la parlata emiliana, che non sono certo poca cosa nel trasferimento di sensazioni e di emozioni.
Poi ci siamo rivisti in molte occasioni, nel corso di varie iniziative alle quali eravamo stati invitati per parlare di Genova, per mantenere intero il filo della memoria. Una di queste occasioni è capitata a Venezia, Marco la ricorda qui senza reticenze. Una ragazza del lager (vedi, Marco, io continuo a chiamarlo così) intervenne piangendo e lo accusò di essere anche lui un aguzzino per non aver fatto nulla al fine di evitare torture, umiliazioni, devastazioni del corpo e della mente. Ho provato anch’io a spiegare a quella ragazza che le ragioni di un comportamento giudicato troppo prudente, indifferente o addirittura complice stavano prevalentemente nel non aggravare la condizione dei violentati e non solo, come peraltro è umano, nella paura delle ritorsioni. Ma è stata fatica improba, perché a chi ha subito ciò che è stata la Diaz, ciò che è stato Bolzaneto, non riesci a spiegare e giustificare nulla. E sarà così ancora per lungo tempo, perché i segni, anche quando scomparsi dalle ossa, dalla carne, dalla pelle, ciascuno se li porta dentro, nella paura per le ombre, nell’ossessione dei rumori, nel turbamento dei sogni, negli incubi delle notti insonni.
Agli altri puoi spiegarlo, quando ci riesci. Sta qui la grande importanza della decisione di parlare, di raccontare, di denunciare. Sta qui il valore di una testimonianza, sta qui il coraggio civile di Marco Poggi.
Già il doverlo chiamare “coraggio†è un segno dell’inquietudine dei nostri tempi. Dovrebbe essere assolutamente normale, un dovere persino banale, denunciare ciò che è avvenuto. E prima ancora, in un paese normale ciò che è avvenuto non sarebbe dovuto avvenire. E invece è successo. E per quelle ragazze, per quei ragazzi, per quelle persone che dormivano alla Diaz o che sono passate dal lager, il fatto che sia successo, la dolorosa e tragica constatazione che stesse succedendo, è ferita altrettanto grave di quelle subite dal corpo, ancora più grave, forse, ancora più difficile da rimarginare.
È la sfiducia nelle istituzioni, nello Stato; sono la paura e il sospetto per ogni divisa, per una toga, per tutti i simboli di un potere estraneo, patrigno, maligno.
L’accertamento delle responsabilità e la punizione dei colpevoli sono assolutamente necessarie non per rancore o per vendetta, ma per giustizia e soprattutto per cercare di restituire fiducia a quelle ragazze, a quei ragazzi, a quelle persone, a tutti coloro che ancora oggi si sentono colpiti da ciò che hanno visto, letto, sentito.
Proprio in questi giorni, le ulteriori testimonianze di alcuni agenti di polizia hanno impedito che si giungesse a una conclusione di fatto assolutoria per le violenze di Bolzaneto. È un altro merito di Marco Poggi, avere aperto una strada difficile sulla quale altri, oggi, decidono di camminare. Tanto più necessario, quando il potere utilizza il controllo sull’informazione per nascondere, per trasformare in verità una menzogna. Con dovizia di mezzi, e con lo strumento più subdolo: il silenzio imposto, variante mediatica della falsità e dell’archiviazione.
Quando a Bolzaneto arrivano, sabato sera, i carabinieri del Tuscania, Poggi nota che il clima migliora. Ne prendo atto, ma non nascondo un certo stupore. Il Tuscania venerdì è in piazza Alimonda, dove scatta la trappola terribile. E dove qualcuno in divisa, come purtroppo si ricava senza equivoco dalle fotografie, rompe con una pietrata la fronte di Carlo che giace sull’asfalto, e lo fa quando il suo corpo è già circondato da un duplice cordone di carabinieri. Ricordate quella scena ripresa dalle telecamere, nella quale un poliziotto insegue un manifestante accusandolo di avere ucciso Carlo? “Tu l’hai ucciso, bastardo, col tuo sasso!†Una messinscena orrenda, atroce, che rappresenta adeguatamente il clima di quei giorni, le decisioni assunte ai massimi livelli politici e della catena di comando.
Ecco perché Genova è una cartina di tornasole per capire i comportamenti e la vera natura del potere. Sopra c’è l’aspetto grottesco (a luglio del 2001 la preoccupazione per i limoni finti, le fioriere, le mutande stese, in una città devastata dalle cancellate e dalle zone rosse; oggi un tagliando di lifting e una tiratina mentre l’economia del paese è allo sbando e l’imbroglio è la condizione prevalente). Sotto l’autoritarismo, la repressione violenta, l’umiliazione del parlamento, le leggi ad personam, il gigantesco conflitto di interessi, l’invito esplicito all’illegalità diffusa.
Nel racconto Marco fa un salto all’indietro di un po’ di anni, ci parla delle sue esperienze, a volte traumatiche, di vita e di lavoro. Infermiere psichiatrico, prima e dopo la legge 180. E basta il prima, per entrare nella preistoria, quando la regola è l’istituzionalizzazione, la violenza, accompagnata quasi sempre dal disprezzo. Sono convinto che, a Bolzaneto, Marco abbia rivissuto alcune ore nella preistoria: l’abuso del forte sul debole, l’assenza di regole, la violenza gratuita, il considerare l’altro non una persona portatrice di diritti ma un oggetto trascurabile sul quale sfogare una presunta superiorità o esercitare un ingiustificato spirito di vendetta. E ha fatto bene a ricordare quelle cose, perché non veniamo dal nulla. In quegli anni Settanta, pur segnati anche dalla follia del terrorismo, si sono compiuti passi grandi verso conquiste di civiltà e di democrazia. La riforma Basaglia, la democratizzazione delle forze di polizia (della quale si sente ancora l’influsso positivo), il consolidamento del tempo pieno nella scuola, la riforma sanitaria, per citarne alcuni.
Ecco, continuare a testimoniare ciò che a Genova è successo davvero, pretendere verità, accertare e colpire le reali responsabilità, significa, io credo, provare anche a riproporre impegni morali, idonei comportamenti politici, priorità e garantire così un ritorno a fasi di crescita democratica e civile della società. In questo meritevole lavoro ciascuno può portare il suo granellino.
Marco Poggi lo ha fatto e per questo lo ringrazio.
Dobbiamo ringraziarlo tutti.


Giuliano Giuliani
Genova, 28 gennaio 2004


INTRODUZIONE


Il testo che segue è tratto da un’intervista effettuata da Walter Cavatoi a Marco Poggi durante il luglio 2003. Ogni momento dell’intervista è stato videoregistrato grazie alla collaborazione di Alex Cicconi.
Non tutti i materiali facenti parte dell’intervista sono qui di seguito pubblicati. Ogni nota aggiuntiva è responsabilità del curatore.
Il 30 agosto, Marco Poggi è intervistato dal Tg3 nazionale.
Dice: “Io mi sono nutrito di violenza, è il mio mestiere, ne ho vista tanta. Ma se dovessi dare una spiegazione a quello che ho visto a Bolzaneto penso che in altri 52 anni non riuscirei a darla. Già dal venerdì sera io ho visto numerosissimi episodi di violenza esercitati all’interno della caserma di
Bolzaneto, sia all’interno che all’esterno dell’infermeria.
Io devo sinceramente chiedere scusa a tutti questi ragazzi e alle loro famiglie, perché io ho assistito senza fare nulla.
Probabilmente non sarei riuscito a fare nulla, ma avevo il dovere di provarci.â€

C. Gubitosa, 2002
(http://www.altreconomia.it/Numeri/numero27/bolzaneto.html)

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In movimento verso Genova

La stagione dei movimenti in Italia, quella coincidenza di percorsi sociali che si sono incontrati, hanno dialogato, si sono contaminati, hanno costruito insieme le mobilitazioni più importanti degli ultimi anni, hanno forse un prologo che si è ricordato poco e che, però, è arrivato poco prima della contestazione al “Millennium Round†dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Seattle nel ‘99. Già nella primavera di quell’anno, infatti, un cartello di soggetti che andavano dal Centro sociale Leoncavallo di Milano fino ai Beati Costruttori di Pace di Padova, accoglieva in Italia la “Carovana
Inter Continentaleâ€. In uno sforzo condiviso con molte altre realtà d’Europa, si riuscì a far venire da noi circa cinquecneto indiani provenienti dallo stato del Karnataka, ai quali si aggregarono molte altre donne e uomini provenienti da altre parti del Sud del mondo. Problemi come gli OGM o il debito estero dei paesi poveri erano tutt’altro che all’ordine del giorno nel dibattito pubblico da noi, ma quella iniziativa con le testimonianze portate in città quali Milano, Roma, Bologna,
Venezia, insieme alla contestazione di simboli come la Borsa di piazza Affari o la Fao, e alla marcia fatta insieme a migliaia di pacifisti ad Aviano, da dove partivano i bombardieri verso i Balcani, furono uno stimolo importantissimo anche alla luce di tutto quello che è venuto dopo.
Il 29 gennaio 2000, a Milano, quindicimila persone furono protagoniste della contestazione del Centro di Permanenza
Temporanea di Via Corelli, istituzione voluta dalla nuova legge sull’immigrazione Turco-Napolitano che recepisce il trattato europeo di Schengen sull’immigrazione. Venivano portate lì persone accusate del reato amministrativo di trovarsi senza documenti: le condizioni di detenzione e segregazioni inumane furono documentate in alcuni dossier fotografici. Fu anche la prima volta delle tute bianche e della strategia delle imbottiture e dei gommoni. Anche in seguito a quell’evento e al dibattito in città, che coinvolse organizzazioni e istituzioni, il CPT di via Corelli fu poi chiuso. Il 20 maggio, ad Ancona, venne contestata la “Conferenza sullo sviluppo e la sicurezza dell’Adriatico e dello Jonio†organizzata dall’Ue per parlare anche dei Balcani da ricostruire dopo i bombardamenti dell’anno prima. Un coordinamento di associazioni e realtà della società civile chiamato “Maggio 2000†organizzò un controforum denominato “Adriatico: un mare di dirittiâ€, per parlare, invece, di libera circolazione delle persone, pace, dignità e diritti. Il 24 maggio fu la volta di Firenze. Venne annunciato un vertice della Nato per parlare della situazione in Kossovo, dei rapporti Nato-Russia, della Difesa europea. E fu ancora contestazione ai “potenti della terraâ€, al braccio armato del neoliberismo che ha coniato il termine di “guerra umanitaria†in settantotto giorni di bombardamenti e trentaseimila missioni, ma anche la ridefinizione del trattato che permette all’alleanza di “intervenire ovunque gli interessi degli stati membri siano minacciatiâ€. Nonostante la blindatura della città con battaglioni di poliziotti, un grande corteo riuscì a sfilare con l’adesione di sindacati di base, movimenti, associazioni, collettivi, centri sociali. Il 25 maggio a Genova si aprì “Tebioâ€, annunciata come la prima grande mostra convegno in Italia sulle biotecnologie. Un corteo di circa diecimila persone contesterà l’evento con slogan ambientalisti, maschere allegoriche, cartelli colorati. L’appello di Mobilitebio, con lo slogan “Quando il mondo è in vendita, ribellarsi é naturaleâ€, raccoglierà quattrocento sigle, insieme alle delegazioni di trentasei comuni antitransgenici, organizzando diversi momenti di approfondimenti e dibattito pubblico. Il tentativo di entrare nei padiglioni fu fermato dalla polizia con diverse cariche, ma il risultato fu comunque raggiunto: in un documento vennero spiegate le ragioni dei contestatori fatte arrivare in sala durante la sospensione dei lavori ufficiali che si era così prodotta. Il 15 giugno l’appuntamento fu a Bologna dove, da circa un mese, nel più totale riserbo, si stava organizzando una conferenza dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). I ministri dei ventinove paesi più industrializzati, insieme a rappresentanti delle piccole e medie imprese, dovevano parlare di globalizzazione e competitività, prendendo come esempio il tessuto industriale emiliano romagnolo e il suo modello di funzionamento, da sintetizzare nella cosiddetta “Carta di Bolognaâ€. Il coordinamento “Contropianiâ€, nato un paio di mesi prima, organizzò una serie di eventi di contestazione e informazione tra i quali: uno sciopero di cittadinanza, manifestazioni simboliche fatte con carrelli della spesa con dentro persone, seminari e conferenze per tre giorni nella zona universitaria.
Non mancarono, per la prima volta pubblicamente in Italia, anche tentativi di vera e propria “culture jamming†(la strategia di sovversione dei messaggi pubblicitari, descritta da Naomi Klein in “No Logoâ€) con uno pannello pubblicitario della Telecom sui “confini da superare†che finirà per diventare lo slogan del movimento “per la libertà di circolazione degli esseri umaniâ€, ma anche extraterrestri che diffondo volantini ai semafori, uno spogliarello pubblico di protesta organizzato da Bifo per lanciare lo slogan dei “corpi non in venditaâ€. Bologna divenne anche il primo esperimento per la nascita di una nuova forma di comunicazione nel movimento: il mediattivismo. Così nacque il primo nucleo italiano della nascente Indymedia, che fu protagonista solo qualche mese prima a Seattle e che divenne determinante per documentare le mobilitazioni in città, e allo stesso modo venne promosso un “netstrikeâ€, un vero e proprio sciopero della rete.
Nella giornata conclusiva del vertice si succedettero diverse iniziative: il blocco delle vie d’accesso ai delegati, un corteo delle tute bianche (che fu caricato, con il risultato di un ragazzo contuso) e un corteo di tutto il movimento che sfilò vicino al palazzo in cui i delegati stavano discutendo. L’allora primo ministro D’Amato dichiarò: “Le preoccupazioni dei manifestanti sono anche le nostre preoccupazioniâ€. Migliaia di donne e uomini che sfilarono con il caschetto giallo da cantiere, a simboleggiare gli infortuni e le morti sui posti di lavoro, dimostrarono un impegno che andava ben oltre le semplici “preoccupazioniâ€. A questo punto il movimento cominciò a diventare un protagonista riconosciuto sulla scena pubblica, tanto da partecipare l’8 luglio al World Gay Pride, organizzato a Roma nell’anno del giubileo dal movimento gay, lesbico e transessuale, per ribadire il diritto a manifestare che le interferenze di un fronte trasversale sulla scena politica, del
Vaticano e di ampi settori dell’estrema destra volevano togliere. Nel frattempo un’altra vittoria a Brescia: un movimento antirazzista ampio e determinato, riuscì a instaurare ottimi rapporti con le locali comunità di migranti per condurre una serie di lotte che culmineranno con il permesso di soggiorno per molti di loro.
A settembre il Fondo Mondiale Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM) organizzarono un vertice a Praga. Il tema era l’allargamento ad Est e si temevano le solite ricette basate sulle privatizzazioni e sui piani di aggiustamento strutturali che hanno già portato sul lastrico diversi paesi del sud del mondo. Il 26 settembre si diede appuntamento l’intero movimento europeo, dalle ong al blocco anarchico, dalla campagna per la Riforma della Banca Mondiale e l’annullamento del debito, alle rivendicazioni sui diritti sociali e nel mondo del lavoro. Il presidente ceco Havel tentò un dialogo con i manifestanti invitandoli ai lavori, ma 11.000 poliziotti in assetto antisommossa, 5.000 soldati e diverse misure preventive di espulsione alla frontiera per molti manifestanti definiti “indesiderabiliâ€, resero chiara la strategia da portare avanti.
Il movimento assediò il vertice con tre blocchi: quello biancorosa pacifista e nonviolento, quello blu anarchico e antagonista e quello giallo delle tute bianche, dei centri sociali. Per tutta la giornata si fronteggiarono con blindati, idranti, lacrimogeni e gas al peperoncino. In alcuni casi gli scontri furono davvero violenti, con diversi feriti. Il vertice ufficiale finì un giorno prima del previsto.
A dicembre, il movimento si spostò a Nizza per il vertice europeo che doveva sancire una carta dei diritti. Fu probabilmente il momento più importante dell’anno, in cui le rivendicazioni del movimento riuscirono a trovare un terreno comune con il sindacalismo di base, le marce dei disoccupati e tutti quei percorsi che si sono attivati per contrapporsi all’Europa delle banche, della finanza e dei vincoli di bilancio di Maastricht. E il movimento accettò la sfida non per contrapporsi all’idea di Europa, ma a un processo costituente che produce regole di cittadinanza, diritti e doveri dall’alto. Per questo le tute bianche annunciarono uno striscione con un altro articolo 1: “Sono cittadini europei tutti coloro che, indipendentemente dalla loro origine, vivono e risiedono nei territori d’Europaâ€. Ma nelle giornate dal 7 al 10 dicembre la Francia sospese il trattato di Schengen ai propri confini per controllare meglio il flusso dei manifestanti, dimostrando nei fatti la volontà di dialogo con le ragioni che venivano portate. Il treno italiano fu bloccato a Ventimiglia, dove si verificarono scontri. Lo stesso avvenne a Nizza con alcune vetrine rotte e la città completamente assediata.
Gli inizi dell’anno porterono il World Economic Forum di Davos (dal 28 gennaio al 02 febbraio), un incontro annuale organizzato dalle dirigenze dell’alta finanza e dell’imprenditoria mondiale insieme ai capi di stato dei paesi più industrializzati in una rinomata località sciistica della svizzera. L’anno prima il vertice era stato contestato mentre stava discutendo del MAI (Accordo Multilaterale sugli Investimenti), in quest’anno oltre alle contestazioni locali venne organizzato un vero e proprio vertice a Porto Alegre, in Brasile (dal 1 al 2 febbraio), dall’altra parte del mondo, alternativo fin dal nome: World Social Forum, Forum Sociale Mondiale. La scelta della città nacque dalle interessanti sperimentazioni di democrazia locale che da tempo venivano portate avanti nella capitale dello stato del Rio Grande do Sul, e l’appuntamento si affermò come un’importante occasione di dialogo e confronto per tutto il movimento mondiale, per le reti sociali e le realtà del nord e del sud del pianeta che vogliono “un altro mondo possibileâ€. A Porto Alegre venne anche lanciata la scadenza mondiale del G8 a Genova, nel luglio successivo, e il cartello di realtà sociali che si incaricò di organizzare la contestazione prenderà il nome proprio da qui: Genoa Social Forum.
Ma prima, in Italia, ci fu tempo per un altro vertice, quello dal 17 al marzo a Napoli del Global Forum. Organizzato dall’OCSE, ebbe per tema l’utilizzo delle nuove tecnologie al servizio della governance degli stati, ovvero quelle politiche di introduzione e uso di sistemi tecnologici che permettono l’accesso del cittadino al funzionamento della pubblica amministrazione, ma anche controllo sociale, sicurezza, sorveglianza elettronica ecc. Per contestare il vertice nacque un cartello di realtà dietro la sigla No Global Forum che scelse per simbolo un pulcinella arrabbiato sullo sfondo del Vesuvio e che diede anche la possibilità alla stampa nazionale di trovare finalmente un’etichetta più spendibile per questo movimento “contro la globalizzazioneâ€: noglobal. Ma Napoli divenne importante anche perché si inaugurò il concetto di zona rossa, ovvero di una zona della città iperpresidiata, dove ogni forma di protesta fosse proibita, mentre per la prima volta, al Sud, 40.000 persone provenienti dalle realtà più diverse, e in massima parte giovani e giovanissimi, parteciparono a una manifestazione sostanzialmente autoconvocata.
La risposta delle forze dell’ordine fu piuttosto dura. Alle 13 del 17, il corteo che si era mosso da piazza Garibaldi venne caricato in piazza Municipio con pestaggi e lanci di lacrimogeni. Alla fine della giornata si contarono molti feriti soprattutto tra le persone travolte in zone della città dove non c’erano vie di fuga. Amnesty International aprì un’inchiesta su questo con un rapporto che non fu mai preso in considerazione dall’allora ministro degli interni ulivista Bianco, né ancora oggi il nostro paese ha riconosciuto la tortura un reato.
Un anno dopo, arriverono i primi provvedimenti di custodia cautelare per alcuni poliziotti, ma anche le testimonianze sulla caserma Raniero, dove diversi manifestanti furono portati dalle forze dell’ordine denunciando sevizie e torture. Questi fatti verranno tutti documenti in un libro bianco edito da Deriveapprodi con il titolo “Zona Rossaâ€. Il netto cambio di strategia delle forze dell’ordine sul diritto a manifestare divenne la premessa con la quale ci si preparò all’appuntamento di Genova a luglio. Il cambio di governo, con la vittoria del centrodestra alle politiche del 2001 e l’affermazione di Silvio Berlusconi, fecero pensare a molti che ci fosse una specie di gara tra le varie componenti delle forze dell’ordine a dimostrare quale tra esse fosse la più efficiente nel mantenere l’ordine pubblico all’avvio di una stagione dove le riforme annunciate erano la facile premessa di molte manifestazioni di piazza. Ma Genova-G8 fu anche il vertice internazionale deciso dal precedente governo al quale partecipò il nuovo presidente degli Usa Bush, che aveva appena inaugurato la nuova linea unilateralista della Casa Bianca, rifiutando la ratifica del trattato di Kyoto sull’emissione di gas serra e del trattato ABM (anti missili balistici). In compenso, la partecipazione annunciata di Bush jr. servì anche a convincere la Russia, invitata al summit, a non opporsi alle nuove strategie della Casa Bianca sullo scudo stellare. Ufficialmente, però, il vertice doveva occuparsi di sviluppo per i paesi del sud del mondo. Il Giubileo Cattolico era passato senza grossi passi avanti in direzione della cancellazione dei debiti che tengono soggiogata buona parte dei paesi cosiddetti “in via di sviluppo†e le richieste del movimento venivano portate avanti dal Genoa Social Forum con un documento al quale aderirono circa 800 sigle della società civile mondiale. Il governo fece anche alcuni tentativi di dialogo con il ministro degli esteri Renato Ruggiero, uno che i noglobal li conosceva bene per essere stato qualche tempo prima il segretario generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. In diverse riunioni di “dialogo†fatte tra governo e rappresentanti del movimento, Vittorio Agnoletto dichiarò di aver fatto tre richieste specifiche: l’impegno sostanziale del governo sul debito estero dei paesi poveri, l’opposizione italiana in seno al WTO contro le sanzioni al Brasile “reo†di non aver rispettato i brevetti sui farmaci anti-AIDS per fronteggiare l’emergenza sanitaria interna e la rimessa in discussione dell’adesione ai trattati che prevedono privatizzazioni dei beni pubblici, l’introduzione della Tobin Tax e di tutte le misure necessarie a frenare le speculazioni finanziarie. A tutte queste richieste il governo rispose “no†e a poco varrà il goffo tentativo, rispedito al mittente, di Renato Ruggierodi cooptare il cantante Manu Chao tra gli invitati al vertice in rappresentanza del movimento. I problemi, invece, furono evidenti fin da subito sugli incontri relativi ai problemi logistici e di ordine pubblico. Il Governo ribadì la divisione di Genova in una zona rossa, ovvero tutto il centro storico delimitato da grate altissime e una vigilanza strettissima, dove non era possibile entrare, e la zona gialla dove le manifestazioni dovevano essere autorizzate. La situazione sui treni, le autostrade e gli ingressi alla frontiera fu tesa fino all’ultimo, con un rimpallo di responsabilità tra le istituzioni locali, la prefettura e il governo, mentre sulla stampa nazionale cominciava subito la guerra delle illazioni basate su presunti rapporti dei servizi segreti: dai palloncini pieni di sangue infetto alla preparazione di imboscate ai danni di poliziotti da sequestrare, fino ala notizia di un grosso quantitativo di bare pronte per ogni evenienza.
Puntuali arrivarono anche i pacchi bomba. Uno scoppiò il 16 luglio alla caserma San Fruttuoso di Genova, un altro alla redazione del Tg4 ma anche al Centro Sociale Leoncavallo di Milano. Ma il programma del movimento andò avanti lo stesso con i public forum che si svolsero dal 16 al 18 luglio tra la palestra di via Battisti e Punta Vagno invitando diverse personalità: da Susan George a Walden Bello, da don Ciotti a Hebe de Bonafini, da Antonio Papisca a José Bové, da Giorgio Dal Fiume a Riccardo Petrella sui temi dell’altra economia, della militarizzazione, dell’ambiente, delle diversità culturali e di genere. Molti interventi furono pubblicati in “Le voci di Genova: idee e proposte dal movimento†(ed. Fandango, a cura di Radio Gap). Il 19 partì la prima manifestazione, quella dei migranti da piazza Carignano, in una città simbolo dei viaggi e dell’incontro fra culture. Il corteo si snodò colorato, tra balli, slogan, colori, bandiere, suoni, voci e facce diverse. Si parlò di 50.000 persone, un record per una manifestazione fatta con le comunità migranti così difficili da coinvolgere sulle manifestazioni pubbliche. In giro la città blindata, i container messi in mezzo alla strada e la polizia che in alcuni punti era molto defilata. La paura dei giorni precedenti sembrava essersi sciolta dietro le risate sul simbolo della contestazione: le mutande che il presidente Berlusconi aveva chiesto ai genovesi di non appendere per non urtare la sensibilità degli otto grandi della terra. Il 20 fu la giornata dell’assedio dietro lo slogan “Voi G8, noi 6.000.000.000â€. Le piazze tutte intorno alla zona rossa videro presenze “tematicheâ€. Piazza Manin fu quella dei pacifisti e nonviolenti. In piazza Dante ci furono Attac, Arci, Rifondazione. In piazza Montano i sindacalisti Cub, Sla-Cobas, e gruppi anarchici. In piazza Paolo da Novi Cobas, Network per i dirizzi globali, Socialist Workers e Globalize Resistance. In piazza Rossetti c’era Altragricoltura, un ponte per i Verdi. A Boccadasse si svolse una veglia di preghiera e allo stadio Carlini i disobbedienti con le tute bianche, la Rete Rage, la Rete Noglobal e i Giovani Comunisti. I primi disordini cominciarono già alle 11.30 con persone vestite di nero che cominciarono a spaccare pezzi si selciato, indisturbati, e prima di allontanarsi verso il mare attaccarono le forze dell’ordine, che reagirono caricando tutta la piazza. In piazza Manin coinvolsero negli scontri con la polizia anche il gruppo nonviolento che stava portando avanti con successo il blocco al varco del Portello. Il corteo dei Disobbedienti (autorizzato) lasciò lo stadio alle 14 e incontrò sulla strada le devastazioni fatte durante il mattino per poi essere caricato all’incrocio tra via Tolemaide e via Casaregis, nel varco più stretto per un corteo di 10.000 persone, aggredito da una quantità impressionante di lacrimogeni e che, indietreggiando in salita, rischia di schiacciare decine di persone. Dagli scontri che ne seguoirono prese avvio la sequenza di avvenimenti che portò poi all’uccisione di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, poco distante dal punto dove era avvenuta la prima carica. Gli scontri si moltiplicarono in molti altri punti della città per tutta la giornata. Il vice presidente Gianfranco Fini, insieme ad altri parlamentari di Alleanza Nazionale, era presente nella sala di coordinamento dei carabinieri. La versione ufficiale fu “per portare solidarietà all’armaâ€, una “solidarietà†che durò però più di otto ore. Emblematica anche la prima versione ufficiale delle forze dell’ordine: Giuliani è morto per un sasso lanciato da un manifestante. In serata, nel ritrovo di piazzale Kennedy si tennero le prime assemblee volanti: seduti sul selciato, le denunce, le voci sull’identità del morto in piazza, e una riunione che decise di confermare la manifestazione del giorno dopo chiedendo al G8 la sospensione dei lavori. Il 21 sfilò un corteo di 300.000 persone, nel clima teso del paese con tutte le televisioni a rilanciare immagini di scontri cruenti, nonostante defezioni importanti come quella del gruppo dirigente dei DS che annullò l’adesione. L’anno successivo, l’onorevole Violante, tornando in piazza Alimonda, ammise lo sbaglio. Ma il paese rispose lo stesso, con un corteo colorato, multietnico, pieno di facce e storie diverse che passò tra le strade di Genova accolto dai saluti di molti cittadini rimasti e dai secchi d’acqua invocati per temperare un’altra giornata di caldo intenso. A riproporre le stesse scene viste il giorno prima, però, provvidero ancora gruppi di persone vestite di nero che tentarono più volte di infiltrarsi, con le conseguenti cariche delle forze dell’ordine, che cominciarono dalle 15. Il corteo venne diviso tre volte e gruppi di persone inseguite fino sulla spiaggia. La sera, quando i manifestanti cominciarono a defluire verso i centri di accoglienza per tornare a casa, in via Cesare Battisti, intorno alle 23, la polizia irruppe nelle scuole Diaz-Pertini, massacrando con calci e manganelli tutti i presenti e occupando il media center e la sede del Legal Social Forum nel palazzo di fronte, distruggendo alcuni computer sui quali i legali avevano raccolto dati e denunce. Tutti gli arrestati furono accusati degli incidenti delle due giornate precedenti e di resistenza a pubblico ufficiale. Fuori dai cancelli, dove ai giornalisti e perfino ai deputati fu vietato l’ingresso, il portavoce della polizia Sgalla parlò di sangue dovuto alle ferite riportate nei due giorni precedenti. Dopo quasi due anni, tutti i 93 occupanti della Diaz furono prosciolti, il poliziotto Nocera - che aveva accusato di essere stato aggredito con un coltello dentro la Diaz - indagato per false dichiarazioni, e si aspetta l’esito delle indagini sui poliziotti dopo mesi travagliati nei quali si è cercato anche di spostare il processo da Genova. La vicenda è stata raccontata da Lorenzo Guadagnucci in un libro testimonianza “Noi della Diaz†(ed. Altreconomia) e nel successivo “Distratti libertà. Napoli, Genova, Cosenza, Milano. E se accadesse di nuovo?†(ed. Altreconomia) che racconta gli sviluppi e li inquadra nel contesto di molte altre vicende successe dopo nel paese. Nel paese, il dibattito successivo fu molto teso e venne istituita una commissione parlamentare d’indagine che a settembre produsse tre relazioni. Molti altri fatti emersero più tardi, come per esempio per quanto riguarda Bolzaneto. Per diverse settimane dopo il G8, decine di persone risultarono disperse. Ma diversi elementi continuano a non essere del tutto chiari su quelle giornate, e sono stati raccolti in due pubblicazioni “Il Libro Bianco†(che fu venduto insieme a Carta, Liberazione, Manifesto ed Unità) e “Genova nome per nome†di Carlo Gubitosa (ed. Altreconomia), entrambi con cd di documenti audio e video. Più volte è arrivata la richiesta di una commissione di inchiesta parlamentare da parte del comitato “Verità e Giustizia†e una rappresentazione teatrale itinerante è stata messa in piedi dal Comitato “Piazza Carlo Giuliani†per raccontare quello che il gup Elena Daloiso, su richiesta del pm Silvio Franz, ha impedito di dibattere archiviando le accuse contro il carabiniere Mario Placanica.
Ma ancora oggi Genova è diventato un luogo di memoria viva per una parte importante del paese, che torna a darsi appuntamento lì ogni anno, e che in decine di città ha dato luogo a dibattiti, proiezioni, incontri, mostre su questo, alimentando la speranza migliore di chiudere con Genova quel capitolo di storia che negli ultimi quarant’anni ha segnato con tragici lutti e bugie la democrazia nel nostro paese. Uno dei tanti motivi che ha spinto milioni di persone successivamente a difendere diritti, democrazia e pace nelle tante manifestazioni che sono venute dopo.
Info: http://www.piazzacarlogiuliani.org
http://www.veritagiustizia.it

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LA STORIA DELL’INFAMIA


Comincia con quella dichiarazione al Tg3 l’odissea di Marco, infermiere penitenziario in servizio a Bolzaneto durante il G8. Marco decide di cominciare a raccontare cosa davvero è successo nella caserma genovese, squarciando il buio su dei fatti che non potevano essere documentati o filmati.
Durante i mesi precedenti al G8, i media parlano molto delle manifestazioni e del vertice. La città di Genova viene riempita di cantieri per ripulirla e abbellirla. Intorno alla zona rossa, centinaia di blocchi di cemento “New Jersey†formano una cintura, isolando una parte della città e rendendo “prigionieri†i suoi abitanti: solo i residenti possono attraversare la zona rossa e solo dopo molti controlli. Il presidente Berlusconi e il ministro dell’interno Scajola, invitano i cittadini a lasciare Genova, durante i giorni del vertice. Anche all’interno delle forze dell’ordine c’è un certo movimento: reparti speciali vengono addestrati appositamente per quello che sarà uno dei maggiori spiegamenti di forze di polizia (circa 18.000 uomini) della storia repubblicana. Vengono ristrutturate le caserme di Pontedecimo, San Giuliano e Bolzaneto in previsione di un numero altissimo di arrestati, mentre centinaia di bare di plastica sono rese disponibili per fare fronte a un uguale numero di morti.
Le caserme adibite alla detenzione sono a San Giuliano e a Bolzaneto. Da queste caserme, moltissimi manifestanti fermati escono dopo avere subito, fisicamente e psicologicamente, innumerevoli violenze. Già poche ore dopo, i fermi non vengono convalidati e pochissimi degli arrestati verranno accusati formalmente di alcunché.
A Bolzaneto, Marco Poggi ha lavorato, durante quei giorni, come infermiere. Solo Marco e Ivano Pratissoli hanno deciso di raccontare quello che hanno visto. Forse qualche poliziotto, che avrebbe scelto di dare testimonianza anonima, ha seguito la stessa scelta. Oltre queste pochissime persone, il buio. Tutti gli altri che hanno lavorato all’interno della caserma, poliziotti, medici e infermieri, affermano di non aver visto nulla.
Nell’estrema visibilità mediatica che ha caratterizzato il G8 di Genova, infatti, le torture nelle caserme rappresentano un tratto oscuro. Grazie alla auto-organizzazione di centinaia di mediattivisti armati di telecamerina digitale, tutti hanno potuto farsi un’idea di ciò che è accaduto per le strade di Genova. Un movimento composto da un reticolo di individui, radio libere, televisioni di strada, siti di controinformazione, che già da qualche anno stava diventando protagonista della scena mondiale, ha ribaltato il flusso della comunicazione sui centri di potere globali, dimostrando che la potenza di mille immagini può essere un argine contro la menzogna e il monopolio. Durante la fine di luglio 2001, i media hanno acceso i riflettori sulla contestazione anti-globalista, svelato mistificazioni e responsabilità. Molto sappiamo su ciò che è stato fatto in piazza, ma non esiste alcun filmato, nessuna foto sulle ben più assurde violenze perpetrate ai danni degli arrestati nel chiuso delle caserme. Fatti che sono diventati quasi subito di dominio pubblico, ma che correvano il rischio di sembrare, nella loro gravità, fin troppo esagerati, frutto di una versione di parte. Necessitavano di un riscontro dall’interno. Qui la storia di Marco Poggi e di Ivano Pratissoli s’inserisce per portare chiarezza e un giorno, si spera, anche un po’ di giustizia e verità.
Questi fatti hanno lasciato qualcosa di molto più profondo di una ferita sul corpo di uomini e donne: il ricordo e il terrore lasciano un segno indelebile. Non è semplicemente il fatto di aver subito un’ ingiustizia: è il terrore di essere in balia di un potere arbitrario. Tante versioni possono essere accettabili su alcuni degli scontri avvenuti per le strade di Genova in quelle calde giornate estive, ma non si possono trovare scuse quando le violenze vengono fatte su decine di individui arrestati e custoditi in una cella. Incredibile, in questa storia, è che solo due persone, fra le decine che dall’interno hanno osservato immobili le violenze, abbiano deciso di raccontare. Ogni cosa è stata rovesciata e se, da un lato, Marco viene candidato per ottenere una medaglia al valor civile proprio per il coraggio e il senso civico dimostrato con la sua testimonianza, dall’altro si ritrova senza lavoro.
Dal giorno di quella intervista al Tg3 Marco Poggi è un traditore, un infame. Le luci della televisione, le interviste ai giornali: questo gli rimproverano. Nessuno può più garantire la sua sicurezza all’interno di un penitenziario, ma nessuno può confutare i fatti che lui racconta. All’interno del carcere aveva discusso parecchio prima di decidere di testimoniare ma la sua colpa sarebbe stata quella di parlarne “là fuoriâ€. Ha “tradito†i colleghi.
Dopo un po’ anche le luci della televisione si spengono, il sipario si chiude e a restare sono solo i rimorsi, il lavoro perso e un assordante silenzio. Il silenzio di quei ragazzi “che mi vedevano come un aguzzino in mezzo agli altriâ€...


LE GIORNATE DI BOLZANETO


La mia esperienza di lavoro a Genova-Bolzaneto dura da martedì 17 alle ore 8.00 a domenica 22 alle 16.00.
Nel mese di giugno del 2001, un giorno mi trovavo al telefono con una funzionaria del dipartimento penitenziario e parlavo con lei di questioni sindacali, quando venni a sapere che stava cercando infermieri da mandare a Genova. “Cosa ci vanno a fare gli infermieri al G8?†chiesi, e lei mi rispose che stavano allestendo due siti penitenziari provvisori. Mi proposi di occuparmi della ricerca degli infermieri e il giorno dopo cominciai a rintracciare gli iscritti al mio sindacato (Marco
Poggi dal 1998 è coordinatore del Sindacato autonomo degli infermieri penitenziari - S.A.I. ndc). Feci una lista di nove infermieri, ma diversi furono scartati perché venivano da lontano e il rimborso spese per il viaggio sarebbe stato troppo alto.
Alla fine partimmo in tre: io da Bologna, Ivano Pratissoli da Reggio Emilia e Luca Mancini da Velletri. L’indomani ci raggiunse in macchina il dottor Pasquale Paolillo, il dirigente sanitario del carcere di Bologna.
Il nostro era un incarico assegnato per decreto, ben pagato, non ci pensammo due volte ad accettarlo.
Arrivammo a Genova-Pontedecimo lunedì sera, 17 luglio.
Lì erano stati preparati i nostri alloggi: una confortevole camerata con sei lettini all’interno della caserma appena ristrutturata. Pontedecimo dista circa dieci chilometri da Bolzaneto, pochi minuti di macchina, che noi avremmo dovuto coprire ogni giorno.
La mattina alle 8, ora della riunione e dell’inizio delle nostre attività, ci accolse il dottor Giacomo Toccafondi, che sarebbe stato il responsabile dell’infermeria e del servizio sanitario a Bolzaneto. Capimmo che si trattava di un individuo piuttosto esuberante: si presentò raccontandoci delle sue esperienze negli ospedali militari in Bosnia e ci descrisse i “trofei†di guerra che aveva riportato a casa per ricordo, soprattutto oggetti personali dei prigionieri: magliette e cappellini. Alcune di queste macabre “reliquieâ€, ci disse un medico che lavorava con lui, erano conservate in una vetrinetta del suo ufficio a Pontedecimo.
Mi fu subito chiaro che qualcosa non andava: Toccafondi vestiva una tuta mimetica, anfibi e maglietta della polizia. E guanti neri imbottiti. Quei guanti che tutti, nelle interviste e nelle deposizioni al tribunale, affermano che non ci sono mai stati: io ne ho indossato uno quella mattina, per curiosità.
Toccafondi dichiarerà, in seguito, di aver indossato la mimetica solo dopo aver ricevuto uno spintone da un agente che non lo aveva riconosciuto, ma noi sappiamo che non c’era alcun pericolo di essere confusi con i detenuti: durante i cinque giorni di servizio, io ho sempre portato abiti civili, faceva troppo caldo anche per tenere il camice. Ho provato a indossarlo, ma me lo sono tolto quasi subito.
Questo episodio è importante perché, se anche fosse vero ciò che ha dichiarato il medico, non farebbe che confermare lo stato di disordine e violenza che regnava nella caserma. Non ho mai visto, in trent’anni che faccio questo mestiere, un medico indossare la mimetica in una caserma.
Nel frattempo, Toccafondi ci distribuiva del materiale informativo su eventuali attacchi con armi chimiche.
Dopo quella riunione il dottor Paolillo, che era partito con noi da Bologna, decise di tornare a casa. “Un problema di soldiâ€, ci disse, ma mi sembrò strano che un dirigente sanitario del carcere di Bologna fosse arrivato a Genova senza sapere quale fosse l’accordo economico. Non si affronta un viaggio per poi, solo dopo il primo giorno, accorgersi di non guadagnare abbastanza. Penso, piuttosto, che avesse capito quale sarebbe stata la gestione dell’infermeria.
E scelse di rifiutare l’incarico.


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Nei giorni precedenti al G8 di Genova, informative dei servizi segreti anticipano il pericolo di possibili attentati terroristici. Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, arriva scortato da una portaerei americana e, per tutta la durata del vertice, vengono prese numerose precauzioni eccezionali:
- lo spazio aereo viene interdetto a qualsiasi velivolo non autorizzato;
- vengono allestite postazioni di missili terra-aria e viene deciso l’uso di armi da fuoco, durante le manifestazioni, mentre si accantona la proposta di usare proiettili di gomma;
- vengono fatti affluire mezzi blindati e cingolati del battaglione Tuscania, reparti a cavallo, polizia scientifica, servizi segreti, unità cinofile e agenti in borghese;
- viene sospesa la convenzione di Shengen, che prevede la libera circolazione di uomini e merci all’interno della
UE, dalla mezzanotte del 13 luglio alla mezzanotte del
21 luglio 2001. Numerose persone rimangono bloccate alle frontiere;
- Genova viene divisa in diversi settori. Viene recintata una “zona rossa†all’interno della quale nessun cittadino è libero di spostarsi. Molti i disagi anche per gli stessi residenti.

(Diario, 16 novembre 2003)

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Noi, invece, al termine della riunione siamo stati accompagnati con un blindato all’ambulatorio di Bolzaneto, dove tutto era ancora da sistemare.
L’infermeria era grande circa trenta metri quadri, all’interno 27 dei quali avevamo una scrivania, tre box divisi da paraventi, ognuno dotato di un lettino, una bombola per l’ossigeno, uno sfigmomanometro e un fonendoscopio. Appena entrati, sulla sinistra, c’era un piccolo spazio dove la Polizia Penitenziaria svolgeva le perquisizioni.
Ci mettemmo subito al lavoro: montammo i lettini, notammo che i ferri chirurgici non sarebbero stati sufficienti nel caso in cui si fossero dovute fare parecchie suture, e pareva che i medici si aspettassero proprio di doverne fare parecchie. Ne ordinammo di nuovi e il pomeriggio stesso arrivarono circa una ventina di ferri composti da pinze anatomiche, porta aghi e forbici: tutto nuovo di zecca.
A quel punto, riordinato l’ambulatorio e resolo operativo, cominciammo a organizzare i turni di lavoro. In tutto, noi infermieri eravamo in sei: quattro uomini e due donne. A ogni turno di dodici ore, ci sarebbero sempre dovuti essere due medici e due infermieri, oltre al dottor Toccafondi, che non avrebbe quasi mai lasciato il servizio. I turni sarebbero stati dalle 8 alle 20 e il giorno dopo dalle 20 alle 8, alternando un turno di riposo e un turno di lavoro.
La prima notte toccò a me e Ivano, insieme ai dottori Amenta e Mazzoleni. Era martedì, ancora non c’era niente da fare, così io e Ivano cominciammo a fare un giro per la caserma chiacchierando di questioni riguardanti il carcere. Parlavamo di come il nostro lavoro stesse diventando sempre più duro.
Insomma, le tipiche discussioni che due sindacalisti come noi potevano fare in un momento come quello.
Camminando e discutendo, ci allontanammo dall’infermeria facendo una lunga passeggiata. Ogni tanto davamo un’occhiata in giro, come si fa normalmente in un luogo visto per la prima volta.


La caserma di Bolzaneto


Bolzaneto era una tipica caserma militare: si entrava e alla destra c’era il “bloccoâ€, come in gergo viene chiamata la portineria. Andando avanti, a sinistra, si vedeva una palazzina recentemente ristrutturata dove era stata allestita una mensa molto ben organizzata: si mangiava bene e si spendeva pochissimo. Un po’ staccata, qualche decina di metri sulla destra, si estendeva l’area del sito penitenziario provvisorio: una costruzione rettangolare, un capannone prima adibito a palestra, all’interno della quale si svolgevano tutte le funzioni di detenzione e di servizio sanitario. A fianco, un’altra palazzina uguale alla prima conteneva un sito per l’identificazione dei fermati e degli arrestati, gestito dalla
Polizia di Stato, organizzato con alcune postazioni per l’identificazione e la schedatura delle persone, dotate di nuovissime attrezzature per scattare le foto e rilevare le impronte digitali.
A me capitava spesso di andare alla matricola per fare le fotocopie delle cartelle cliniche per i referti medici e lì non ho mai visto violenze, durante le mie brevi visite.
Nel retro, un altro prefabbricato fungeva da magazzino. Un giorno ci sono entrato per cercare delle chiavi per fissare i bulloni dei lettini e ho visto che c’erano un mucchio di scudi e manganelli: era tutta roba vecchia. Non lontano, di fronte a queste due palazzine c’era uno spiazzo occupato da un campo da tennis, mentre il resto era stato adibito a parco macchine. Poi la strada si allontanava per altri 400 metri, verso i dormitori per gli agenti. La stessa sera, passeggiando con Ivano, stavo avvicinandomi da quelle parti quando sono stato, cortesemente, avvisato che tutta la zona era off limits.
Quando descriviamo Bolzaneto, parliamo di distanze piuttosto grandi, anche se, di fatto, noi eravamo liberi di muoverci solo dallo spaccio al penitenziario - circa cinquanta metri - e poi fino all’uscita.
Il sito penitenziario provvisorio era stato appena ristrutturato. Saliti cinque gradini, si entrava in un atrio al quale seguiva un lungo corridoio che dava accesso a numerose stanze, sia sulla destra sia sulla sinistra. I primi uffici erano occupati dalla polizia, c’era quello della Squadra Mobile, della Digos.
Dopo seguivano due bagni, quello a sinistra aveva le docce di decontaminazione, dove in caso di guerra chimica avremmo dovuto disinfettarci gli arrestati. Di fronte c’era l’altro bagno con i water senza porte.
Andando avanti, c’erano due stanzoni di disimpegno per noi e per gli agenti, con il televisore, dove ogni tanto andavamo a riposarci per qualche minuto. poi iniziava serie dei gabbioni all’interno dei quali venivano rinchiusi i detenuti.
Erano otto, di cui uno sarebbe poi stato riempito con gli oggetti sequestrati ai manifestanti. Ogni gabbione, grande circa sei metri per sei, aveva delle enormi finestre chiuse con sbarre di ferro. Era impossibile, passando per il corridoio, non vedere quello che succedeva all’interno. Io, dentro questo edificio avevo completa libertà di movimento. Mi capitò spesso di attraversare il corridoio: mi chiamavano per medicare qualche nuovo arrivato o per trasportare bendaggi e attrezzature, anche se la maggior parte del tempo lo passai in infermeria.
Il nostro compito, come nelle carceri, era quello di assicurare che tutti, all’interno di Bolzaneto, avessero un’adeguata assistenza sanitaria. Formalmente, avevamo il compito di collaborare con il medico durante le visite dei detenuti per i quali era stato confermato l’arresto; avremmo dovuto medicare gli arrestati ed eventualmente mandare in ospedale i casi più seri. C’erano anche da espletare le pratiche burocratiche, documenti da compilare, fotocopie di certificati e cartelle cliniche.
Normalmente, in carcere ci sono due moduli distinti, il 99 sul quale va segnalata tutta la vita sanitaria del detenuto con anamnesi remota e recente, le eventuali malattie o ricoveri ospedalieri avuti; e un secondo modulo, di recente istituzione, nel quale segnalare le eventuali lesioni riportate dal detenuto al momento del suo ingresso in carcere e chiarire i motivi di queste eventuali ferite; si sarebbe dovuto chiedere, in pratica, se le ferite fossero dovute a incidenti fortuiti o prodotte da percosse. Alla fine, un medico avrebbe dovuto confermare o smentire la compatibilità della versione del detenuto.
Per quanto riguarda l’espletamento delle pratiche burocratiche delle visite di primo ingresso, è necessario anticipare una cosa: non credo che i referti medici siano stati regolari.
A Bolzaneto questi moduli non c’erano, nessuno dei due.
Venivano solo segnalate le eventuali lesioni che il paziente aveva, senza che ne fosse specificata la causa e, soprattutto, non veniva fatta un’anamnesi né remota né recente.
Molto sbrigativamente, questi dati venivano scritti direttamente sulla cartella clinica, che poi veniva fotocopiata.
Molti non sono stati registrati in infermeria, non saprei spiegare il perché. Credo solo che sia stata una dimenticanza, una grave dimenticanza. In realtà, non appena iniziò “l’infernoâ€, non facevamo che correre avanti e indietro per cercare di dare aiuto a chi potevamo, sono saltate tante formalità e in quel momento nessuno si accorgeva di quanto sarebbero stato utili. Si sarebbero potute ricostruire le vicende di molti dei manifestanti passati per Bolzaneto e sarebbe stato più facile l’accertamento delle percosse e degli abusi, di quelli avvenuti fuori e dentro la caserma.
In un penitenziario gli stati di insofferenza, shock e patologia sono frequenti: è il carcere stesso a produrli. Chi viene privato della libertà, costretto a stare in un ambiente chiuso, subisce contraccolpi psicologici e fisici che scatenano immediatamente delle patologie.
Generalmente, in carcere dovrebbe anche esserci uno psichiatra o uno psicologo, per dare un parere sullo stato psicologico del detenuto.
A Genova non ci fu mai una figura che prestasse cure per questo genere di esigenze, proprio perché questo obbligo non scatta immediatamente, ma dopo le ventiquattro ore dall’entrata in carcere. È per questo, purtroppo, che a Bolzaneto non fu data assistenza psicologica.
L’imponente spiegamento di forze militari fu giustificato con il rischio di attentati. Furono piazzate delle batterie di missili antiaerei, i sommozzatori e le portaerei nel golfo di Genova e, mesi dopo, il ministro dell’interno Scajola giustificò il suo operato citando informative dei servizi segreti a riguardo. All’interno delle caserme si parlava di possibili attacchi terroristici?
Dall’altra parte, il GSF e molti altri hanno sostenuto che il piano repressivo da parte delle forze dell’ordine fosse già preparato da tempo. Che cosa successe nei vostri primi giorni di servizio? C’era qualcosa che avrebbe potuto far presagire ciò che stava per succedere? Quali voci circolavano all’interno?
I primi giorni tutto era fermo, non c’era quasi nulla da fare e spesso stavo a guardare gli agenti che si esercitavano simulando le cariche, qualcuno si è anche ferito e Ivano ha dovuto medicarlo. Tutto quasi normale, eravamo in una caserma! Spesso si pensa a Bolzaneto come a un lager. Questo non è esatto anche se non mancarono episodi che dovevano far riflettere. Fino a quel momento avevamo notato molte piccole stranezze, dall’atteggiamento del medico a quello degli agenti, ma niente che potesse far presagire quello che sarebbe cominciato di lì a poco.
Non posso dire che ci fosse qualcosa di già pianificato sarei disonesto perché io non ho le prove per dirlo - però, conoscendo il carcere, posso immaginare che abbiano creduto di essere impunibili. È chiaro: essendo proprio loro quelli deputati alla sorveglianza, potevano contare sull’auto-assoluzione, sulla copertura corporativa. Nel momento in cui tutto è iniziato, si sono contagiati e rassicurati l’un l’altro; gli sguardi, i sorrisi o anche soltanto un mancato rimprovero avrebbero dato agli agenti violenti un messaggio chiaro di solidarietà e protezione. Ho incontrato, in seguito, a Bologna, alcuni agenti che mi hanno detto: “Bisognava educarli!†“Educarli a cosa?â€, mi sono spesso chiesto senza mai trovare alcuna risposta plausibile.
Non tutti hanno usato violenza, alcuni (due o tre) hanno compiuto gesti isolati di sdegno verso i colleghi, ma la maggior parte ha coperto gli abusi.
Certamente, nessuno ha fatto niente per fermarli; tutti i capi erano lì e avrebbero potuto fermare e contenere i loro sottoposti in qualsiasi momento.
La questione degli attentati non fu mai presa veramente sul serio o almeno questa fu la mia impressione. Bisogna ricordare che eravamo ancora lontani dall’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle. Circolava del materiale informativo sulle armi chimiche, avevano anche predisposto un’area di decontaminazione e c’era, in infermeria, un numero spropositato di mascherine per l’erogazione dell’ossigeno, credo qualche centinaio. Noi pensavamo che la situazione fosse un po’ comica, sembrava più un’esaltazione individuale che un pericolo reale.
Fino al 18 luglio non ci fu niente da fare, eravamo anche un po’ annoiati. Arrivò solo qualcuno che era stato notato nelle vicinanze, forse gente che non aveva nemmeno a che fare col G8 e che, infatti, venne rilasciata subito dopo l’identificazione. Durante il mio turno, - non ricordo bene a che ora, ero in servizio dalle 8 alle 20 - passò in visita un generale della polizia e mi ricordo che il medico disse: “Quando il generale visita le truppe siamo vicini all’attacco!â€. Toccafondi amava usare questo gergo militare e non lesinava occasioni per dimostrarcelo.
A volte sentivo gli agenti riparlare dei manifestanti. Non capivano le loro ragioni. Per loro il fatto stesso di scendere in piazza per manifestare rappresentava quasi un reato. Scherzavano dicendo che non ne sarebbe arrivato nessuno in caserma perché li avrebbero tutti massacrati per strada. In effetti, i primi giorni tutto rimase tranquillo, ma poi gli arresti ci furono. E furono tanti, più di quanti nessuno si aspettasse.
Gli agenti commentavano il merito delle manifestazioni anti-globaliste? Esprimevano una loro opinione riguardo ai grandi temi come la divisione della ricchezza fra mondo ricco e mondo povero? Hai mai sentito dire loro che manifestare fosse un segno di democrazia, che tutta quella gente potesse avere una qualche legittimità a manifestare il proprio pensiero?
Sentivo spesso dire fra di loro: “Perché vanno in piazza? Chi glielo ha detto di andare in piazza? Perché non stavano a casa? Se fossero rimasti a casa loro non sarebbe successo niente…†e via dicendo.
Durante quei giorni, centinaia di migliaia di persone esprimevano la loro visione di un mondo diverso, manifestavano contro le enormi disparità che si sono create fra paesi ricchi e paesi poveri e anche contro le stesse enormi disuguaglianza esistenti all’interno delle società occidentali.
Secondo me, neanche se la gente fosse scesa in piazza per i motivi opposti, neanche se qualcuno avesse manifestato per difendere i privilegi del mondo ricco, loro sarebbero stati d’accordo. Non lo concepiscono proprio, il fatto che si possa democraticamente manifestare un’opposizione o un disagio.
Io credo, invece, che chiunque debba poter dire: “Il governo non mi piaceâ€, “La globalizzazione non mi piaceâ€, o gridare contro qualsiasi altro tipo di istituzione.
Certo, se tu vai in piazza e poi, visto che sei lì, butti giù un
Bancomat perché è di una multinazionale, allora non va bene. Io non ci starò mai a questo gioco.
E poi…andiamo! Lo abbiamo visto tutti: certamente ci furono anche centinaia di devastatori, ma la maggior parte erano ragazzi pacifici. Che ballavano, suonavano! Colorati…
Vediamo solo quello che vogliamo vedere. È per questo che difendo la polizia penitenziaria. Perché non sono tutti così. È per questo che dobbiamo parlarci molto di più, raccontare e spiegare queste cose. Perché se ci conoscessimo un po’ di più potremmo imparare a capire le ragioni degli altri.
Il giovedì ci fu la manifestazione dei migranti che, anche dal punto di vista dell’ordine pubblico, andò molto bene e qualcuno ci rimase quasi male per il fatto che non fosse successo nulla.
Il venerdì, io e Pratissoli saremmo dovuti entrare in servizio alle 20.00.
Prima ancora che noi prendessimo servizio, cominciarono ad arrivare le prime notizie sui casini scoppiati in piazza.
Noi eravamo nell’alloggio di Genova-Pontedecimo dove, con gli altri colleghi fuori servizio, passavamo qualche ora in una sala di sosta attrezzata con bevande e televisore.
Quando scendemmo dal primo piano, dove c’era la nostra stanza da letto, già una decina di altri colleghi stavano intorno alla tv.
Sia noi che qualche agente passammo alcune ore a guardare i primi servizi che venivano messi in onda sulla manifestazione. Seguivamo Primo Canale di Genova, una rete privata commerciale che durante quei giorni fece informazione in modo puntuale e onesto. Guardammo tutti insieme le prime immagini degli scontri e, fra di noi, si sparse la notizia che un carabiniere fosse stato ferito. Questo ci turbò molto, anche perché la notizia ebbe un seguito all’interno del nostro ambiente.
Durante quei raduni davanti al televisore, parlavo spesso. Lo dicevo anche agli agenti: ero solidale con quei ragazzi, sarei sceso in piazza con loro, ma non potevo tollerare quelli che devastavano, incendiavano macchine (che, ad andar bene, appartenevano a un operaio). Quello non riuscivo a capirlo.
Per alcune ore restammo lì, vicino al televisore, cercando di capire cosa stesse succedendo.
Più tardi arrivarono le immagini della morte di Carlo Giuliani (dopo le 17); seguimmo la notizia quasi in diretta. La tv mostrò anche la disgustosa scena nella quale un poliziotto inseguiva un manifestante urlando: “Sei stato tu a ucciderlo, sei stato tu, col tuo sassoâ€. Quello è stato uno degli episodi che ha continuato a rimanermi impresso per parecchi mesi, soprattutto dopo avere saputo come fosse realmente andato l’episodio della morte di Giuliani.
Si cominciava a respirare un’aria pesante. Come non pensare al desiderio di vendetta che serpeggiava fra gli agenti?!
Qualche ora più tardi eravamo al lavoro, a Bolzaneto.
Incrociai un maresciallo dei carabinieri e chiesi notizie del carabiniere ferito. La sua risposta mi gelò: “È morto!â€, mi disse. Per diverse ore continuai a credere che un carabiniere fosse morto veramente.
Perché mai avrei dovuto dubitare di una cosa detta da un maresciallo dei carabinieri? D’altronde credo che anche lui ne fosse convinto. Nel silenzio, cominciò a salire la tensione. Ivano disse: “Non vorrei essere nei panni del primo che arrestanoâ€.
Nel frattempo erano scattati i fermi, gli arresti e cominciò la processione dalle strade verso le “gabbie†e le caserme.
I primi ad arrivare a Bolzaneto furono un ragazzino e una giornalista che credo fosse francese. Il ragazzo lo vidi già nel cortile: era ammanettato dentro la pantera e un poliziotto cercava di picchiarlo dando manganellate con una furia cieca. Nel frattempo, il ragazzino si era spostato dal posto laterale verso il centro della vettura e l’agente riusciva a colpire solo la portiera: non gli bastava per sfogare la sua rabbia.
Una scena comica, pur nella sua tragicità. Poi uscì un altro poliziotto in borghese, visibilmente arrabbiato per il comportamento del collega. I poliziotti non è che fossero tutti dei violenti. La polizia non ha fatto solo delle porcate. Per correttezza d’informazione, bisogna raccontare anche le cose normali che ci sono state.
Poi entrambi arrivarono in infermeria e per un po’ furono costretti a stare nella posizione del cigno. La posizione del “cignoâ€, come si dice in gergo, consisteva nel rimanere in piedi contro il muro, con le mani appoggiate in alto, la testa appoggiata anch’essa contro il muro e le gambe divaricate.
Durante queste attese vige l’assoluto divieto di muoversi o parlare.
Di norma le perquisizioni non si sarebbero dovute tenere in infermeria, in carcere naturalmente questo non avviene, ma per motivi di spazio e di tempo i detenuti venivano spogliati, visitati e perquisiti in successione. È questo uno dei motivi, casuale, per cui tante violenze sono state consumate proprio sotto gli occhi del personale sanitario. Abbiamo visto parecchi ragazzi e ragazze denudarsi, ma questo è normale durante le perquisizioni e le visite. È umiliante, soprattutto in occasioni come quella, ma mi risulta essere legittimo. In quindici anni di lavoro in carcere ho visto centinaia di ragazze denudarsi. Forse, in mezzo a tutte le altre, questa è stata una delle cose legali avvenute in quei giorni.
Dopo un po’, andai nel gabbione a vedere come stava la donna: non dimenticherò mai i suoi occhi dentro i miei. Eppure, avendo lavorato in galera a contatto con assassini e stupratori, pensavo di avere una sorta di corazza che mi proteggesse dal coinvolgimento con le sofferenze dei detenuti.
Non quella volta. I suoi occhi, lì, non li dimenticherò mai.
Al ragazzo, minorenne, ordinarono di fare le flessioni. Non era una cosa strana: il regolamento lo prevede come completamento alla perquisizione, per accertarsi che l’arrestato non abbia nascosto oggetti proibiti. Il detenuto doveva spogliarsi nudo e poi flettersi sulle ginocchia, col tronco eretto - non la tipica flessione da marine - così, se avesse avuto qualcosa nell’ampolla rettale, lo avrebbe fatto venire fuori. Il dramma fu che il ragazzino era talmente impaurito da non riuscire a farle, quelle maledette flessioni, forse non riusciva a capire neanche cosa gli stessero chiedendo. E continuò a tremare senza emettere alcun grido, anche mentre un agente lo prendeva a calci e pugni. Dopo oltre due anni, ho ancora nelle orecchie quel rumore dei pugni nelle reni. Stava a terra, in silenzio, con una grandissima dignità ma anche senza fiato per il dolore.
Là sono stati annientati come individui: dare delle botte nei reni a un ragazzino di 17 anni, che per legge non dovrebbe neanche essere là, è una tortura.
Dare un cazzotto nei reni perché non sa fare le flessioni?!
Quello non è un detenuto incallito, uno che sa gia tutto, è solo un ragazzo spaventato.
Qualche ora dopo, cominciò l’infinita processione dalle piazze alle caserme. La maggior parte dei manifestanti era “fermata†in base a generici elementi di sospetto, il loro era uno stato di “fermoâ€. Pochi furono gli arrestati, quelli che ricevettero formalmente la notifica di un capo di accusa.
La sostanza fu che, dalle strade di Genova, arrivarono in tanti, con un ritmo e una quantità incredibile. E non smisero di arrivare almeno fino alla domenica pomeriggio.
Ad accoglierli c’erano i poliziotti che li aspettavano all’ingresso, formando il famoso “corridoioâ€. Quando scendevano dalla macchina, i detenuti avevano circa otto metri da percorrere tra due file di agenti che manganellavano. Durante il passaggio verso i gabbioni, sputi, calcetti e insulti non venivano risparmiati. Arrivati ai cinque scalini, queste persone perché erano delle persone normalissime e non dei black block (e, se anche lo fossero stati, in quel momento erano inoffensivi, quindi andavano trattati come gli altri, su questo non transigo) -, venivano portati di fronte al medico che li visitava e sentenziava: “Abile e arruolatoâ€.
In pratica il medico, dopo una guardata veloce, doveva stabilire se il detenuto fosse in buone condizioni (quindi abile e arruolato) e potesse andare dentro al gabbione oppure dovesse essere inviato temporaneamente in infermeria. In realtà, anche se qualcuno avesse avuto delle ferite, una volta che lui aveva detto “abile e arruolato†era inutile protestare e si doveva fare il cigno, per il tempo che stabilivano loro: poteva essere un paio d’ore come anche molte di più. La motivazione di quell’attesa non veniva mai spiegata ai ragazzi, talmente era banale. Avrebbe dovuto durare solo il tempo necessario all’identificazione alla matricola.
Possono dire quello che vogliono: quei ragazzi sono stati ore in piedi! Se chiedevi a un agente della penitenziaria il motivo di quelle estenuanti attese, ti rispondeva: “Sono lenti, quelli della Polizia di Statoâ€.
Poi, invece, nei gabbioni avvenivano le violenze vere.
Questa piccola, ma devastante, parte della polizia poté dare sfogo alla propria rabbia e vendicare il carabiniere che, da grave, sarebbe poi morto. Tutto si giustificava anche per questa vendetta.
Una vendetta che, fondata sulla menzogna (nessun carabiniere era morto e nessuno ferito gravemente), alimentava il clima di odio e di arroganza.
Quali erano esattamente i passaggi che venivano seguiti appena qualcuno veniva portato a Bolzaneto? Sappiamo che praticamente tutti i corpi delle forze dell’ordine e di polizia erano presenti nel penitenziario provvisorio, ma potrebbe essere utile capire qual è stato il ruolo di ogni singolo corpo. Anche perché la Polizia Penitenziaria, che tu conosci a fondo, dipende dal ministero della giustizia, mentre invece la Polizia di Stato dipende dal ministero degli interni, che è stato l’unico ministero a subire contraccolpi politici per la gestione della vicenda.
A Bolzaneto il ruolo dei carabinieri e della Guardia di Finanza è stato minimo. I primi sono stati chiamati a contribuire alla sorveglianza solo l’ultimo giorno, domenica, mentre la Guardia di Finanza non è stata mai in servizio lì, se non per qualche sporadica visita. L’intero controllo di
Bolzaneto era affidato alla Polizia di Stato e alla Polizia Penitenziaria. In totale, gli agenti presenti durante ogni turno saranno stati un centinaio. Molti, però, erano al di fuori del sito penitenziario, visto che all’interno lo spazio era ridotto; all’interno saranno stati al massimo una trentina, oltre agli addetti alla matricola.
In particolare, c’erano i GOM (Gruppo Operativo Mobile), gli agenti del Nucleo Traduzioni e Piantonamenti (che dovevano portare i detenuti nelle carceri a loro assegnate) e poi il personale di sorveglianza alla detenzione. I loro erano turni lunghissimi, lavoravano per molte ore di fila, anche se avveniva un ricambio continuo di reparti e uomini.
Per schematizzare, potremmo dire che a eseguire il fermo era la Polizia di Stato; l’individuo “fermato†veniva preso in custodia da loro, identificato, perquisito, in caso di necessità medicato e poi, se veniva confermato l’arresto, passava sotto custodia della Polizia Penitenziaria. In teoria tutti gli arrestati sarebbero dovuti passare per la matricola, ma quando cominciavano a raggiungere un numero troppo alto venivano mandati nei gabbioni ad aspettare. A volte aspettavano per ore, ed era terribile se immaginate cosa vuol dire stare molte ore in piedi, nella posizione “del cignoâ€, senza potersi muovere o anche soltanto girarsi a sgranchire le gambe. Ricordo che alcuni furono costretti a rimanere contro il muro, a mani alzate, per ventiquattro ore senza che gli fosse consentito di mangiare e di andare al bagno. E quelli che venivano portati in bagno a volte se ne pentivano amaramente. “Ah si†disse un agente a un detenuto, “ti scappa da pisciare? È vero che ti scappa da pisciare? Adesso ti facciamo pisciare!â€.
Ho visto due o forse tre agenti trascinare il detenuto a testa bassa ed entrare con lui nel bagno. Lo picchiarono. Io non li vedevo, è chiaro, non potrei dire davanti a un giudice, per onestà, che li ho “visti†mentre lo picchiavano. Come facevo? Erano appena dentro il bagno e io, camminando verso l’esterno della palazzina, mi ero già lasciato alle spalle la porta del bagno.
Ma i colpi delle botte li so riconoscere.
Sentivo il tonfo sordo dei pugni nello stomaco. Sentivo il silenzio del ragazzo, che faceva ancora di più risaltare il suono delle botte. Sono suoni e sensazioni che non si dimenticano facilmente.
Mi hanno chiesto: “Ha urlato?â€. No, non ha urlato ma d’altronde, se si vuole, ci sono mille modi per picchiare senza far urlare. Possono metterti qualcosa davanti alla bocca o colpirti in particolari punti del corpo così da non lasciarti la forza per gridare. E poi bisogna dire che questi ragazzi nutrivano tanto odio nei nostri confronti e vivevano un terrore così forte che in quel momento non avrebbero sentito neanche una pugnalata.
E poi, di nuovo nelle celle ad aspettare qualcosa che non si sapeva, qualcosa che comunque non poteva motivare un simile trattamento. In carcere succede spesso di dover usare la forza con il detenuto. Lo prevede la legge, quando è il detenuto stesso a cacciarsi in quella situazione. Ma a Bolzaneto la situazione era molto, molto diversa. Perché devi picchiare qualcuno che in quel momento è inoffensivo? Perché, se ancora non sai se sia colpevole di qualcosa? Erano ragazzini impauriti, non dei black block. E se anche lo fossero stati, in quel momento non avrebbero comunque potuto nuocere. Non c’era nessun motivo ragionevole per trattarli in quel modo.
In pratica, alcuni gabbioni erano occupati dagli arrestati e altri dai non ancora arrestati e gli agenti controllavano che i ragazzi non si muovessero o parlassero tra loro. Quando qualcuno si azzardava a sedersi o anche solo a muoversi, veniva immediatamente colpito con il manganello. Molti ragazzi erano ridotti male, sotto shock, avrebbero avuto bisogno di cure e non di patire altre sofferenze. Chiaramente, non mi riferisco solo alle violenze psicologiche o al fatto di stare in piedi contro una parete. Io faccio questo mestiere da trent’anni e so distinguere il sangue fresco da quello coagulato. Tanti sono arrivati a Bolzaneto già feriti, ma tanti sono stati torturati a freddo, sono stati feriti fino al profondo dell’anima.
Gli ufficiali sono sempre stati al corrente di quanto succedeva, anche se si tenevano ai margini, ma non per questo possono dire di non aver visto nulla. La loro assenza è stata, di per sé, una responsabilità (loro stazionavo prevalentemente al di fuori del sito).
Ogni tanto arrivava Sabella e, all’improvviso, non succedeva più nulla. Alfonso Sabella è un magistrato e allora era il Direttore dell’ufficio inchieste del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, credo fosse il massimo responsabile per quanto riguarda la Polizia Penitenziaria nei siti penitenziari di San Giuliano e Bolzaneto. L’avevo conosciuto telefonicamente alcuni giorni prima del G8, ma quelle erano le prime volte che lo vedevo di persona. Durante il G8, Alfonso Sabella veniva almeno una o due volte al giorno, attorniato da un certo numero di agenti di scorta, a fare sopralluoghi. È ovvio che, quando arrivava, vi era come una sorta di tregua e probabilmente lui non ha avuto modo di vedere alcuna violenza.
Alcuni mesi dopo, mi ha rimproverato per non avergli detto niente; ma non avrei saputo cosa fare. Lui era lì, circondato da capitani e generali, i quali sapevano meglio di me cosa stava succedendo. Conoscendo i meccanismi del carcere, non avrei fatto che peggiorare le cose. Una volta provai a farlo indirettamente, gridai: “Dottore, poi diamo l’encomio solenne a tutti!â€. Lui non ha capito cosa volevo dire.
Vedendoli dalle immagini, i volti dei poliziotti non davano l’impressione di essere dei volti lucidi. Tu, che ti trovavi all’interno e che conosci bene la polizia, hai avuto la sensazione che ci fosse un’eccitazione non solo strettamente “adrenalinica�
Secondo me, non era un’iper-eccitazione, lavoro da anni con i drogati e so, per esperienza, riconoscere quando qualcuno ha preso qualcosa, quindi posso sinceramente dire che, anche se potevano sembrare drogati, in realtà non lo erano.
Penso invece che la questione della droga rischierebbe di essere una giustificazione, potrebbero dire, se non altro, che erano sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, ma non credo che sia stato così. Loro sono stati addestrati alla repressione e ne hanno dato una prova esemplare, soprattutto con chi non lo meritava.
Secondo me, a Bolzaneto non è morto nessuno per pura casualità, per tutto il tempo ho temuto che potesse succedere.
Sempre quel venerdì, mi capitò anche di assistere un tossicodipendente finito dentro per sbaglio. Arrivò abbastanza malconcio, con una profonda ferita alla mano e una altrettanto seria alla testa e mi raccontò che, mentre andava all’ospedale per ritirare la dose giornaliera di metadone, un poliziotto lo aveva colpito e arrestato senza nemmeno dargli il tempo di spiegare.
Lo rilasciarono appena eseguimmo la sutura delle ferite e fu chiarito l’equivoco.
In infermeria, invece, le violenze venivano esercitate in modo più discreto, erano più verbali che fisiche, anche se non mancarono abusi piuttosto gravi. Vidi il dottor Toccafondi dare piccoli calci alle gambe dei detenuti, costretti a stare appoggiati al muro, perché divaricassero bene le gambe durante le perquisizioni. Che cos’è, se non un abuso, prendere a calci un detenuto?
Com’è possibile vedere qualcuno che subisce violenza e andarsene senza intervenire?
Bisogna considerare che quell’episodio era stato preceduto da molti altri. A quel punto, la scelta era già stata fatta. A volte è più facile esplodere, piuttosto che essere un po’ razionali. La scelta mia e di Pratissoli, non concordata e istintiva, fu quella di tenere duro perché se noi avessimo reagito sarebbe stato peggio per tutti, dopo. È difficile spiegarlo, ma é così!
A confermare la mia sensazione, ci fu anche un episodio concreto.
Una notte andai nell’ultimo gabbione (quello gestito dalla Polizia di Stato) a portare del ghiaccio sintetico a un ragazzo ferito alla testa, quando un altro detenuto si rivolse a me lamentandosi: “Per favore, mi visiti, sto male (avevo il camice verde in quel momento, anche se poi non l’ho portato quasi mai). Appena sentì quelle parole, il poliziotto di guardia scattò con l’intenzione di punire il ragazzo che, secondo lui, aveva osato sfidare la nostra autorità. Io capii subito quello che sarebbe successo e dissi, in tono perentorio: “Stia con la testa contro il muro! Quando è il suo momento verremo a visitarla!†Un istante dopo il poliziotto si fermò. Gli era bastato il mio richiamo, ma se io non avessi gridato in quel modo probabilmente sarebbero state botte. E figurarsi cosa sarebbe successo se io avessi osato dare ragione al ragazzo, avrei acuito la reazione. In ogni mio atteggiamento, all’interno della caserma, avrei dovuto fare i conti con il fatto che gli agenti, proprio perché amministravano l’uso della forza e della sicurezza, non avrebbero tollerato una sfida alla loro autorità.
Io soffrivo nel vedere quello che accadeva, ma cercavo di esorcizzare quel malessere sforzandomi di sdrammatizzare.
Facevo battute, scherzavo con le dottoresse: fa parte del mio carattere. Nel mio lavoro si è sempre a contatto con la sofferenza, con la violenza, e uno dei modi per affrontarle è proprio quello di usare il sorriso. Sin dai tempi del manicomio, sono abituato a sdrammatizzare tutto. Non volevo vedere quello che stava succedendo: quando potevo, andavo via.
Avevo la fortuna di occuparmi anche delle pratiche della matricola, perciò mi muovevo molto, facevo avanti e indietro. In un penitenziario, la matricola è uno degli uffici più importanti: lì vengono conservati, negli appositi fascicoli, tutta la vita e tutti i dati del detenuto; lì si fanno le identificazioni, si prendono in carico i detenuti e, dopo aver fatto le foto e prese le impronte digitali, si assegna loro il carcere di destinazione.
Nonostante ciò, ho dovuto vedere troppe cose; gli episodi erano talmente tanti che è anche difficile ricordarsi e raccontare.
C’è quello di faccetta nera dal telefonino…
Le celle avevano dei finestroni posti a un metro e mezzo da terra, quindi passando dall’esterno vedevi le persone che c’erano dentro. Quindi questo agente (e rido perché, tutto sommato, ha fatto molto meno male di altri), passando, ha allungato il braccio e con il telefonino faceva ascoltare la suoneria con Faccetta nera.
Non posso dimenticare il caso di un ragazzo coi capelli lunghi che aveva un testicolo infiammato: sembrava un varicocele perché aveva un versamento di sangue e gli ordinai di stendersi sul lettino. Dopo cinque minuti, uscendo dalla matricola, lo ritrovo in piedi contro il muro nel corridoio e gli chiedo: “Ma tu che cazzo fai qui? Devi stare a letto!†e lui mi risponde che lo avevano obbligato a tornare a fare il “cignoâ€.
Litigai con mezzo mondo, in quel caso. Come fa qualcuno a permettersi di costringerlo ad alzarsi, nonostante io l’avessi avvisato di stare a letto? Chi può farlo sapendo (e noi sanitari lo sapevamo, dovevamo saperlo) che il ragazzo non era in condizione di stare in piedi?
Tale era il loro disprezzo da informarmi che, alla fine, quel paziente non si era rivelato poi così grave. Io non avevo detto che fosse grave! Però stava male! Bisognava trattarlo nel migliore dei modi.
A volte, alcuni detenuti, quando feriti gravemente, venivano trasferiti in ospedale a Genova.
I miei colleghi mi raccontarono di un ragazzo che aveva la milza spappolata e che fu autorizzato dal dottor Toccafondi a un ricovero d’urgenza. Il dottore, in un’intervista, si vantò dell’episodio ma, in realtà, aveva fatto una cosa del tutto normale. Penso che sia di cattivo gusto dipingersi come un eroe per aver fatto una cosa dovuta. Almeno in quel caso, ha fatto il dottore; almeno in quel caso.
Anche se i medici non hanno materialmente picchiato, è stato colpevole il loro atteggiamento, il fatto che non abbiano fatto niente per evitarlo.
Non ho visto altri medici o infermieri usare la violenza “fisica†nei confronti dei pazienti. Nessuno a parte il dottor Toccafondi, che abitualmente usava spinte e piccoli calci per “indicare†ai detenuti di spostarsi o di stare fermi. Quante volte gli ho sentito dire: “Senti che puzza che fanno, senti che odore…†Io rispondevo: “Saranno in giro da giorni, con i sacchi a pelo, cosa devono fare?â€. “Odore di Brigate Rosse!†disse.
Toccafondi era talmente convinto di avere a che fare con dei brigatisti - aveva confuso il simbolo della stella a cinque punte con quello, simile, del comitato per l’azzeramento del debito dei Paesi poveri nei confronti delle nazioni ricche che rubò proprio questa maglietta col simbolo “incriminato†per conservarla insieme ai suoi “cimeliâ€.
Ci fu un episodio, poi raccontato ai giornali, in cui i sanitari dichiararono: “Noi abbiamo anche vestito un ragazzoâ€.
Sono balle! Io l’ho vestito. Era nudo perché, dopo tutti quegli spray al peperoncino che gli agenti avevano usato, lo avevano dovuto spogliare. Un uomo della Polizia di Stato venne da me a chiedere qualcosa per coprirlo e stavo per dargli un camice verde, di quelli che usiamo noi per le medicazioni o le piccole suture, quando una dottoressa mi fermò, dicendomi: “No! Ne abbiamo pochiâ€. Allora, vista la mia esperienza nel volontariato, presi in mano il telefono e chiamai la parrocchia di Pontedecimo. Non so se a rispondermi fu il prete o qualcun’altro, fatto sta che si occuparono di raccogliere dei vestiti. Li mandammo a prendere da una macchina della Polizia di Stato: questo fu tutto l’aiuto che mi venne dato.
Le pinze a una ragazza per togliersi il piercing dal clitoride, le diedi io, prima che potesse succedere qualcos’altro.
Arrivai il la domenica mattina a Bolzaneto trovandomi, come prima immagine, in infermeria sul primo lettino a sinistra, una ragazza con la bocca tutta sbrindellata, senza denti: cosa mai può avere fatto per meritarsi quello?
Sapete cosa vuol dire a 19 anni perdere i denti? Io li ho persi a 50, e neanche tutti, ed è stato drammatico. E io li ho persi perché non li ho curati; a lei li hanno tirati giù. Cosa raccontiamo a quella ragazza? Questi agenti dicono: “Ti sta bene perché hai manifestato� “Ti sta bene perché sei noglobal�
Il sabato pomeriggio, verso le 18 sono sceso da Pontedecimo per raggiungere i colleghi con i quali alle 20 saremmo andati a cena, e nel primo gabbione a destra - avevano spostato le perquisizioni nel gabbione per snellire le procedure vidi un signore, sembrava arabo, che veniva perquisito molto “zelantemente†e veniva trattato con durezza nonostante avesse una protesi a una gamba.
Poveretto! Non gli concessero alcun trattamento di favore: dovette stare appoggiato al muro in piedi, anche se con una gamba sola, ad aspettare, per ore, come tutti gli altri.
Altro episodio è stato quello di un ex professore: ci raccontò di aver lasciato l’insegnamento per fare il contadino e che si trovava lì, anche lui, per protestare contro la globalizzazione.
L’ho visto subire umiliazioni su umiliazioni, fatte da ragazzi che avrebbero potuto essere figli suoi. Ogni tanto avevo l’impressione che si guardasse intorno e cercasse i miei occhi per chiedere aiuto.
Non lo dimenticherò mai, come non mi dimenticherò mai gli occhi di quel ragazzo al quale, per ben due volte, abbiamo dovuto somministrare ossigeno dopo un’intossicazione da lacrimogeni. Spesso lo tenevo per mano. Fortunatamente, è stato rilasciato dopo poco tempo.
Mi colpì molto anche un atteggiamento, verbalmente molto violento, che una giovane poliziotta ebbe nei confronti di una ragazza detenuta. Le chiesi: “Perché? Che bisogno c’è di odiare una ragazza in quel modo?†“Perché questa stronza mi ha impedito di fare colazione!†mi rispose.
Allora cade tutto… fra due coetanee che probabilmente di sera vanno in discoteca a divertirsi insieme, a sballarsi insieme, a scopare insieme. È proprio agghiacciante, quella frase: “Perché questa stronza mi ha impedito di fare colazioneâ€. È aberrante! In galera, se non c’è rispetto delle persone, c’è almeno il rispetto dei ruoli. Se tu devi avere qualcosa, io te la do, magari ti faccio aspettare dieci minuti, però te la do.
Ho visto una ragazza costretta faccia al muro a fare “il cignoâ€, aveva ai piedi uno zainetto con il telefonino appoggiato subito accanto. Un agente che passava di lì glielo ha distrutto, così, senza motivo, schiacciandolo con il tallone dell’anfibio.
Ho visto un agente alzarsi dalla sua postazione alla matricola e andare a dare un calcio violentissimo alla gamba di un altro detenuto che faceva il “cigno†contro il muro. Anche questo succedeva senza alcuna giustificazione plausibile: lo hanno fatto solo per il gusto di farlo.
In questa situazione - purtroppo non successe che due o tre volte - ci fu qualcuno, un altro agente, che comuniciò ad alta voce il suo sdegno: “Ma che cazzo fai?†lo rimproverò.
Questo fu uno dei pochi casi in cui emerse apertamente uno scontro di opinioni fra gli agenti. La maggior parte di loro teneva per sé ogni giudizio e io sono a conoscenza solo di un caso (anche se non posso escludere che ce ne sia stato qualche altro) in cui, realmente, questa differenza di vedute fu accompagnata da un atto concreto.
Alcuni ragazzi passati per Bolzaneto raccontarono questo episodio “positivo†alla madre di Carlo Giuliani, Haidi – I Giuliani, durante questi anni, non hanno mai smesso di ricevere le viste delle centinaia dei ragazzi che come Carlo, avevano partecipato alle manifestazioni del G8 genovese.
Questo è un episodio che va raccontato per rendere meglio il clima di confusione, ma anche le differenze e i malumori fra reparti e individualità diverse all’interno delle forze dell’ordine.
Un agente in borghese trascinava due o tre ragazzi verso l’esterno della caserma. Nella mente dei ragazzi cominciò a insinuarsi il terrore: pensavano al peggio. Dopo qualche minuto, invece, l’agente in borghese disse loro di allontanarsi in fretta: erano liberi.
Perché? “Perché?†è l’assurda domanda che si fanno i ragazzi. Assurda se confrontata al corso naturale delle cose, per cui un cittadino deve sentirsi sicuro di poter far valere le proprie ragioni, di ottenere rispetto e sicurezza. “Perché?†è una domanda che assume una plausibilità oscena durante qui giorni di terrore. “Non condivido quello che stanno facendo, mi vergogno per i miei colleghi†disse l’agente. Sembrava un alieno in mezzo a tutti quei “macellaiâ€. E lo è ancora adesso, visto che non ha mai avuto il coraggio di andare fino in fondo, denunciare i responsabili, fare chiarezza. Per rispetto delle persone che sono state violentate, per rispetto verso il corpo di polizia, per rispetto verso la storia.
O forse l’ha già fatto, ma ha chiesto di restare nell’anonimato. Un anonimato che, nel caso sia vero, varrebbe più di mille parole per descrivere quello che succede nelle fila di carabinieri e polizia.
Ripeti spesso che ciò che stava succedendo durante quei giorni era un argomento tabù, soprattutto fra gli agenti. Si parlava poco, ci si regolava in base a sensazioni e leggi imparate attraverso l’esperienza e l’abitudine a vivere un linguaggio altamente codificato.
Ricordi se, almeno tra voi del personale sanitario “civileâ€, capitarono occasioni, anche fuori dall’orario di lavoro, durante le quali si parlò di ciò che stava accadendo, in cui qualcuno pronunciò un parere o un giudizio?
Al sabato sera, tutti quelli che poi dicono di non aver visto niente, erano a cena con me in una trattoria sulle colline genovesi. Ci avevano portato i medici. C’eravamo tutti tranne
Toccafondi e i medici e gli infermieri in servizio.
Un infermiere, durante la cena, discusse animatamente con un medico proprio per quello che stava succedendo in caserma. Fui io a interrompere il litigio. E poi dicono di non aver visto niente. Non riesco a capirli.
Io ho visto decine di violenze. Il mio collega, Ivano Pratissoli, ha visto altre cose forse, diverse, visto che ha passato tutto il tempo in infermeria e pochissimo tempo fuori. Ognuno ha visto una parte di quello che succedeva. Tutti hanno visto, tutti tranne Sabella e il ministro Castelli. Gli altri, vorrei poterli guardare negli occhi mentre negano di avere visto qualcosa. Quello che mi stupisce, nell’atteggiamento degli altri medici e infermieri, è la loro totale indifferenza. L’indifferenza che leggevo sui loro volti durante quei cinque giorni e, soprattutto, l’indifferenza di adesso: tutti avrebbero l’opportunità di dire la verità, di fare il loro dovere raccontando quel che è accaduto.
Tutti sappiamo ciò che è successo mentre lavoravamo. È indecoroso negarlo. È ancora più indecoroso per chi fa un mestiere delicato come il nostro.
Posso capire gli agente, il loro corporativismo, anche se non posso condividerlo… ma un medico… un infermiere… Noi non abbiamo fatto niente per rendere l’infermeria una zona franca. Forse qualcosa si è fatto alla fine, dopo quella cena, quando capirono che si stava esagerando.
Domenica le violenze sono nettamente diminuite. In infermeria si limitarono alle offese verbali, ma anche nel resto della caserma ci fu un atteggiamento diverso. Già dal sabato sera, a guardia dei gabbioni erano arrivati i carabinieri del Tuscania. Chiesi a un agente di passaggio il perché di quell’avvicendamento, e lui mi rispose: “Perché noi siamo troppo cattiviâ€.
Durante la notte, arrivarono quelli arrestati alla Diaz, erano conciati malissimo, ma dentro Bolzaneto non vidi la stessa feroce violenza dei giorni precedenti, anzi, ho addirittura visto i ragazzi seduti e non più “a cigno†come nei giorni precedenti.
Facendo un bilancio, credo che dalla caserma di Bolzaneto passarono più di duecento persone: il 90% venne rilasciato in poche ore.
Gli oggetti “pericolosi†sequestrati furono pochi: qualche bastone, manici di scopa. Non è quello il problema! Potevano pure averli, i bastoni, ma in quel momento erano inoffensivi. Eppure sono stati bastonati. Bisogna aver fiducia nella legge. Chi commette un reato pagherà di conseguenza.
Quei ragazzi, se si fossero dimostrati colpevoli, avrebbero potuto prendere due anni di galera o forse tre, come pure potevano essere assolti. Che bisogno c’era di violentarli per fare giustizia?
Succede spesso che, in situazioni sconvolgenti come questa, fra le centinaia di avvenimenti, situazioni o persone, ci sia qualcosa che rimane impresso più di tutto il resto. Non è raro che in mezzo a tanti ricordi, il più nitido sia qualcosa di apparentemente marginale o insolito.
C’è stato qualcosa che ti ha colpito in modo particolare dentro Bolzaneto? Un ragazzo, un episodio?
L’episodio che mi ha sconvolto di più, quella domenica, è stato quando ho salutato tutti e poi ho abbracciato il dottor Toccafondi dicendo: “Tu non mi crederai, ma ho lavorato bene con teâ€. In quel momento ero sincero, avevo una grande tensione addosso e un altrettanto grande sollievo per il fatto che, finalmente, avrei lasciato la caserma e la visione di tutte quelle sofferenze.
Non mi perdonerò mai per aver fatto quel gesto enormemente ipocrita, anche se in quel momento mi venne del tutto istintivo. Molti, anche degli psicologi, mi hanno detto che per me era stata come una catarsi, un gesto inconscio e liberatorio.
Un’altra cosa che mi ha colpito molto è avvenuta al di fuori di Bolzaneto, molto tempo dopo. Ero al Festival del Cinema di Venezia per la proiezione del film “Genova senza risposteâ€, dove ero stato invitato per parlare del G8, e c’erano anche dei ragazzi che erano stati prigionieri nella caserma.
Una di quelle ragazze ha chiesto la parola e ha detto cose che mi hanno distrutto: “Io l’ho riconosciuta! Lei è un aguzzino come gli altri, non ha fatto niente per aiutarmiâ€.
Quelle parole mi hanno fatto molto più male di tutte le minacce e di tutte le altre umiliazioni. Come fai a spiegare che non potevi fare niente? Come fai a spiegare che se un giorno si avrà un minimo di giustizia sarà proprio perché noi abbiamo parlato? Per lei rimango comunque un aguzzino.
Con Ivano abbiamo deciso, durante quei giorni in caserma di non aprire bocca uno con l’altro, ma non pensavamo di tacere per poi denunciare.
È stata una maturazione lenta, cominciata durante il viaggio di ritorno, quando prendemmo il treno per Parma. Avevamo trovato un passaggio - in quei giorni le stazioni a Genova erano chiuse - con un infermiere che lavorava in un carcere ligure, che ci accompagnò alla prima stazione aperta. Salimmo su un treno e ci trovammo insieme anche a molti ragazzi che tornavano dalla manifestazione e che parlavano di quello che era successo. Noi stavamo zitti, facevamo finta di niente. In certi momenti non stai tanto a pensare, gli avvenimenti accadono in una sequenza particolare, tu stai lavorando…
Non è come se vedi un treno deragliare e decidi se rimanere ad aiutare o andare via.
Lì era un susseguirsi di avvenimenti e, a un certo punto, non ti chiedevi più niente.

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MEDIATTIVISMO
Ci sono alcune differenze tra i mainstream media e i media indipendenti o liberi. La principale riguarda la proprietà. Il media mainstream, di proprietà pubblica o privata, ha un editore che risponde a logiche politiche e di profitto legate a interessi economici o partitici. Il giornalista deve seguire le direttive di una struttura gerarchica che parte dalla proprietà e si dipana lungo le linee decisionali della redazione. Questa struttura limita l’indipendenza di un giornalista e quindi la sua libertà di scelta sulle notizie e sul modo di raccontarle. Spesso la routine industriale della macchina informativa obbliga i giornalisti ad adottare schemi predefiniti di interpretazione degli eventi, spesso i cliché diventano definizioni sclerotizzate. Altre volte l’autocensura emerge dalle paure di redattori contrattualmente deboli o in carriera. Il media indipendente è frutto invece di una aggregazione volontaria di individui e non ha proprietari potenti o gruppi economici dietro le spalle.
Non esistono linee editoriali calate “dall’altoâ€, ma tutti i collaboratori interagiscono nella scelta delle notizie e sono lasciati liberi di seguire gli argomenti preferiti. Questa fluidità decisionale dona libertà ai singoli e gli permette di ragionare serenamente sulle posizioni da prendere o non prendere rispetto agli eventi. Tutto questo si traduce anche in una maggiore libertà espressiva, nei contenuti e, soprattutto, nelle forme. È infatti dalle testate indipendenti che emergono le sperimentazioni più radicali nei linguaggi radiofonici, audiovisivi e narrativi. Purtroppo i giornalisti indipendenti lamentano gravi deficit nei compensi che ricevono in cambio del lavoro che svolgono. Non scelgono l’informazione indipendente per danaro, ma per motivazioni ideali ed etiche, legate al bisogno di prestare un servizio libero e corretto. Altre volte è la militanza all’interno delle organizzazioni politiche di movimento che li spinge a pubblicizzare le attività che vivono in prima persona. I giornalisti indipendenti diventano spesso veri e propri attivisti che lavorano nei media, diventano mediattivisti.
Il mediattivista ha grandi capacità di interpretare eventi come le manifestazioni, i social forum o i controvertici e può darne una rappresentazione più esatta.
In situazioni di violenza di strada, il mediattivista è un soggetto a rischio. La sua presenza in piazza accanto ai manifestanti lo rende un possibile bersaglio delle cariche indiscriminate.
Per questo si protegge con gommapiuma, maschera antigas e casco. I mediattivisti sono spesso protagonisti di veri e propri reportage e inchieste che li fanno diventare fonti autorevoli di notizie, anche grazie al supporto tecnico e logistico fornito da alcuni media indipendenti. Oggi la “controinformazioneâ€, nata negli anni ’60, assume una veste nuova e inedita che le permette di diventare un punto di riferimento efficace non solo per il movimento, ma anche per la politica esterna ad esso e per i mass media mainstream. A Seattle, Praga, Napoli e Genova l’utilizzo di internet e di video e fotografie digitali ha permesso la pubblicazione, quasi in diretta, delle immagini e delle testimonianze provenienti dalle piazze. Questo ha consentito ai media indipendenti una visibilità che non ha precedenti nella storia dei movimenti.
http://www.telestreet.it
http://www.indymedia.org
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BISOGNA RACCONTARE TUTTO!


Al ritorno dalla trasferta genovese, alla fine di luglio, voi siete tornati a casa per passare delle brevi ferie in famiglia.
Quelli furono i giorni più caldi del dopo-G8: il dolore per l’uccisione di Carlo Giuliani, cominciavano a circolare i racconti dei manifestanti e i video che testimoniavano le infiltrazioni da parte dei poliziotti. Arrivavano le smentite e altre versioni, altri video, altri racconti. Per diverso tempo, l’attenzione di tutti, anche delle altre nazioni, si focalizzò su quanto accaduto durante quei sei giorni di luglio: le devastazioni dei black block, le proposte del GSF, le responsabilità della polizia italiana.
Come vivesti tu quei giorni? Quando è che decidesti di parlare?
Io per otto giorni non ho parlato.
Ivano Partissoli mi cercava e io mi facevo negare. Sono stato da solo, a riflettere. Poi ho sentito tante bugie che venivano dette in giro, sui giornali e alla televisione. I miei sensi di colpa si sono fatti più insistenti. Continuavo a tormentarmi per non avere fatto nulla per aiutare questi ragazzi, e anche se, per il marginale ruolo che avevo come infermiere, quel “non fare†era un modo per non peggiorare le cose, loro non potevano saperlo. Un agente difficilmente accetterebbe di essere contraddetto da un civile, peggio se si trattasse di un semplice infermiere. Spero, un giorno, di riuscire a spiegarglielo: io soffrivo, anche se loro non lo sanno; se mi fossi azzardato a fare qualcosa, in quel clima...
Nessuno può negare quale fosse l’orientamento ideologico prevalente all’interno dei reparti che a Bolzaneto avevano il compito di amministrare l’uso della forza.
Era già capitato, durante i primi giorni a Genova, che fossi additato come uno che parlava troppo, al punto che due agenti lo dissero ad alta voce davanti a Ivano, credo facendolo apposta, proprio perché mi avvertisse di stare attento.
Questo ha sicuramente aumentato la mia impotenza, come anche quella di tutti gli altri, durante le violenze.
Dopo quegli otto giorni mi decisi. Richiamai Ivano, piangevamo tutti e due e ci chiedevamo: “Che cosa dobbiamo fare?†“Dobbiamo dire tutto!â€
Quando tornai a casa da Bolzaneto, lavoravo come responsabile tecnico del servizio infermieristico al carcere Dozza di Bologna. Molti dei ragazzi del nucleo traduzioni e piantonamenti erano stati a Genova: parte erano andati al carcere di Marassi, altri erano rimasti di riserva a Piacenza. A Bolzaneto arrivarono la domenica, quando io andai via. A loro non ho visto fare niente, non perché li conoscevo ma perché proprio non hanno fatto niente: non c’erano durante il mio periodo di servizio. Con alcuni si è discusso molto di quello che era accaduto: una parte di agenti cercava di giustificare ciò che era successo, altri invece erano d’accordo con me.
Tutti sanno quello che è successo, ma non mi perdonano di averlo detto “fuoriâ€. Dentro l’ambiente tutto è concesso, puoi anche avere un’opinione diversa. Anche perché io sono stato sempre vicino agli agenti di polizia penitenziaria qualcuno scherzando mi diceva: “No, non siamo colleghi†e per me un agente non era diverso da un collega. In particolare, avevo un buon rapporto con i giovani e, dopo quindici anni, ero diventato una specie di fratello maggiore.
Mi manca molto quel contatto umano. Come mi manca il rapporto con i detenuti. Mi manca meno il rapporto con la direzione sanitaria. Non mi hanno mai chiamato, neanche per capire o per condannarmi. Sono rimasto deluso dal comportamento di molti. Chi mi conosce sa che sono una persona sincera.
Io e Ivano quando abbiamo deciso di parlare non avevamo le idee chiare su come muoverci e abbiamo deciso di contattare l’avvocato Pisapia, che le cronache lo davano come avvocato di numerosi ragazzi che erano stati vittime di soprusi a Bolzaneto, e così fu. Lo contattammo e dopo pochi giorni ci recammo nel suo studio a Milano. Qualche giorno più tardi fummo convocati dal giudice Pinto.
Quando arrivò la convocazione ero in montagna, avevo preso qualche giorno di ferie e volevo isolarmi a riflettere. Mi telefonarono dal carcere di Bologna per comunicarmi che avrei dovuto presentarmi in carcere l’indomani mattina - il lunedì - e che la convocazione al tribunale di Genova era stata fissata per il giorno seguente, martedì. Arrivai alla Dozza e, visto che in quei giorni c’era stato un ammanco considerevole dalla cassa del carcere, trovai Alfonso Sabella, funzionario che era responsabile dell’ufficio inchieste dell’amministrazione penitenziaria.
Entrai nello studio di Annapaola De Filippo, l’allora direttrice facente funzioni, che, garbatamente, ci lasciò soli. L’ufficio era abbastanza grande, il che permetteva di mantenere una certa distanza fisica. Lui mi aspettava in piedi, dietro la scrivania, con lo sguardo perso fuori dalla finestra. Mi chiese: “Ma allora, Poggi, è tutto vero quello che dicono?†E io risposi: “Sì, certo, anche di più.†E lui: “Ma perché non me lo ha detto? Lei doveva dirmelo subito!†“Ma come facevo a dirglielo? Chi sono io? Lei era circondato da generali, capitani, sottoufficiali e poi io ho anche provato a dirglielo, si ricorda quando le dicevo: “Dottore, qui diamo a tutti l’encomio solenne†in tono ironico. Io non potevo parlare in quel momento.
Lui alzò lentamente le mani, premendole poi nervosamente sulle tempie e disse: “Mi toccherà lasciare l’amministrazioneâ€.
E io gli risposi: “Stia tranquillo! Io dovrò lasciare l’amministrazione, vedrà. Lei che cosa mi consiglia di fare?â€
Lui fu molto onesto: “Poggi, lei deve dire quello che sa, tutto quello che sa! Deve dire tutta la verità!â€
E io andai in tribunale e raccontai tutto, facendo la stessa cosa anche, in un secondo momento, alla commissione d’inchiesta del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria da lui diretta.
La mia testimonianza è ricchissima di episodi ma, purtroppo, non piena di nomi. Ho cercato sempre di essere onesto.
Io non conoscevo gli agenti, li avevo visti lì per la prima volta e visto che venivano da molte parti d’Italia non avrei avuto il tempo per memorizzare i nomi e i visi. È per questo che ho avuto difficoltà a fare nomi. Per rendermi la cosa ancora più difficile, durante i riconoscimenti, mi mostrarono foto molto vecchie; sarebbe stato come colpire alla cieca.
Alla fine, ho individuato due persone: un agente addetto alle perquisizioni e il medico, il dottor Toccafondi. Gli altri non sarà facile riconoscerli, perché io non li avevo mai visti prima, spesso cambiavano, per cui non posso indicare una persona che non conosco. Gli agenti dovrebbero essere obbligati a portare un distintivo di riconoscimento, come io in ospedale sono obbligato a portare una targhetta con nome e qualifica. Penso che anche un agente dovrebbe poter essere riconosciuto. Pensate cosa sarebbe successo a
Bolzaneto…
Nonostante ci lavorassi insieme, non avevo modo di poterli identificare. Molti hanno fatto delle nefandezze e non verranno puniti. Quando operano sul territorio, tutti gli ufficiali pubblici dovrebbero poter essere riconoscibili. Un discorso a parte è quello della riservatezza per gli agenti che lavorano in alcuni reparti del carcere e che devono poter avere l’anonimato per questioni di sicurezza.
Io devo dire la verità, mica devo vendicarmi. Continuerò a dire solo cose di cui sono assolutamente certo.
Gli episodi che fanno parte dell’inchiesta sono quelli ormai noti: alcuni pestaggi, ma in generale l’atteggiamento non professionale, le frasi e gli insulti e la responsabilità di aver provocato la sofferenza di centinaia di uomini e donne ormai inoffensivi.
Sarebbe molto utile che qualcuno dei miei colleghi, nonostante tutti questi mesi di silenzio, si decidesse a parlare, a integrare e precisare le testimonianze attuali. Purtroppo, ho l’impressione che questo non accadrà. Alcuni li ho rivisti, qualche agente di Bologna e un infermiere del mio sindacato, ma non parlo volentieri con loro di queste cose, non voglio appesantirli con la mia situazione. Ognuno fa le sue scelte e poi le deve portare fino in fondo. Poi magari le paga, ma sempre in prima persona.
Con Ivano, durante la seconda udienza della commissione d’inchiesta interna al Dipartimento ho, invece, incontrato il dottor Amenta, uno dei medici con i quali avevamo lavorato a Bolzaneto, chiamato anche lui a testimoniare. “Bravi! Avete combinato un bel casino†ci disse.
Noi abbiamo combinato un casino?! Qualcun’altro, semmai, aveva combinato un casino.
Hai detto che, all’interno del penitenziario nel quale lavoravi, avevi accennato più volte ai fatti di Bolzaneto. Mi è sembrato di capire che i tuoi colleghi avessero una forte diffidenza, spesso idee totalmente opposte ma non tali da costituire una minaccia. Quand’è che questo atteggiamento comincia a cambiare?
Fino a quel momento, i malumori all’interno del carcere erano contenuti. Non sapevano ancora se sarei andato a testimoniare. Molti mi esortavano ad andarci e negare tutto. L’odio nei miei confronti raggiunse il culmine dopo la mia intervista a Rai 3. Fu un’intervista molto lunga, ma nella messa in onda ne utilizzarono solo qualche minuto. Sostanzialmente, dopo aver raccontato quello che avevo visto a Genova, dissi che, nonostante in quindici anni di lavoro nelle carceri mi fossi nutrito di violenza, non sarei riuscito a spiegare quello che era successo a Bolzaneto. Aggiungendo che non si poteva, però, criminalizzare un’intera amministrazione per un piccolo gruppo di delinquenti. È ovvio che io mi riferivo ai miei trascorsi nel manicomio, ai detenuti, al clima di complessiva violenza che vige in un penitenziario come in un manicomio.
Il giorno dopo avrei dovuto presentarmi a lavoro.
Non mi ricordo perché (forse avevo fiutato qualcosa), ma quella mattina telefonai in carcere e mi dissero: “Non devi venire! Stai attento!â€
Raggelai. Neanch’io ero contento di come era stata costruita quell’intervista, e compresi di essermi cacciato in un grosso guaio. Decisi di prendere un’aspettativa di un mese. Mandai un fax alla direzione, ma dentro di me ero convinto di aver preso la decisione giusta, a qualunque costo: avrei testimoniato e detto la verità, in qualunque sede e di fronte a qualunque tribunale.
Mentre firmavo la mia deposizione, in tribunale, ho detto al giudice Pinto: “Io in questo momento sto firmando la mia cacciata dal carcereâ€. Sapevo già come sarebbe andata a finire. Nel nostro ambiente non ti puoi permettere di essere un traditore, non ti puoi permettere di raccontare delle cose all’esterno. Ciò nonostante, quando li ho incontrati fuori dal carcere, molti sono stati solidali con me. Mi hanno solo detto che avrei potuto evitare di dire che mi ero nutrito di violenza. “Ora tutti penseranno che siamo dei criminali†mi dicevano.
Se avessero ascoltato tutta l’intervista, avrebbero sentito che io ho aggiunto che non si può criminalizzare un’intera amministrazione per una ventina di delinquenti.
Lo Stato, invece di negare l’evidenza, dovrebbe ammettere quello che è successo: lì molti sono stati picchiati ed è stata annullata la loro dignità di uomini e di donne. Chi ha sbagliato deve essere punito.
E non perché voglio che qualcuno vada in galera, ma perché capiscano che fare l’agente o fare l’infermiere è un mestiere delicato. È un lavoro svolto per la società, non per assecondare le proprie idee politiche. Le proprie frustrazioni, i nervosismi bisognerebbe lasciarli da parte.
Questa amministrazione ne uscirebbe bene a dire: è vero, è successo qualcosa, ci impegniamo perché non succeda più!
Perché nascondere? L’hanno visto in tutto il mondo, quello che è successo.
A Bolzaneto è stato un po’ diverso perché non c’erano telecamere. La nostra testimonianza, mia e di Ivano, proprio per questo, ha un valore ancora più grande.
Improvvisamente, si accesero su di voi le luci dei media. Hai rilasciato interviste a numerosi giornali e diverse televisioni. Tutti volevano ascoltare quello che avevi da dire. Il senatore Longhi, provocatoriamente, propose il tuo nome per un encomio solenne. Nella fitta stagione di incontri e dibattiti sui fatti del G8, hai girato mezza Italia per cercare di fare conoscere la tua verità.
I media hanno, però, un modo strano di agire: ti usano fin quando la tua storia scotta e poi, altrettanto velocemente, spengono i riflettori e ti lasciano solo con le tue paure e i tuoi problemi.
La tua intervista alla RAI ha probabilmente accelerato la cacciata dal carcere, ma non è solo questo il problema. A nessuno è importato il fatto che tu sia stato messo alla porta per avere svelato la verità, ma neanche questo è il problema principale.
Il vero problema è che, a poco a poco, la gente si dimenticherà di quello che è successo a Bolzaneto. E il nostro paese continua a privarsi di pezzetti di memoria.
Mi sembrava quasi di aver sopraffatto i miei sensi di colpa e di aver rimediato alla mia inutilità e al senso d’impotenza che mi bloccò durante i giorni di Bolzaneto.
Dopo due mesi, volevo tornare a lavorare e mi è stato “sconsigliato†di farlo.
Il dirigente sanitario - il dottor Paolillo - durante un colloquio fuori da carcere mi disse: “Non vorrei essere io quello che ti fa la visita come nuovo ingressoâ€. In gergo penitenziario, aveva detto una cosa molto chiara: aveva il sospetto che mi potessero incastrare. In carcere si chiama “biciclettaâ€.
La “bicicletta†si fa costruendo false prove a carico di un individuo che si vuole minacciare o far arrestare. Potrebbero mettere nell’armadietto della droga o qualsiasi altra cosa compromettente. Paolillo alludeva proprio alla possibilità che mi facessero arrestare e che lui dovesse farmi la visita come nuovo detenuto.
Ho avuto paura che potessero farmi davvero qualcosa. In quei momenti pensai soprattutto alla mia famiglia, a mia moglie che mi aveva chiesto di non rischiare: non volevo dare a loro altre preoccupazioni. Se fosse stato per me non avrei rinunciato a lottare.
Al termine dell’aspettativa, pensando che le acque si fossero calmate, sono tornato a lavoro per concordare il mio rientro
(visto che sono un infermiere a libera professione, non un dipendente) e mi sono subito accorto che qualcosa era successo perché al cancello, per la prima volta in quindici anni, mi hanno chiesto il documento. La procedura era corretta, perfettamente giustificata, ma non me l’avevano mai chiesto prima.
Una mia sensazione di sospetto era più che legittima. D’altronde, nessuno aveva chiesto la revoca del mio permesso.
Vidi il nuovo direttore (era cambiato da poco) che mi disse distrattamente di parlare col vice, che aveva delegato perché risolvesse la questione. Sembrava quasi che con me non volesse neanche parlare. Andai a parlare col vice, accompagnato da Paolillo: “Allora che vuoi fare?†mi chiese il dirigente sanitario. “Io voglio tornare! Non ho mica fatto niente di male!†“Ma sai… è per il tuo bene…†cercavano di convincermi.
Se facessero tutti così, allora non salterebbe in mente mai a nessuno di testimoniare. La mia rabbia era aumentata anche dalla consapevolezza che stavo parlando con due persone veramente democratiche. Due persone che sapevano bene come stavano le cose: Paolillo era il medico che se ne andò da Bolzaneto il primo giorno.
Allora il vicedirettore, Luca Candiano, accennò che la mia colpa sarebbe stata quella di avere fatto dei “comiziâ€. Si riferiva ai dibattiti che c’erano stati con i colleghi al mio ritorno da Bolzaneto. Come se nessuno sapesse quello che è successo veramente a Genova!
Nell’ambiente penitenziario, tutti sanno quello che è successo. Anche chi non c’è stato conosce perfettamente i fatti. Tutti sanno benissimo che io non ho mentito. Tutti sanno che Pratissoli non ha mentito. Lo sanno! Il nostro è un ambiente piccolo, perché i detenuti si spostano, gli agenti si spostano…
Io ci lavoro da quindici anni, mica da quindici giorni, nelle carceri.
Nell’amministrazione penitenziaria hanno modi obliqui di agire, cercano mille scuse per cacciarti, magari soltanto perché contesti o perché non sei un burattino. Avevano provato un’altra volta a cacciarmi, ma mentre allora mi mandarono la richiesta di revoca della convenzione dopo due giorni, questa volta io non ho mai ricevuto nessuna richiesta di dimissioni o revoca. Non ne hanno avuto il coraggio perché sanno che avrei vinto la causa. Io mi sento ancora parte dell’amministrazione penitenziaria, mi sento a tutti gli effetti un dipendente dello stato italiano. Forse do fastidio a qualcuno - mi hanno detto che non sono “gradito†- ma non smetterò mai di raccontare la verità e di lottare per tornare a lavoro.
Mi accusano di essere un infermiere infame, mentre loro non sono stati capaci di mantenere l’ordine, quando loro non sono stati capaci di assicurare la salute dei detenuti.
A me mi è crollato il mondo. Ho vissuto per quindici anni in una galera “sana†e poi mi sono trovato dentro un inferno.


Infame

La tua storia colpisce. Colpisce l’assurda contrapposizione fra “l’eroe†e “l’infameâ€. Raccontare e denunciare un reato fa parte del dovere di un cittadino responsabile; perché stupirsi e osannarti nel momento in cui fai una cosa “normalissimaâ€?
Ti consideri un traditore? Che cos’è per te il tradimento?
Sono considerato un infame, un traditore. E pensare che, prima di Bolzaneto, volevano propormi per un encomio solenne. Avevo risolto una situazione critica con un detenuto che si era barricato in infermeria, aveva buttato fuori il medico e ci minacciava con una siringa.
Quest’uomo, dopo aver distrutto tutto, si tagliò, scrisse delle frasi “misticheâ€, poi mise il sangue in un bicchiere e lo bevve. Si trattava, fra l’altro, di un sieropositivo, per cui bisognava stare attenti a non andare a contatto con lui, altrimenti era la fine. Si era infilato in angolino e diventava difficile raggiungerlo e fermarlo. Tutti erano in assetto antisommossa, venne anche il magistrato che disse: “Vabbè fate voi†e se ne andò. Poi telefonò il provveditore al direttore, che chiese: “C’è lì Marco Poggi? Fate provare lui, perché magari fra matti si capiscono!â€
Io ci sono andato e, dopo un quarto d’ora, sono riuscito a farmi consegnare l’estintore e, dopo altri dieci minuti, la siringa. Però, io gli promisi che nessuno l’avrebbe picchiato e nessuno lo toccò!
Sono considerato un infame, un traditore. Dicono che abbia tradito anche l’AMAPI (Associazione Medici Amministrazione Penitenziaria Italiana). Per cinque anni sono stato il responsabile nazionale di questa associazione del settore tecnico infermieristico. E uno dei dirigenti era, ed è ancora, proprio Paolillo. Poi, con un gruppo d’infermieri, abbiamo capito che la AMAPI non faceva compiutamente gli interessi degli infermieri e, nel 1998, abbiamo deciso di abbandonarla e creare un sindacato autonomo degli infermieri penitenziari.
Loro hanno detto in tutta Italia che noi avevamo tradito, che li avevamo “pugnalati†alle spalle. Bolzaneto ha portato molti problemi al nostro sindacato. È stata fatta una campagna molto cattiva nei miei confronti, che ha portato molti infermieri a lasciare il sindacato. La nostra proposta politica, però, si è molto rafforzata. In molti, si sono accorti dei problemi che affliggono la medicina penitenziaria.
In definitiva, io non mi sento un traditore. Avrei tradito lo stato e la mia coscienza se mi fossi comportato diversamente. Sono stati altri a tradire: ha tradito quel medico che ho denunciato, ed è proprio perché ha tradito il suo ruolo e la sua professione che ho deciso di denunciarlo.
Hanno tradito quei pochi infermieri e quei medici (tanti) che hanno ostacolato un nuovo modo di trattare la malattia mentale.
Io non ho tradito la AMAPI, dopo che per un anno e mezzo ho tentato invano di far valere i diritti e l’indipendenza degli infermieri.
Io non ho tradito gli agenti della penitenziaria. Loro hanno tradito la divisa e il codice penale con tutte quelle nefandezze commesse a Bolzaneto.
Io non mi sento un traditore. Ho sempre avuto, invece, la convinzione che queste istituzioni totali potessero essere rese un po’ più democratiche. Sono, semmai, coerente fino in fondo, coerente fino all’eccesso, a volte.
Quando ero coordinatore del servizio tecnico infermieristico mi sono fatto, da buon matto, perfino un rapporto disciplinare da solo: avevo commesso degli errori e ho dovuto ammetterlo. Ho fatto anche tre rapporti disciplinari a mia figlia che a quei tempi, anche lei infermiera, lavorava con me in carcere. E non perché non voglio essere elastico ma perché prendere un impegno significa doverlo mantenere fino in fondo.
L’assurdo, in questo paese, è che io venga tacciato come un infame e contemporaneamente venga proposto per una medaglia. Io non merito nessuna delle due cose. A me non interessa neanche di essere malvisto e accusato d’infamia. La mia grande paura è che il nostro gesto non abbia insegnato niente a nessuno. Io sono un idealista, penso che si debba lottare quando le cose non vanno come dovrebbero. Ognuno dovrebbe fare qualcosa. Io, nel mio piccolo, lo sto facendo attraverso la mia testimonianza.


IO, L’INFAME DI BOLZANETO


Buona parte di quello che siamo, di quello che diventiamo dipende fortemente da ciò che assorbiamo già fin dai nostri primi anni di vita. In questo senso, dipende anche dal rapporto e dalla trasmissione dei valori attraverso le generazioni.
La vita di Marco Poggi è stata molto densa, molto varia nel suo passare attraverso esperienze forti e diverse, dal lavoro in manicomio al passaggio “dalla parte del pazienteâ€, dalle esperienze nella sanità penitenziaria a quelle di Bolzaneto durante il G8.
Ci sono, nel tuo vissuto, elementi forti nel rapporto con i genitori, o con altre persone importanti, che hanno, in qualche modo, influenzato la tua vita e formato il tuo carattere?
Io vengo da una famiglia antifascista; da una famiglia che a causa del fascismo ha subito grandi sofferenze. Mio padre e mia madre erano persone di sinistra: mio padre è sempre stato comunista, anche se non ha mai voluto iscriversi al partito perché contrario a quanto avveniva in Unione Sovietica. Era un bravo meccanico e andava sempre alle feste dell’Unità per costruire e montare gli stand. Mia nonna è stata una staffetta partigiana; suo fratello medaglia d’oro alla Resistenza.
Mio nonno è stato prigioniero in Africa per sei anni.
Nella loro vita hanno cercato di fare tesoro del loro vissuto e hanno fatto di tutto per trasmettermi un insegnamento fondamentale: non bisogna accettare le ingiustizie. Nella mia famiglia non abbiamo mai accettato le ingiustizie.
Durante l’infanzia, non ho avuto un rapporto molto esaltante con mio padre e mia madre. I miei genitori, per molti anni, hanno lavorato fuori città e io ho vissuto prevalentemente con i nonni materni. Le persone importanti nella mia vita, quelle con cui sono cresciuto e da cui ho imparato molto, sono stati proprio i miei nonni.
L’altro rapporto fondamentale è quello con mia moglie. Devo tantissimo a lei; se non sono diventato un matto abituale è perché ho avuto al mio fianco una donna straordinaria. Non potete neanche immaginarvi che donna sia. Non sono frasi fatte, come quelle che si sentono nei film. Questa è vita vera, vissuta. Ho avuto una fortuna che molti altri non hanno.
Alla fine, se faccio un bilancio della mia vita, fra quello che é entrato e quello che è uscito, io sono in attivo. Anche se ho sofferto molto, davvero, e ho fatto soffrire la mia famiglia.
Pensando al rapporto che hai avuto con i tuoi genitori, che cosa pensi di avere imparato quando hai dovuto gestire il rapporto con i tuoi figli?
Penso di non essere stato un ottimo padre. Con i miei figli sono sempre stato molto severo, anche perché ero terrorizzato dalla droga e pensavo che il rispetto, o la soggezione, verso l’autorità paterna potesse essere un deterrente.
Ho cercato di insegnare ai miei figli che tutto quello che volevano se lo dovevano guadagnare - poi è ovvio che ci sono sempre il padre e la madre a dare una mano, quando serve e, infatti, mio figlio a trentatré anni ha realizzato qualcosa di completamente suo, ha aperto un bel ristorante a Bologna; mia figlia, nonostante io non l’abbia incoraggiata, oggi è un’ottima infermiera e abbiamo spesso lavorato insieme.
I figli assorbono sempre un po’ della sensibilità e dei valori che si respirano in famiglia. Quando sbagliamo, o li ignoriamo, siamo responsabili del loro sradicamento. Non accetto che un adulto dica che i giovani sono tutti fessi e sfaticati; non è vero e, anche quando lo è, dipende molto dalle distrazioni e dal fallimento delle generazioni precedenti.
Dobbiamo stare attenti ai messaggi che trasmettiamo ai giovani: se i nostri messaggi sono quelli che sono stati dati a Bolzaneto, o che sono dati a un giovane che finisce in carcere, è chiaro che nascono dei problemi. L’equilibrio fra la pena e l’atto di cui si è colpevoli deve essere mantenuto, chiaramente. I problemi nascono quando questo equilibrio si rompe: se io ti allungo un calcetto nel sedere perché ti sei comportato male, può anche far parte del “giocoâ€; se io invece ti sferro un cazzotto nel naso, non può più essere parte di quel “giocoâ€.
C’è chi lavora una vita per lasciare dei soldi ai figli. Io non ho soldi da lasciare ai miei, ma spero almeno di trasmettere loro il senso della giustizia e della speranza. Parlo molto con loro, cerco di educarli attraverso quello che ho imparato durante la mia vita, perché penso che sia l’unico modo per sentire di non aver vissuto inutilmente.
Tu fai un mestiere, quello dell’infermiere, che ami molto e che ti ha segnato in maniera decisiva. Come è entrata questa passione, nella tua vita? Qual è stato il tuo impatto col mondo del lavoro?
Ho iniziato presto a capire cosa vuol dire lavorare. Ero ancora in quinta elementare quando, d’estate, cominciai a cercare di racimolare qualche soldo facendo il “ghiacciaioloâ€. Allora non c’erano i frigoriferi ma le “ghiacciaine†e le signore ordinavano i pezzi di ghiaccio per mantenere sempre una temperatura abbastanza bassa. Lavoravo a porta San Mamolo, a
Bologna: lì c’era uno di quei mercatini dove si trovava di tutto, e io facevo il corriere per un venditore di ghiaccio.
Sin da piccolo ho sempre avuto la passione per il volontariato. Ho vissuto a contatto con la sofferenza e ho imparato che é parte della vita di tutti.
D’estate andavo a una colonia del comune di Bologna, una colonia per indigenti - i miei genitori erano onesti, ma poveri - e avevo un amico che veniva sempre insultato da tutti per i suoi difetti fisici. Aveva la scoliosi, un corpicino rachitico e una testa enorme, che tendeva a cadere in avanti, accentuando l’effetto della sua schiena curva. Gli altri lo schernivano e lo prendevano in giro: “Gobboâ€, lo chiamavano. Non si accorgevano di quanto fosse intelligente e sensibile. Io, invece, ho costruito con lui un lungo rapporto d’amicizia, del quale sono sempre andato fiero, e ho imparato a conoscere molto sulla “diversità†e sull’emarginazione .
Dopo, durante l’adolescenza, ho fatto tanti piccoli lavori, come tutti, finché non ho trovato la mia strada.
Come molte altre cose della mia vita, anche questa scoperta avvenne in modo molto casuale. Nel 1969, concluso il servizio militare, tornai a casa e venni a sapere di un’associazione, la Croce Italia, che in quegli anni dava vita a una delle prime esperienze di volontariato e di assistenza pubblica a
Bologna, con un servizo di ambulanze. Lavorai come volontario per circa un anno e mezzo e poi decisi: “Voglio andare a lavorare all’ospedale Maggiore. Voglio fare l’ausiliarioâ€.
Ne parlai ad altri ragazzi che erano lì e qualcuno mi disse: “Vieni al “Roncatiâ€, fanno un corso da infermiereâ€.
Fu così che diventai infermiere psichiatrico e iniziai la mia attività nel sanitario “non normaleâ€. Dico “non normale†perché, secondo me, il carcere e il manicomio sono dei posti al di fuori della normale assistenza infermieristica e arricchiscono in maniera incredibile le persone che operano all’interno, posti in cui la visione della vita ti si allarga e i contorni si sfumano. Il manicomio non era un ospedale “normale†non soltanto per le patologie che doveva curare e gestire, ma era diverso soprattutto per la durata delle degenze. Nei nosocomi, salvo qualche caso raro, non vi erano e non vi sono degenze molto prolungate nel tempo. In manicomio, invece, accadeva sistematicamente il contrario. Molti pazienti, ricoverati nel periodo in cui io iniziavo a lavorare, erano ancora lì dopo vent’anni.
Questo portava alla costruzione di rapporti speciali fra operatore e paziente; spesso l’infermiere, o l’infermiera, era l’unica persona a rimanere vicina al paziente, più della famiglia. Spesso il manicomio serviva alla famiglia proprio per scaricarli e togliersi ogni responsabilità.
È facile comprendere come fra pazienti e sanitari, per tutti questi motivi, potessero nascere sentimenti molto forti.
Alla fine del corso, ebbi la fortuna di ottenere un ottimo punteggio (avevo venti anni e già dei figli). Così, dopo un anno, nel marzo 1972, cominciai il mio servizio al Lolli di Imola.


Il manicomio


Quando iniziai a lavorare al Lolli di Imola fui assunto come giornaliero - in teoria, ogni giorno venivi licenziato e riassunto, se andava bene, altrimenti potevano cacciarti in qualsiasi momento - e fui assegnato temporaneamente al reparto quindici (era l’infermeria), affiancando l’allora sorvegliante (in manicomio, si chiamavano così i caposala). L’impatto è stato traumatico. Le prime volte tornavo a casa piangendo, soprattutto quando venivo assegnato al reparto dei bambini, ma poi pensavo alle difficoltà che c’erano in altri lavori e… fare l’infermiere mi piaceva. A quel tempo, l’infermiere aveva prevalentemente il compito di reprimere gli stati patologici che potevano portavare il paziente ad atti di violenza.
Anni dopo, con l’avvento della legge 180, si è dimostrato che gli infermieri potevano fare molto di più.
Il ruolo dell’infermiere era soprattutto quello di contenere i casi più gravi con repressione chimica o meccanica, anche se nelle procedure ci potevano essere delle differenze, date dalla lungimiranza di alcuni operatori sanitari o da contingenze favorevoli in alcune aree geografiche. Devo dire, per esempio, che negli istituti al Nord, dove mi sono trovato a lavorare, c’era molta più umanità, anche se rimanevano in ogni modo dei luoghi di repressione.
Il manicomio era un’istituzione totalizzante e violenta.
Quando venivano i parenti, noi dovevamo guardare dentro le borse, controllare cosa portavano e se c’erano oggetti o regali non adatti al paziente; dovevamo usare obbligatoriamente dei metodi in cui non credevamo. Alla violenza ci si abitua in fretta. Non mi dimentico che quando suonava l’allarme al “femminile†noi dovevamo accorrere là e, il più delle volte, dovevamo legare le pazienti al letto. Applicavamo delle grosse fasce di tela iuta bianca ai polsi, alle gambe e a volte all’altezza del torace perché l’ospite non potesse alzarsi con il capo e arrivare alle fasce per morderle.
Ho dovuto far indossare la camicia di forza, ho dovuto assistere all’elettroshock terapia, all’insulino-shock terapia. Cose tremende, che non si dimenticano. Forse meno tremende per chi le subiva come fatto terapeutico, perché c’era uno stato d’incoscienza, che per noi che le dovevamo applicare. A chi mi chiede se servivano, dico: ho visto anche dei benefici, quando erano fatte da medici intelligenti, in modi intelligenti.
Negli ultimi anni, cominciavano ad arrivare i primi drogati.
Bisogna ricordare che, all’inizio, la droga era un problema del manicomio. Poi, con la legge 833, finalmente, qualcuno capì che doveva occuparsene il servizio sanitario nazionale.
Anche se la droga poteva avere all’origine dei problemi d’origine psicologica, era certamente una situazione le cui radici erano, e sono, di natura sociale; l’aspetto sanitario poteva benissimo essere contenuto in un ospedale.
Eravamo agli albori del servizio sanitario nazionale, così come lo concepiamo oggi. Prima di ciò, la sanità, e quindi gli ospedali, era di competenza dei comuni e i manicomi dipendevano dalla provincia. Si trattava di un servizio estremamente frammentato, disomogeneo.
A Bologna, dove ho svolto per molto tempo il mio lavoro, la psichiatria in realtà non è stata mai gestita dal mondo scientifico ma dal mondo politico. Mi ricordo che l’assessore alla sicurezza sociale (così si chiamava allora) della provincia di Bologna, quando i manicomi passarono alle USL, diventò assessore alla sanità: fra l’altro, il comune di Bologna era l’unico che aveva due assessori alla sanità. Sempre quello stesso assessore è poi diventato anche presidente dell’USL deputata alla gestione degli ospedali psichiatrici. Era inevitabile, essendo sempre le stesse persone a gestire gli istituti di cura, che le innovazioni e cambiamenti tardassero ad arrivare.
Non dimentichiamo che a Bologna fummo proprio noi infermieri, tramite un circolo ARCI, a cominciare a portare una ventata di nuove iniziative; cercavamo di far vedere che i nostri pazienti, nonostante fossero persone con dei problemi, potevano vivere in un contesto sociale normale, potevano smettere di condurre una vita da reclusi. Siamo stati noi a cominciare tutta una serie di attività di riabilitazione. Avevamo in gestione un bar e facevamo ottimi guadagni che poi reinvestivamo in attività con i pazienti. Siamo stati i primi in Italia, credo, e comunque sicuramente i primi nella regione Emilia Romagna, a portare i pazienti al mare in una pensione. Prima i pazienti andavano in una colonia, la “Vighi†nella costa romagnola, che veniva recintata. Addirittura era recintato anche il tratto in cui facevano il bagno. Si trattava di una colonia per bambini che, appena finito il periodo estivo, veniva attrezzata con i letti grandi ma rimaneva comunque un manicomio, un po’ meno severo ma sempre un manicomio.
Noi invece cominciammo a portarli in una pensione vera. Organizzammo anche delle bellissime feste. Cominciammo attorno al 1976-77. Veniva della gente da fuori, portavano torte e dolci a volontà, infondendo un ottimismo e un’allegria altrimenti molto difficili da provare in posti come quello. Realizzammo molti spettacoli di prestigio grazie soprattutto a un orchestrale bolognese, Amedeo Fanti, che ci “adottò†e che per anni venne a suonare gratis ogni Natale.
Credo di non avere mai passato il giorno di Natale a casa, durante quegli anni. Abbiamo avuto l’orchestra del conservatorio di Bologna, i Casadei, il Comaschi alle prime armi come cabarettista. Bergonzoni ha fatto fortuna proprio imitando i personaggi del manicomio; cominciò a diventare famoso andando al Maurizio Costanzo Show a fare queste imitazioni in modo assolutamente non volgare, imitazioni che tentavano di sdrammatizzare, di strappare un sorriso e una riflessione sui temi della malattia e dell’handicap. Ci ha aiutati tutti facendo, in manicomio, una lunga serie di spettacoli.
È proprio da queste “sensibilità†che cominciava a nascere quel movimento di liberalizzazione e di gestione nuova della malattia mentale. Già ben prima della 180, a livello spontaneo o organizzato, facevamo attività con i pazienti. Alcuni infermieri portavano fuori i pazienti per una passeggiata, per vedere un film al cinema o per altri svaghi.
Alle volte sembravamo proprio una grande famiglia, soprattutto quando si andava al fiume a fare picnic.
Non mancarono anche i dubbi e i dibattiti interni, riguardo a questo tipo di attività. Si pensava, nella maggioranza dei casi, che le feste dovessero essere finalizzate non solo di divertimento, ma soprattutto all’inizio di positiva promiscuità fra paziente e cittadino sano: questo confine netto, in realtà, non esiste e gli uni e gli altri dovrebbero potersi conoscere per poi convivere. Ancora oggi la collettività sa poco di questa piccola isola in cui abitavano i “pazzi†e meno ancora sapeva durante gli anni Settanta.
In effetti, il manicomio come il carcere, da strutture totalitarie, facevano trapelare ben poco all’esterno: uno dei compiti che ci eravamo prefissi era proprio quello di creare i presupposti per una futura (la 180 era vicina, e già se ne parlava) e civile convivenza.
All’inizio fu molto dura. Non tutti erano d’accordo sui nuovi metodi e tanti colleghi aspettarono anni prima di aderire a questi progetti. Dopo, lentamente, anche per la resistenza di alcuni settori della società e del personale medico, si cambiò rotta, anche se non sempre tutto filava liscio e la nostra attenzione e le nostre responsabilità aumentarono notevolmente.
Poi ci fu la fine del tabù della divisione fra uomini e donne.
Fino a che fu in vigore la vecchia legge 904, io lavoravo al reparto tre - i reparti erano divisi per patologie similari: gli schizofrenici, i “pericolosiâ€, i “buoni†(e il tre era quello dei “buoniâ€) - e facevo la ronda di notte, giravo per i cortili del Roncati per assicurarmi che i pazienti non avessero rapporti sessuali; allora anche a noi infermieri uomini era proibito andare nei reparti femminili, a meno che non si fosse verificata qualche emergenza.
Tutto questo, a un tratto, cessò e la fine della separazione fra uomini e donne provocò un periodo di caos. Fu una rivoluzione fatta in maniera criminale e, proprio per questo, mi sentii in dovere di denunciare il primario. Il primario, in accordo con altri responsabili, decise, nello spazio di una mattina, di cambiare tutto e di mettere assieme uomini e donne, sconvolgendo ogni loro abitudine. Non si trattava solo di un fatto organizzativo, non solo di spostare qualche armadietto.
Dovete sapere che quello psichiatrico non è un ospedale normale. Lì si entrava e si stava una vita! Era “l’ergastolo della folliaâ€; per certi versi si era più liberi stando in un carcere.
Bisogna anche ricordare che, entrando in manicomio, si perdevano i diritti civili (non si poteva più votare, guidare e molto altro). E stiamo parlando di “malatiâ€, non di detenuti.
Non si erano resi colpevoli di alcun crimine. La gente spesso se le dimentica queste cose, ma una volta era così. Per il malato, quindi, l’armadietto e il letto non erano semplici oggetti: erano la sua casa; anche solo spostarsi di qualche decina di metri, andare al piano di sopra, poteva diventare uno sconvolgimento enorme. Noi dicemmo a questo primario: “facciamolo, ma facciamolo gradualmenteâ€. Loro, invece, s’intestardirono a fare il cambiamento in modo drastico, in una giornata e, inevitabilmente, accadde di tutto. Abbiamo avuto accoltellamenti, tentativi di stupro, pazienti che, anche a causa di quegli spostamenti, hanno commesso reati che li hanno portati in manicomio criminale...
Io, allora, andai in questura e denunciai il primario, anche se prima di farlo riflettei molto. Un poliziotto mi chiese: “Ha degli episodi particolari, da raccontare?â€. “Perbacco!†risposi io, e raccontai un episodio avvenuto il giorno prima: un ragazzo turbolento che in seguito a quegli spostamenti aveva distrutto due ambulanze.
Il primario prese il migliore avvocato di Bologna e fu assolto in istruttoria. Credo che il giudice non lesse neanche i rapporti degli infermieri.
E io fui mandato in commissione d’inchiesta. Fra l’altro, nella commissione che doveva giudicare c’era anche il direttore del manicomio e, dato che “cane non mangia caneâ€, la questione andò a finire così: io ebbi la solidarietà formale dei colleghi e la cosa si concluse con un nulla di fatto. Subito dopo cominciai a bere, arrivando quasi a una bottiglia di whisky al giorno. Cercavo di farmi una ragione di quello che era successo: non sapevo come accettare la mia impotenza, non sapevo come potessi evitare che accadessero quelle cose nei confronti di malati indifesi. Il tutto sfociò in una forte depressione. Mi ricoverarono in clinica dove mi imbottirono di massicce dosi di psicofarmaci, fino a quando il responsabile medico, tornando da una malattia, vide la mia terapia e si infuriò con chi l’aveva prescritta. Smisero di darmi altri farmaci.
Erano queste le cose che potevano accadere all’interno di un luogo “alieno†come erano i manicomi di allora. Il primario che avevo denunciato e il direttore, già all’inizio del mio ricovero, mi dissero che avevano pronti una serie di TSO (Trattamento sanitario obbligatorio - il trattimento sanitario obbligatorio è un intervento coercitivo che obbliga un paziente, considerato malato di mente e potenzialmente violento, ad assunzioni di psicofarmaci e alla eventuale reclusione in manicomio. Si trattava di un provvedimento che prescindeva dal parere del paziente e della sua famiglia. Dopo la legge 180, il TSO è stato riformato e prevede maggiori tutele, ma resta un provvedimento di carattere eccezionale perché in conflitto col rispetto per i diritti della persona ndc) che altri medici non condividevano: anche se nella forma potevo anche avere qualche problema, nella sostanza loro sapevano benissimo che non ero pazzo.
Feci otto mesi a casa, poi un bel giorno buttai via tutto, non presi mai più alcool, tranne che qualche volta con gli amici, e cominciai a reinserirmi. Ripresi il mio lavoro e, a differenza di quanto sta succedendo adesso in carcere, ho avuto alcuni colleghi che mi sono stati molto vicini, per vera fratellanza; penso a Cenacchi Ruggero, Malini Gianni e Mezzetti Ernesto, Valeria Ventura, Maria Merighi e molti altri che per opportunità di spazio non cito. Perché la malattia mentale faceva quello negli infermieri: anche se non ci fosse stata simpatia, c’era una grande solidarietà, una coscienza che tutti avremmo potuto avere dei problemi con quel “mostro†che cercavamo di curare giorno per giorno.
Racconta ancora del tuo periodo di depressione. Cosa è stato per te il “passare dall’altra parte� Anche alla luce di quello che ti sta succedendo adesso, che cosa pensi di avere imparato?
Io sono stato per dei mesi senza parlare, ed era molto strano per un logorroico come me. Però ho fatto tesoro di quella vicenda. Era vero che stavo passando un periodo di delirio: ho studiato centinaia di modi per ammazzare il mio primario.
Mai con l’intenzione di farlo davvero, mai in senso fisico compiuto: non ne avrei avuto il coraggio.
Ho imparato molto da quell’esperienza e una cosa l’ho spiegata anche ai miei colleghi, anche se non so se tutti abbiano capito. Quando io ero pieno di psicofarmaci e avevo la famosa lingua “liquirizia†- la chiamavano così, perché appena cominciavi ad assumere le prime dosi di psicofarmaci diventava nera e appiccicosa -, quando ero disidratato e facevo fatica a deambulare - perché io ho preso dosi veramente forti di neurolettici - ho capito che gli psicofarmaci portano un vantaggio solo a noi infermieri. Il malato è più sedato ma dentro, nel profondo della psiche, è uguale a prima.
Mi piaceva la frase di un dottore giovane che, quando gli infermieri la mattina chiedevano di poter dare dei farmaci ai pazienti, diceva: “Va bene, sediamo i pazienti per fare stare tranquilli gli infermieriâ€.
Non è vero che lo psicofarmaco toglie il delirio, lo psicofarmaco impedisce che la follia sfoci in gesti violenti o indesiderati. Quella mia esperienza mi ha aiutato a capire come si sentivano i pazienti. Negli ultimi cinque anni non ho toccato più nessuno.
Solo una volta mi successe di avere uno scontro fisico: un paziente un giorno mi saltò addosso con una catena, ed io dovetti fermarlo. Gli feci abbastanza male ma ancora adesso siamo molto amici.
In quel periodo nei manicomi ne succedeva di tutti i colori.
Certi medici facevano il giro nei reparti e, quando un paziente chiedeva loro di poter uscire in cortile al pomeriggio, rispondevano: “Certo, che vi facciamo uscireâ€, ma poi a noi ordinavano di fare tutto il contrario e questo portava a colluttazioni e scontri continui. Portava i pazienti a sentirsi ancora più delusi ed emarginati.
Una cosa a cui non sono mai riuscito a fare l’abitudine era l’insulino-shock terapia. I pazienti venivano legati sopra il lettino di contenzione e veniva loro somministrata una dose massiccia di insulina. Venivano messi in coma, seppure un coma guidato, farmacologico, e questi ragazzi gridavano, si dimenavano. Era molto peggio anche rispetto all’elettroshock, che dava delle scariche elettriche nei lobi del cervello. A Bologna credo che l’elettroshock sia stato fatto da medici intelligenti, in maniera intelligente, con tanto di anestesia. Con l’elettroshock ho, a volte, visto dei benefici sui pazienti, ma con l’insulina mai, assolutamente. Anche perché con l’insulina bisognava stare molto attenti, poteva avvenire un ritorno, un calo ipoglicemico rischiosissimo, con ancora dell’insulina non metabolizzata bene, motivo per cui noi tenevamo sempre 10-15 cc di Glucosio pronti per queste emergenze. Questa era la psichiatria di allora.
Ogni sera sapete quanti pazienti eri costretto a legare? A volte erano proprio loro a voler essere legati, perché solo in quel modo si sentivano tranquilli. Pian piano, cominciammo a non legare più nessuno: il sistema stava cambiando.
Fino all’entrata in vigore della 180, ci si rifaceva ad una legge regia del 1904. Una legge che, evidentemente, portava i retaggi di un periodo in cui la psichiatria era ancora agli albori. Tant’è che il passaggio alla nuova legge fu un punto cruciale dell’intera storia italiana. Per molti anni, anche molti studiosi stranieri vennero da noi a studiare il cosiddetto “modello italianoâ€.
Ma partiamo dalla 904: in cosa consiteva? E cosa cambiò con la legge 180?
La 904 era una legge non molto lunga, promulgata dal re nel febbraio 1904. Nel manicomio non si entrava per libera scelta, ma per ordine del prefetto o del questore. I pazienti non eranodetenuti ma perdevano molti dei loro diritti civili. Così é stato dal 1904 fino al giugno 1978.
Già prima di questa data erano cominciati, in diverse città italiane, una serie di sperimentazioni e di progetti alternativi.
Basaglia fondò, Psichiatria Democratica e molte altre correnti di studiosi parteciparono a un processo collettivo di ridefinizione della malattia mentale. Nel nostro piccolo, noi infermieri usavamo umanità e buon senso anche nelle piccole cose che dovevamo gestire nella quotidianità della vita manicomiale. Furono tante le posizioni e le sfumature espresse dalla società italiana in merito a un’eventuale riforma, ma tutto si condensò nella legge 180, la cosiddetta “legge Basagliaâ€.
Fino alla 180 la follia non era considerata una malattia, ma un problema di sicurezza sociale e non un problema sanitario, quindi gestito dalle amministrazioni provinciali. A Bologna erano stati creati due grandi “contenitoriâ€: il Francesco Roncati e il Lolli di Imola, dove poi c’era l’altro ospedale che serviva le province di Ravenna e di Forlì. La scienza non dava ai malati molta alternativa: potevano passare dalla camicia di forza alla contenzione chimica (con i neurolettici) oppure all’elettroshock.
La 180 fu una legge fatta in fretta. Si volevano chiudere i manicomi e anticipare alcune parti della riforma del servizio sanitario nazionale, quella che istituì le USL. La riforma chiuse i manicomi senza fornire strutture alternative. In realtà, fino al 1981 in manicomio venivano ancora ricoverati quelli che già in passato avevano usufruito di un ricovero, per gli altri scattò l’impossibilità del ricovero.
Basaglia, ispiratore delle legge, voleva dare dignità alla medicina psichiatrica e non disse mai, a differenza delle semplificazioni che gli attribuirono i suoi detrattori, che la malattia mentale non esiste. Basaglia disse che bisognava smettere di trattarla come una semplice questione chimico-fisica.
Il vero problema di quella legge è che non fu adeguatamente finanziata: è chiaro che se chiudi i manicomi e poi non crei nient’altro…
Basaglia ebbe una grande intuizione: pensò che si potesse passare da una medicina repressiva a una medicina curativa, o almeno palliativa alla repressione. Lui ebbe la grande fortuna di trovarsi l’amministrazione provinciale consenziente.
Andò lì e disse qualcosa del tipo: “Se io risparmio dei soldi, per esempio sulle spese per i farmaci, posso riutilizzarli per altre attività, per affitti, per dei sussidi?â€
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CHI È BASAGLIA?


Franco Basaglia nasce a Venezia l'11 marzo 1924. Si laurea nel 1949 e fino al 1961 lavora ed è assistente presso la Clinica di malattie nervose e mentali di Padova. In questi anni, a un'intensa produzione scientifica sulle più diverse condizioni di malattia incontrate nella pratica clinica, unisce un forte interesse per la filosofia. Nel 1958 Basaglia ottiene la libera docenza in Psichiatria e nel 1961 vince il concorso per la direzione dell'Ospedale psichiatrico di Gorizia. L'impatto con la realtà del manicomio è durissimo. Aiutato da un gruppo di giovani psichiatri, Basaglia cerca di seguire il modello della "comunità terapeutica" di origine inglese, che definisce nuove regole di comunicazione all'interno dell'ospedale. Le riforme sono numerose: per esempio, vengono eliminati tutti i tipi di contenzione fisica e le terapie di shock.
Nel 1968 pubblica "L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico", che diffonde al grande pubblico l'esperienza goriziana. Il libro ha un successo strepitoso e diventa un simbolo negli anni della contestazione.

Trieste

Nel 1971 Basaglia si trasferisce a Trieste, dove diventa il direttore del manicomio di San Giovanni. Appena arrivato avvia una serie di riforme innovative, così come era accaduto a Gorizia. A Trieste bisogna andare oltre la trasformazione della vita all'interno dell'ospedale: il manicomio va chiuso, non c'è spazio per nessun'altra alternativa. Al suo posto viene costruita una rete di servizi esterni che provvedano all'assistenza della persone affette da disturbi mentali.
Nel 1973 Trieste viene designata "zona pilota" per l'Italia nella ricerca dell'Organizzazione mondiale della sanità sui servizi di salute mentale. Nello stesso anno Basaglia fonda il movimento Psichiatria Democratica. Nel gennaio 1977, in un’affollatissima conferenza stampa, Basaglia e Michele Zanetti, presidente della Provincia di Trieste, annunciano che entro l'anno il San Giovanni verrà chiuso. Il 13 maggio 1978 viene approvata in Parlamento la legge 180 di riforma psichiatrica, ispirata proprio dalla teorie di Basaglia.

La legge 180

La "legge Basaglia" (legge 180/833) nacque a seguito di esperienze operative già in atto in diverse località (Trieste, Arezzo, Perugia ecc.), che si voleva diffondere su tutto il territorio nazionale, a seguito dei documentati danni derivati ai malati dalla loro permanenza in manicomio, in particolare a seguito dell'abbandono di ogni iniziativa terapeutico-riabilitativa in nome della semplice "difesa sociale". È la "legge Basaglia" ad introdurre i trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori: le norme precedenti prevedevano solamente ricoveri "coatti" a seguito di comportamenti "pericolosi a sé e agli altri e di pubblico scandalo".
Sostanzialmente, i malati mentali cominciarono a non essere più considerati “penalmente colpevoli†a causa della loro devianza e terminò l’obbligo di reclusione in manicomio.
La legge180, non ha mai smesso di suscitare polemiche.
Polemiche sulla concezione stessa di malattia mentale, se sia un problema di natura puramente psicologica oppure sociale, e sui modi e le cure per intervenire assistendo i “malatiâ€. In particolare, a oltre vent’anni dall’avvento della legge “Basagliaâ€, i dubbi riguardano la sua effettiva applicazione. I manicomi sono stati chiusi e i pazzi hanno smesso di essere torturati per legge ma nessuna altra struttura di assistenza efficace è stata ancora allestita. Le famiglie, o le cliniche private, hanno dovuto sobbarcarsi per intero, e spesso in modo fallimentare, il peso dell’assistenza ai malati di mente.
Regolarmente, in parlamento e fuori, gli italiani si interrogano sull’eventualità di riformare la legge 180.

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Per la Provincia non cambiava nulla, bastava che non aumentassero le spese.
Fu risparmiato qualche miliardo sulle spese per i farmaci perché i farmaci costano e spesso se ne fa un uso improprio - e questi miliardi Basaglia li reinvestì in maniera intelligente. Ecco perché dico che la 180 è una legge valida, se finanziata.
Dal 1981 la riforma entrò a regime e in manicomio non entrò più nessuno. Allora ci fu un dibattito infuocato sulla questione. Mi ricordo che molti primari fecero delle dimissioni selvagge, lasciando parecchi malati senza un’alternativa. Molti di loro morirono all’esterno, anche d’inedia perché non erano più capaci di adattarsi alla società, ne era no stati esclusi per troppo tempo. All’interno del manicomio la patologia si riusciva a contenere, sebbene con le medicine, ma una volta fuori i problemi si acuivano. Il passaggio fu traumatico. Molti non uscivano da trent’anni, magari erano ancora convinti che un chilo di pane potesse costare tre centesimi.
Molti primari, per dimostrare che la legge non era valida, hanno protestato in varie forme e, secondo me, alcuni hanno tenuto comportamenti tanto superficiali da avere anche delle colpe di rilevanza penale, per il modo in cui hanno trattato i malati. La loro intenzione era quella di dimostrare che le conseguenze della chiusura dei manicomi non potevano che essere negative.
Credo che la chiusura dei manicomi sia stata un bene, anche se non posso affermare che abbia risolto tutto o che non abbia aggravato alcune situazioni Conosco bene, però, com’erano i manicomi; li conosco da dentro e sono convinto che bisogna impedire che simili strutture riaprano. C’è il problema delle nuove patologie da gestire che, con i mezzi e le strutture attuali, non trovano vie d’uscita e finiscono per gravare pesantemente sulle famiglie; però, pensando al vecchio manicomio, mi vengono i brividi e credo con grande fermezza che la strada per una società civile sia quella di investire sulla malattia mentale denaro e risorse umane: bisogna combattere un disagio sociale mentre, fino ad ora, abbiamo solo combattuto coloro i quali tali malattie le hanno subite.
Abbiamo combattuto degli individui, pensando che allontanando loro, avremmo allontanato la nostra follia.
Siamo in un paese in cui la follia di un parente, nella quasi totalità dei casi, deve essere gestita dalla famiglia. Il supporto è minimo.
Se nella psichiatria è stato possibile fare qualche piccolo passo in avanti, perché non è possibile farlo anche in altri settori?
È arrivata la 180 a stabilire che l’infermiere non deve più essere un repressore ma deve partecipare al recupero del paziente; a stabilire che può essere più utile passare un po’ di tempo con il paziente che pulire un pavimento. Una volta avevo un paziente che non stava bene e ho pensato che avesse bisogno di stare fuori, in uno spazio aperto: l’ho portato all’aeroporto e lui si è calmato e si è anche divertito moltissimo. Abbiamo risparmiato medicine, abbiamo risparmiato contenzione, abbiamo risparmiato a lui sofferenze maggiori.
Non dimentichiamo che i neurolettici hanno effetti permanenti sull’organismo, intaccano anche alcune cose, come il metabolismo, che non sono recuperabili.
Facendo un’analisi seria, possiamo dire che, alla chiusura dei manicomi, una parte dei problemi di origine psichiatrica ricaddero sul carcere: c’è una percentuale altissima di azioni delinquenziali, nel carcere, generate non da una formazione delinquenziale ma da una patologia psichiatrica pregressa.

Il carcere

Alla chiusura dei manicomi, dopo il 1980, mi trovai in una fase di transizione; poi, come molti altri per arrotondare lo stipendio, sono finito a lavorare anche in carcere.
Da questo punto di vista, sono stato un privilegiato. Avevo già avuto a che fare con quel mondo: organizzavo tornei di calcio per conto dell’UISP e dell’ARCI. Facevamo attività all’interno del carcere, organizzavamo eventi che avrebbero potuto aiutare i detenuti a socializzare. In particolare, mi riferisco a un torneo durante il quale i delatori - quelli che in genere venivano tenuti in isolamento in bracci particolari giocarono insieme ai detenuti normali e, cosa eccezionale per quei tempi, agli agenti della polizia penitenziaria. Così quando il direttore, dottor Nello Cesari, mi chiese di andare a lavorare nel braccio femminile perché aveva bisogno di una figura con competenze psichiatriche, accettai subito.
Per me questo nuovo inizio fu un po’ meno traumatico, perché avevo già fatto l’esperienza del manicomio. L’unica differenza era che le chiavi per aprire e chiudere tutto le aveva un altro.
Come funziona, all’interno di un carcere, il passaggio dei saperi? Come fai a imparare il modo in cui dovrai comportare, in un luogo nel quale i ruoli assumono un’importanza e una codificazione maggiori che in altri contesti?
Io non avevo delle conoscenze particolari, non avevo una professionalità che mi avrebbe permesso di insegnare ad altri, ma avevo una sufficiente esperienza ed ero anche più grande rispetto ai nuovi arrivati. Motivo per cui, usando un po’ di buon senso, mi sono spesso trovato nel ruolo di dover formare i nuovi. Molti si spaventavano, non reggevano l’impatto con il carcere e il giorno dopo andavano via. È un genere di scelta che ho sempre rispettato. Al contrario non capisco, e spesso non rispetto, chi fa l’infermiere aspettando il giorno di paga, senza capire niente dell’importanza del proprio ruolo. In seguito ho avuto la fortuna di poter organizzare due corsi di aggiornamento per infermieri penitenziari. E ho imparato a capire tante cose. Per esempio, mi sono reso conto di una cosa importante: non esiste un corso propedeutico.
Mi ricordo che in manicomio, quando arrivavano i nuovi, non avevi fatto in tempo ad avvertirli che già avevano preso un pugno in faccia. In carcere è la stessa cosa: non esiste una formazione specifica ed è una scelta talmente sbagliata che non smette di avere conseguenze nefaste.
Ecco che, come unico “cuscinettoâ€, subentrano gli infermieri anziani. Questo significa che non c’è uno standard, una base comune e condivisa. Ognuno trasmette la “propria†esperienza, la propria cultura e i propri modi di fare.
Io in carcere ho vissuto momenti drammatici, ma mi sono anche divertito, sia con gli agenti sia con i detenuti, sebbene nel totale rispetto dei reciproci ruoli.
Appena arrivati, non è raro che i giovani siano prevenuti e indifferenti al contesto nel quale operano, ma questo succede anche perché noi non gli insegniamo a non esserlo. Il detenuto sa sempre chi è. Siamo noi che non capiamo bene. Il detenuto sa quello che può chiedere e sa quello che non può chiedere; quando vede una persona nuova prova subito a fregarla - e il più delle volte la fregatura consiste nel fatto che magari chiede all’infermiere qualche goccia di valium.
È importante che l’infermiere sviluppi un rapporto di assoluta confidenza con l detenuto. Ci deve essere una distinzione dei ruoli ma un rispetto ferreo: se tu devi avere una cosa, io te la garantisco!
Viene da chiedersi, riguardo al carcere, che sfumature assuma il concetto di “patologiaâ€. Per che cosa si soffre e si sta male? Che genere di aiuto viene dato attraverso l’assistenza in carcere? Qual è la funzione della droga all’interno del carcere?
Potrei dire che la patologia è l’insieme delle cose che denunciano uno stato d’insofferenza. In questo senso, si può dire che chiunque, appena entra in carcere, diventi immediatamente patologico. È inevitabile che sia così! Chi non è mai stato dentro non può immaginare cosa voglia dire essere privati della propria libertà, e allora tende a una concezione semplicistica e distorta della detenzione carceraria. Quando sei dentro, per fare un esempio, non puoi fare nulla senza passare per continui e avvilenti pratiche burocratiche. Devi avanzare richieste per avere qualsiasi cosa. Anche solo per avere ciò che ti dovrebbe in ogni caso essere assicurato.
La gente pensa che il carcere sia un hotel a quattro stelle o, al contrario, che sia un lager. Il carcere, naturalmente, non è né l’uno né l’altro: è una via di mezzo!
La terapia nelle carceri è una normale terapia che si fa anche nelle famiglie. Si fa un uso molto frequente di sedativi e di altri palliativi. Per qualsiasi bruciore vengono dati farmaci molto costosi e molto potenti. C’è una gestione molto leggera dei farmaci. Io ho chiesto per quindici anni di fare dei corsi di educazione sanitaria, per spiegare la funzione dei vari farmaci che vengono somministrati, per spiegare qual è la funzione dell’infermiere e in quali casi è necessario attivarlo. Spesso, persino gli agenti chiamano l’infermiere anche quando non ce n’è bisogno; perché l’agente non è addestrato adeguatamente.
Io avevo un rapporto molto sincero con i detenuti, ed è una cosa che mi manca molto, tanto che a volte qualcuno mi diceva di avere dei dolori ma quando gli chiedevo dirmi la verità spesso mi confessava che si era “fatto qualcosa†ed era in astinenza; parlo di gente che era dentro da due anni.
Quando succedeva, scattava un protocollo terapeutico sul quale non transigevo - a me non costava niente allungare loro del valium - ma cercavo di spiegargli che, dopo un beneficio momentaneo, non avrebbe fatto che allungare la loro sofferenza. Cercavo di spiegarglielo, piuttosto che di mettere la testa sotto la sabbia e ignorare quello che succedeva. Così facendo ho ottenuto discreti risultati, riuscivo a farmi rispettare e spesso anche aiutare da altri detenuti. “Vedi che, se ascolti Marco, starai meglio!†dicevano l’uno all’altro.
Non è disonorevole dire che in carcere gira la droga. Certo, capisco che per chi è deputato al controllo non sia facile ammetterlo, però purtroppo succede.
Non serve a niente chiudere gli occhi e fare finta che i problemi non esistano. Bisogna fare uno sforzo per riuscire ad aiutare chi è in difficoltà.
Questo è un rapporto che costruisci con gli anni. Molti non hanno il tempo per farlo. Molti, per fare il giro delle medicine, impiegavano dieci minuti mentre io stavo via oltre due ore. Parlavo con loro di calcio, dei loro familiari, di politica.
Ci divertivamo anche. Il rapporto si crea con il tempo, sgombrando la mente da ogni pregiudizio.
Certo che, se pensi di avere a che fare con un delinquente e che vada trattato da delinquente, è meglio che non vai a fare l’infermiere. Un infermiere dovrebbe andare incontro ai bisogni del paziente, non solo quelli di tipo meccanico, ma anche quelli di ordine psicologico.
Sapete quante volte un detenuto ha paura?
Che tipo di rapporto si sviluppa, secondo la tua esperienza, con gli agenti? Tu pensi che gli agenti abbiano o debbano avere un ruolo nella rieducazione del detenuto?
In generale, penso che nessuno faccia volentieri il lavoro del poliziotto penitenziario. Molti lo fanno perché non trovano altri lavori. Spesso si tratta di ragazzi del sud Italia, sbattuti a chilometri di distanza dai luoghi d’origine, privati della possibilità di integrarsi perché spesso gli affitti sono cari e per loro diventa più facile vivere in caserma. Spesso è vero che fanno una vita da detenuti. Credo che questo li inasprisca. E poi, la formazione è spesso carente, anche se negli ultimi anni ci sono state importanti riforme: gli agenti hanno in atto un processo di cambiamento molto importante. Stiamo parlando di ragazzi che fino a qualche anno fa appartenevano ad un corpo militare - fino al 1991 gli agenti penitenziari erano militari - e il loro motto era: “Vigilando redimereâ€.
È chiaro che quest’impostazione “militare†non può svanire in un attimo, ed è un processo di riforma lento. Adesso la legge prevede che il loro sia un ruolo attivo nel recupero del detenuto, di parte integrante nell’equipe che segue il percorso del carcerato.
Sono stato in servizio durante alcune rivolte nel carcere e ho visto gli agenti picchiare ma in un contesto da “dare e avere†in cui era lecito intervenire con la forza. Non ho mai visto gli agenti usare violenza gratuita a Bologna: è per questo che ho sofferto vedendo quello che è successo a Bolzaneto.
Non me lo aspettavo.
Piccoli abusi possono esserci stati anche in altre occasioni, ma partendo da situazioni di reale pericolo. A Bologna, in particolare, ci sono stati dei comandanti molto seri e, durante mia esperienza alla Dozza, non ho visto particolari atti di violenza - se devo dire la verità, ho visto più agenti prenderle che darle - anche se il rapporto con il detenuto è molto freddo. Io stesso, una volta, ho avuto una colluttazione con un detenuto (ero insieme ad alcuni agenti) ma sono sicuro che nessuno lo abbia punito fisicamente perché li ho aiutati io stesso a portarlo in cella. Era una situazione di pericolo, e in quei casi è necessaria una certa fermezza.
Il carcere è violento. A volte la scintilla può essere una notizia che arriva da casa, un parente che muore, l’annuncio che ha preso cinquant’anni (magari se li merita cinquanta anni di galera, ma in quel momento è sempre una persona che ha bisogno d’aiuto, di parlare con qualcuno). Proprio per questo motivo il fenomeno dell’autolesionismo è molto frequente in carcere. Non mi dimenticherò mai l’episodio di un ragazzo marocchino: stava nella cella tutto tagliato e insanguinato, bevendo il proprio sangue e non voleva che nessuno si avvicinasse. In qualche modo dovevamo prenderlo e impedirgli di uccidersi, ma nessuno l’ha picchiato. C’è gente che si beve il detersivo, gente che lo fa per divertirsi, qualcuno riesce anche a morire.
Il vero sbaglio è che gli agenti pensano di essere gli unici depositari della sicurezza in carcere e che noi infermieri, e tutti gli altri civili, siamo degli estranei di cui diffidare. È ovvio che individualmente esistono dei rapporti diversi. Io ho amici carissimi fra gli agenti. Di me, per esempio, si fidavano e mi facevano girare da solo nei bracci.
Non parlo solamente di solidarietà, che è un sentimento individuale, quanto di professionalità giacché rispondere ai bisogni del detenuto è proprio il nostro lavoro.

Per una pena diversa.

L’individuo non cessa di passare da un ambiente chiuso all’altro, ciascuno dotato di proprie leggi: dapprima la famiglia, poi la scuola (“non sei più in famigliaâ€), poi la caserma (“non sei più a scuolaâ€), poi la fabbrica, ogni tanto l’ospedale, eventualmente la prigione che è l’ambiente di reclusione per eccellenza (…)
Foucault ha analizzato molto bene il progetto ideale dell’ambiente di reclusione, particolarmente visibile nella fabbrica: concentrare; suddividere nello spazio; ordinare nel tempo; comporre nello spazio-tempo una forza produttiva il cui risultato deve essere superiore alla somma delle forze elementari.
Ma ciò che Foucault conosceva era anche la brevità di questo modello: le società disciplinari sono già qualcosa che non siamo più, qualcosa che cessiamo di essere. Ci troviamo in una crisi generalizzata di tutti gli ambienti di reclusione, prigione, ospedale, fabbrica, scuola e famiglia. La famiglia è un “interno†in crisi come tutti gli altri interni, scolastici, professionali ecc. I ministri competenti non smettono di annunciare delle riforme ritenute necessarie. Riformare la scuola, riformare l’industria, l’ospedale, l’esercito, il carcere: ma ciascuno sa che queste istituzioni sono finite, a scadenza più o meno lunga. Si tratta soltanto di gestire la loro agonia e di tenere occupata la gente fino all’installazione di nuove forze che premono alle porte. Queste sono le società del controllo che stanno per sostituire le società disciplinari. (…)
Non è il caso di ricordare le straordinarie produzioni farmaceutiche, le formazioni nucleari, le manipolazioni genetiche, per quanto siano destinate ad intervenire nel nuovo processo. Non è il caso di chiedersi quale sia il regime più duro o il più tollerabile, perché è in ciascuno di essi che si scontrano liberazioni ed asservimenti. Per esempio, nella crisi dell’ospedale come ambiente di reclusione, la settorializzazione, il day-hospital, l’assistenza domiciliare possono sia segnare nuove libertà, ma anche prender parte a meccanismi di controllo che possono competere con le forme più dure di reclusione. Non è il caso né di piangere né di sperare, si tratta piuttosto di cercare nuove armi. (G. Deleuze, La società del controllo)
C’è un grossa diatriba politica che si trascina dai governi del centrosinistra. La questione che ci riguarda, come operatori sanitari, è quella del passaggio della medicina penitenziaria sotto la competenza delle AASSLL. Attualmente, invece, siamo indipendenti dal servizio sanitario nazionale e facciamo capo al ministero della giustizia.
È per questo che nel 1998 abbiamo fondato un nuovo sindacato, il sindacato autonomo degli infermieri penitenziari, ottenendo, in questi anni, cose che non avremmo mai ottenuto: due aumenti dignitosi e una nuova convenzione che da più dignità ai liberi professionisti. Ultimamente, stiamo anche lavorando per ottenere l’assunzione degli infermieri precari.
Noi infermieri, all’interno del penitenziario, siamo quelli trattati peggio: veniamo pagati male, non partecipiamo ai progetti di lavoro (come invece prevederebbe la legge). È per questo che cerchiamo l’autonomia. Faremo un comitato per fare passare la medicina penitenziaria alle ASL e questo avrebbe due valenze: prima di tutto avremmo un soggetto “sanitario†- pur senza sminuire la funzione di controllo - e poi sarebbe anche un soggetto che porta una ventata di democraticità. Non stiamo inventando cose nuove. Bisogna che la pena sia rieducativa e non afflittiva. Finora non è stato così non perché loro sono cattivi, ma perché è la struttura stessa della galera a rendere difficili i cambiamenti.
Il superaffollamento è un altro problema importante, perché la promiscuità genera patologie, ma non è il solo; anche costruendo un carcere modello, se non cambia la mentalità e non riusciamo ad attivare questi percorsi rieducativi, non avremmo un cambiamento sostanziale.
Non vogliamo far credere di poter riuscire a recuperare tutti i criminali, sarebbe un’utopia pensarlo, però provarci in maniera seria ci porterebbe a un grado di civiltà più alto.
Io ho visitato alcuni penitenziari esteri e in Germania, per esempio, sono molto avanti: hanno molti meno agenti, eppure riescono ad ottenere buoni risultati.

Il ruolo e la posizione degli operatori sanitari

La medicina penitenziaria è fatta di tante professionalità: infermieri generici - passati a professionali per decreto, non perché ne abbiano la specifica formazione -, gli infermieri dipendenti professionali e poi gli infermieri a libera professione con partita IVA le cui garanzie vengono disattese dal ministero per quanto riguarda gli infortuni, la malattia, i contributi INAIL. Molti stanno andando via, anche perché la medicina penitenziaria è totalmente in mano direttori e coadiuvati da medici incaricati. Questi medici, che possono essere equiparati ai primari d’ospedale, sono parasubordinati e prendono uno stipendio fisso, le ferie pagate, un mese di malattia l’anno e spesso non vogliono entrare in conflitto con il Direttore di istituto; poi ci sono i medici “del
SIASâ€, medici parcellisti che svolgono attività di routine e anche di guardia medica come avviene fuori al sabato ed alla domenicaâ€.
Bisogna dire che la direzione non tiene in nessun conto l’opinione degli infermieri, ci sono delle figure di infermieri che dovrebbero partecipare alla gestione delle risorse e all’applicazione degli input che, giustamente, vengono dalla direzione e dai medici. Invece, in realtà, decidono sempre tutto loro. L’infermiere, in carcere, ha un’importanza straordinaria. Quando entra nelle sezioni, con un agente che dovrebbe vigilare sulla sua sicurezza (non su quello che fa) è il primo che viene a contatto con il detenuto se ci sono delle urgenze e molto del nostro lavoro è di assistenza psicologica. La nostra paura, in questo reiterato e sproporzionato taglio di fondi (perché ci sono direttive che tutelano i fondi per i medici e infermieri), è che i problemi li paghino solo i detenuti e gli infermieri, perché tanto i medici il loro stipendio lo prendono. Riallacciandomi al discorso di Genova, dico: ecco perché l’infermeria doveva essere un “porto francoâ€, si doveva impedire che le violenze avvenissero lì, e provare a limitare quelle che avvenivano fuori.
Perché la violenza produce patologia. Se ti fanno cadere i denti, è evidente che non sei più sano in quel momento.
Ecco perché noi lottiamo perché la medicina penitenziaria passi sotto le ASL, perché chi è deputato alla custodia non può gestire anche la salute, e non perché sia cattivo, ma perché sono proprio due cose diverse. Io sono convinto che negli ultimi quindici anni la pena stia diventando sempre più affittiva, e che bisogna riportare questo paese a un grado di civiltà più alto.
Io avevo una collaborazione con l’amministrazione, basata su una convenzione che si rinnova di tanto in tanto. La convenzione (nel caso degli infermieri a libera professione) funziona così: tutto è a favore dell’amministrazione; gli unici tutelati sono i medici incaricati.
Già un anno prima di Genova-Bolzaneto io avevo superato un tentativo di chiusura del mio contratto. Poi mi hanno dato ragione. Pensate che volevano buttarmi fuori solo perché durante una riunione mi ero permesso di dire ai poliziotti di stare attenti, quando intervenivano su un paziente-detenuto, perché prima dovevano mettersi i camici e i guanti. Da qualcuno è stata vista come un ingerenza e il direttore del carcere ha chiesto le mie dimissioni, che per fortuna il provveditore ha respinto.
Il carcere è un’istituzione complessa, ed è complessa anche l’organizzazione. Ci sono diverse aree: l’area sanitaria, l’area riabilitativa (assistenti sociali, educatori) l’area amministrativa, l’area sicurezza. Ogni area ha un suo responsabile, quella sanitaria per esempio ha un medico incaricato oppure un dirigente sanitario. Tutti fanno capo al direttore del penitenziario. Noi proponiamo che, lavorando in collaborazione con la direzione del carcere, la salute del detenuto debba essere gestita dall’ASL. Avrebbe tutta un’altra valenza. La questione è quella di affidare la salute a chi è deputato alla cura. Molte volte le terapie finiscono per essere distribuite da agenti o da ausiliari, che non sono nemmeno infermieri e spesso non hanno idea di cosa stanno dando al paziente. Se ancora riusciamo a tirare avanti, lo facciamo perché ci sono medici e infermieri coraggiosi che credono ancora nella loro professione che credono ancora nel giuramento di Ippocrate.
Rischiamo che siano sempre meno.
Il periodo di pena dovrebbe aiutare il detenuto a rieducarsi e reinserirsi nella società, è questo il processo di cui si deve fare carico una società che vuole essere civile. Per fare ciò bisogna che si realizzino prima due condizioni: la diminuizione degli sprechi economici e poi il reinvestimento di questi soldi in progetti di recupero.
La prima condizione potrebbe essere raggiunta facilmente, basterebbe non sperperare e gestire oculatamente tutti gli investimenti. Faccio un esempio: ho conosciuto un detenuto che in poco tempo ha fatto cinquanta visite oculistiche. Ne sarebbero bastate molte di meno ma, purtroppo, succede spesso che si effettuino prestazioni mediche non necessarie, soprattutto perché non esiste un’adeguata educazione sanitaria, non vengono investiti soldi in programmi sulle competenze e sulle professionalità
Grazie anche a questi possibili risparmi si potrebbero creare dei percorsi alternativi per i detenuti, soprattutto percorsi lavorativi. Il detenuto dovrebbe, e vorrebbe, lavorare. Del resto sarebbe anche un modo per ripagare la collettività. In altri paesi, come la Germania, molte carceri si fanno carico degli eccessi di prduttività di alcune industrie mettendo a disposizione il lavoro retribuito dei detenuti, in modo che questi non vadano ad interferire col resto del mercato del lavoro. Le persone stesse si sentono meglio, più utili e hanno meno bisogno di cure mediche ormai sempre più ridotte ad effetto placebo. In Italia, invece, i detenuti non vengono messi in condizione di poter lavorare e, il più delle volte il carcere divente una palestra per ridelinquere proprio perché non ci sono alternative vere: s’impara a rubare, s’impara a fare la macchinetta per i tatuaggi col mangianastri, s’impara a fare la siringa per iniettarsi la “roba†con la penna Bic.
Bisognerebbe che il periodo detentivo fosse educativo, lo dice anche il regolamento penitenziario, ma se chiedi agli amministratori quali sono i progetti che stanno facendo non te lo sanno neanche dire. Il nostro sindacato ne ha la prova.
Eppre, se cercassimo di intervenire in tutte queste cose avremo molte meno probabilità che succedano fatti come quelli di Bolzaneto. Un paese che vuole sentirsi civile, non deve più permettere che succedano certe cose.
Tutti a parole siamo d’accordo. Non ci sono differenze di schieramenti politici su questo.
Nelle cose concrete, però, ci rendiamo conto di vivere in un paese in cui non c’è rispetto delle fasce più deboli o per le fasce di persone che sostengono valori più estremi: non c’è ripsetto per i vecchi (e parlo anche delle stesse famiglie) tutti giorni noi vediamo degli ospizi-lager; non c’è rispetto per i malati, per i detenuti, non c’è rispetto dei giovani, che abbandoniamo. Più abbandonati di così!?
Tutti insieme (gli agenti addetti alla custodia e noi all’assistenza) dobbiamo capire che bisognerebbe essere integratirati assieme in un grande progetto di recupero e di integrazione del detenuto, come del malato o di tutto quello che consideriamo “diversoâ€. Lo so anche io che a volte non è possibile recuperare qualcuno, l’unica differenza è che io voglio, almeno, provarci!
Dobbiamo lavorare insieme per fare diventare il carcere più simile a quello che tutti vorremmo che fosse: un luogo dove la pena non si “soffraâ€.

SUL PERCHÉ CERCHIAMO GIUSTIZIA

A oltre due anni dai “fatti di Genovaâ€, ancora ci si interroga sul significato che quelle vicende hanno avuto per la storia del nostro paese e non solo del nostro. Ci si interroga sulla funzione che hanno avuto e sull’eredità che ci hanno lasciata.
Una grande porzione della opinione pubblica internazionale giudica la contestazione genovese, e i movimenti e le idee che lì hanno dato testimonianza della loro esistenza, come tappa fondamentale, come nodo cruciale. Nel dopo G8, i movimenti che contestano la globalizzazione hanno raggiunto un momento di altissima visibilità e hanno dato vigore alla costruzione di reti di cittadini attivi che stanno immaginando, insieme, un mondo diverso. Per l’Italia, in particolare, quell’evento ha assunto un importanza peculiare: centinaia di social forum cittadini sono sorti in questi anni, dando vita ad un movimento, quello italiano, che si colloca come uno dei più massicci e creativi a livello mondiale. Questa visione politica più ampia si intreccia anche con le storie di vita personali di oltre duecentomila persone che hanno partecipato ai forum e alle attività del controvertice; quelle persone, uomini-donne-ragazzi-bambini-migranti-anziani-preti-operai ecc., portano dentro una ferita che fatica a rimarginarsi.
Anche chi non ha subito direttamente violenze, porta dentro un’immensa amarezza e un inestinguibile bisogno di verità.
Per la maggior parte di loro, quei giorni di Luglio sono un ricordo indelebile, che li ha spinti a continuare a parlare e dibattere su quello che è accaduto e su ciò che per noi tutti ha significato. A diversi anni di distanza, si moltiplicano le pubblicazioni, i film, i documentari, le mostre che, in maniere diverse, provano a interpretare quegli eventi. Ormai, l’evento Genova-G8, interessa indirettamente milioni di persone che in qualche modo hanno visto cambiare la loro vita, o quella di persone a loro vicine. Persone che hanno bisogno di spiegazioni.
Bisogna ancora trovare una spiegazione al fatto che ai cittadini sia stato impedito di manifestare il loro pensiero, di circolare liberamente all’interno delle proprie città. Siamo agli albori di una nuova epoca di segregazioni e di divieti?
Bisogna trovare una spiegazione per i pestaggi, le violenze e per il fallimento delle istituzioni che avrebbero dovuto tutelare l’ordine pubblico.
Bisogna capire come mai, ancora oggi, un ragazzo di vent’anni possa morire ucciso durante una manifestazione di piazza.
Eppure un’altra parte del opinione pubblica continua a sostenere che nulla è successo. I fatti di Genova, sarebbero solo un ricordo scomodo da lavare e dimenticare.
Tutti hanno visto le immagini, ascoltato i racconti ma, nel caos della disinformazione mediatica, la banalizzazione del discorso politico ha inquinato anche l’inconfutabile realtà: a Genova sono stati violati i diritti delle persone. È per questo che si continua a parlare e a scrivere di Genova: fare in modo che tutti sappiano cosa veramente è accaduto; poi ognuno sarà libero di trarne una propria spiegazione.
La magistratura ha aperto diversi filoni di inchieste, alcune a carico dei manifestanti che hanno commesso reati e altre a carico di poliziotti e carabinieri accusati di costruzione di false prove e pestaggi; ma la storia italiana ci ha abituato all’insabbiatura di molte verità -tante sono le stragi e i misteri su cui non si è voluto fare luce-, all’omertà e all’oblio.
Nella nostra società complessa, però, i problemi posti da questa riflessione non possono che intrecciarsi con riflessioni più ampie: stiamo parlando di un sintomo di una malattia ben più grande e ben più generale. Nuovi diritti e nuovi divieti si scontrano: una parte dell’umanità gode di una maggiore mobilità e sfrutta appieno le nuove tecnologie e le deregolamentazioni, l’altra parte è condannata al nomadismo, allo sradicamento e protesta per ottenere un accesso orizzontale. Non si tratta solo delle differenze fra Nord e Sud del mondo, proprio questo è il significato delle manifestazioni da Seattle a Genova in poi, si tratta di dare dignità, anche nelle opulente nazioni occidentali, a coloro i quali si collocano ai margini della società. I recenti eventi, visti in prospettiva più ampia, mostrano come i disabili,i poveri, i vecchi, i carcerati, i malati di mente e i giovani
(quando non rientrano nei target di mercato) vengano abbandonati e repressi.
Intorno a noi gli esempi pullulano e i fatti di cui parliamo vanno inquadrati nell’ottica del conflitto fra conservazione e cambiamento.
Probabilmente, uno dei danni più grossi di Genova è stato quello di creare nuovi psicotici. Una gamba rotta, una ferita, guariscono, un dente rotto si rimette a posto. Molte delle persone passate per Bolzaneto dicono che non riusciranno mai a dimenticare le urla. Alcuni hanno ancora gli incubi la notte.
Addirittura li ho anche io dei traumi; anche io che non ho subito, fisicamente, nulla. Molti sottolineano il ricordo delle urla, pensando a ciò che è accaduto in caserma. Per quanto mi riguarda, non sono state le urla a colpirmi. Mi ha colpito il silenzio. Io no ho sentito quasi mai urlare. Quei ragazzi avevano una dignità incredibile, e spesso non avevano neanche il tempo o le forze per urlare. Mi ha colpito,invece, il silenzio. Quel silenzio amaro che rimbalzava come gomma sulle pareti della caserma.
Ho sentito anche dire che qualcuno ha dovuto subire dei TSO (trattamento sanitario obbligatorio) ma non ho conferme, su questo. In genere dei TSO sono destinati a persone affette da turbe psichiche che possono diventare pericolose per gli altri e sono regolati da procedure molto chiare. Un medico constata che c’è uno stato di pericolosità per se e per gli altri. Poi ci vuole una conferma di un secondo medico e infine l’autorizzazione dell’amministrazione comunale.
Mi sembra strano che a Genova siano stati autorizzati dei TSO. Anche perché l’autorità che deve imporlo è quella dei vigili urbani, non sono la polizia o i carabinieri a gestire la somministrazione.
Bisognerebbe documentarli questi casi, perché un trattamento sanitario obbligatorio è una cosa pesante, significa che sei considerato matto. Anche se giuridicamente non pregiudica niente, lascia un segno pesante nella psiche di una persona.
Sono convinto, in ogni caso, che Bolzaneto abbia creato delle psicosi ed è anche per questo che ho deciso di parlare, per un debito nei confronti di questi ragazzi che non erano dei criminali. Erano impauriti, non si rendevano bene conto di quello che stava succedendo.
Io so cosa vuol dire avere un periodo di depressione, so cosa vuol dire prendere dei farmaci, cosa vuol dire andare dallo psicologo. Quelle sono cose che fanno male come se ti conficcassero qualcosa nel corpo. Molti, a distanza di due anni, stanno ancora soffrendo, e sicuramente non per una gamba rotta. Quella ormai sarà guarita, ma le ferite più profonde, quelle nella loro psiche, non guariscono con una medicina.
Quello è un male infido e dolorosissimo. Nessuno se lo deve dimenticare. Questo è stato un fatto devastante.
E Bolzaneto non avviene casualmente.
Non ho avuto l’impressione che le violenze siano state preparate e volute in anticipo, ma ciò non significa che non ci sia una correlazione con quanto sta avvenendo negli ultimi anni. I segnali di insofferenza si stanno moltiplicando: i detenuti sono trattati in modo disumano, gli infermieri e i poliziotti vengono umiliati e abbandonati a se stessi, le riforme vengono ostacolate o soppresse.
In generale, si nota una reminiscenza delle vecchie istituzioni di repressione e la comparsa di nuove. Pare essere tornata in auge l’idea che le diversità possano essere rimosse e rinchiuse fra quattro mura.
Per chi conosce il mondo del carcere,o quello del manicomio, non è difficile notare i segni di questa deriva: le carceri sono affollate di gente in rivolta, i governi costruiscono nuovi campi di detenzione per immigrati (i cosiddetti CPT, creati dalla legge Turco-Napolitano ndc), le produzioni e assunzioni di farmaci stanno raggiungendo quantità enormi e intanto le azioni di repressione si moltiplicano.
Non dimentichiamo che non c’è stato solo Bolzaneto; c’è stato Sassari, c’è stato Secondigliano dove i GOM si sono resi oggetto di dubbi e attenzioni da parte della magistratura.
Pare che, durante delle rivolte, molti detenuti siano stati portati dentro una stanza e picchiati selvaggiamente. È vero?
Non lo posso sapere. Ho sentito dire alcuni colleghi che commentavano: “Hanno fatto bene!â€.
Queste cose, non dimentichiamocele, succedevano anche sotto i governi del centro-sinistra. A Napoli pare che i manifestanti siano stati prelevati negli ospedali e portati in caserma. Anche in questo caso io non c’ero e non posso confermarlo, ma la magistratura ha avuto diversi riscontri, in quella direzione.
Le scaramucce fra manifestanti e forze dell’ordine, sono congenite. Gli esaltati ci saranno sempre, da una parte e dall’altra. Bisogna fare capire a chi manifesta che non bisogna distruggere per costruire. Come c’è bisogno che gli agenti capiscano che spesso chi manifesta è lì anche per loro.
Bisogna dare al carcere una vera trasparenza vera, molte più occasioni di incontro fra l’interno e l’esterno, basta applicare la riforma e cominciare a parlare di lavoro. Perché non si lavora in carcere? Perché non ci sono i progetti; la verità è che non gliene frega niente a nessuno. Il detenuto dovrebbe lavorare, il detenuto vuole lavorare.
Tutto questo dimostra che c’è qualcosa che non va; dimostra che dobbiamo fare qualcosa. Ma non deve essere uno scontro fra cittadino e polizia.
Mi intristisce pensare che queste cose non vengano sottolineate nel modo giusto; i fatti di Genova-Bolzaneto vengono spesso spogliati dal loro contesto e ridotti ad una banale opposizione fra destra e sinistra, o fra global e no-global. Quelle interpretazioni sono fuorvianti; per me potevano anche essere ragazzi di destra che venivano per dire: non voglio la sinistra. Poteva essere anche qualcuno che veniva a manifestare per dare il proprio appoggio alle decisioni dei G8. Per me sarebbe stata la stessa cosa. Chiunque avrebbe dovuto avere la possibilità di esprimere la propria opinione.
Non possiamo dire di essere in un paese democratico. Il governo italiano e tutti gli altri governi dei “grandi otto paesi più industrializzatiâ€, che si riempiono la bocca con questa parola, dimostrino di voler cercare la verità: ammettano le loro colpe, facciano la commissione d’inchiesta, facciano un pò di chiarezza.
Questa gente non può pensare sempre e tutta la vita alla repressione al “o sei con me o sei contro di meâ€; lì hanno massacrato dei giovani solo perché non la pensavano come di loro.
Pensando anche ai fatti della Diaz, non possiamo dimenticare che comunque quei ragazzi, colpevoli e no, hanno avuto una punizione. Qualcuno di loro è stato in carcere, anche dopo
Bolzaneto. Dalla parte della polizia, invece, nonostante ci siano state responsabilità documentate nessuno è stato ancora punito. Per esempio, quel funzionario di polizia che aveva picchiato un ragazzino in strada, il tutto filmato da un videoamatore, non ha fatto neanche un giorno di galera. Eppure il filmato è stato visto da tutti, magistrati e ministri compresi.
Ultimamente mi sono chiesto: non è che la chiusura del caso
Giuliani comporti la chiusura anche di tutti i fatti di Genova?
Non è che l’archiviazione per i ragazzi che sono stati arrestati alla Diaz non sia il pretesto per archiviare anche le denunce per tutte le violenze fatte a Bolzaneto?
Sarebbe terribile.
Nei mesi successivi alla mia denuncia, istituirono in parlamento una commissione parlamentare che doveva indagare sui fatti di Genova. Io presi contatti con l’onorevole Katia
Zanotti dei DS, alla quale espressi la disponibilità a testimoniare presso la Commissione bicamerale di indagine ma la sua richiesta fu respinta. Fu così che decisi, allora, di inviare all’onorevole Bruno (presidente della Commissione) una lettera con la mia testimonianza sui fatti cui avevo assistito. Quella lettera fu ignorata e io non fui chiamto per deporre. La commissione si divise sul giudizio complessivo degli eventi e furono presentate due mozioni: quella della maggioranza di destra sostenne ciecamente l’oprato del governo e delle forze dell’ordine, ignorando qualsiasi responsabilità, mentre la mozione della minoranza di sonistra fu molto dura e condannò l’intera gestione dell’ordine pubblico che fu attuata durante gli incontri dei G8. Una pacificazione politica degli eventi genovesi sembra impossibile ma molte delle responsabilità possono, e devono, essere accertate dalla magistratura.
Resta evidente che questo bisogno di fare chiarezza, di rielaborare gli avvenimenti, non debba essere confuso con la vendetta. Il mio gesto non deve punire la polizia penitenziaria, il mio è il gesto di una persona normale che lo ha fatto per i ragazzi, per cercare di rimediare e per fare crescere la polizia penitenziaria. C’è bisogno di verità per correggere gli errori.
Tempo fa ho parlato anche con Giuliano, il papà di Carlo Giuliani (il ragazzo ucciso durante le manifestazioni), e mi ha colpito il suo non-desiderio di vendetta. La sua paura è che non venga mai alla luce la verità, su quella vicenda. E io condivido.
È molto importante arrivare ai processi, e alle eventuali condanne perché c’è bisogno di verità, c’è bisogno di giustizia.
Altrimenti la ferita inferta a Genova farà fatica a rimarginarsi e per molti anni ci porteremo dietro rancori, amarezza e una persistente sfiducia verso le istituzioni. Bisogna che si venga a sapere che una parte di questa società non vuole più tacere, non vuole più subire ingiustizie, vuole ribellarsi all’omertà. Il problema è che i forti sono già forti per conto loro ma la loro forza è aumentata dalla debolezza data dalla nostra omertà e dalle nostre paure.
A volte, per ottenere giustizia, è necessario rischiare qualcosa.


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POSTFAZIONE

C’è una frase, nel sentito racconto di Marco Poggi, che mi pare riassuma il senso più profondo di quanto è accaduto, non solo in quei tragici giorni a Genova, ma anche nei giorni, nelle settimane, nei mesi successivi: fino a quando, lentamente ma inesorabilmente, è venuta alla luce la brutalità e la gratuità della repressione e, in quel clima non certo degno di un paese civile e democratico, qualcuno ha avuto il coraggio di squarciare il silenzio, rompere l’omertà, assumersi la responsabilità di raccontare ciò che le fonti ufficiali continuavano a negare. Quella frase, l’epitaffio di quei giorni, è alla fine del libro di Poggi: “È molto importante arrivare ai processi e alle eventuali condanne perché c’è bisogno di giustizia. Altrimenti la ferita inferta a Genova farà fatica a rimarginarsi e per molti anni ci porteremo dietro rancori, amarezza e una persistente sfiducia verso le istituzioniâ€. E ancora: “Il problema è che i forti sono già forti per conto loro ma la loro forza è aumentata dalla debolezza data dalla nostra omertà e dalle nostre paure. A volte, per ottenere giustizia, è necessario rischiare qualcosaâ€.
Marco Poggi è uno che ha rischiato. E con lui - Marco lo ricorda sempre, non solo nel libro - il suo collega e amico Ivano Patrissoli.
Così come hanno rischiato - e ne portano ancora le ferite, nel corpo e nell’anima - decine di migliaia di giovani, e meno giovani, che nei giorni di Genova hanno voluto manifestare la loro volontà, la loro ricerca, il loro impegno per un mondo migliore. Ma loro non lo sapevano, si sono trovati invischiati in una trappola che altri hanno teso; hanno solo dovuto subire, anche se poi - dopo le prime denunce pubbliche - hanno avuto la forza di raccontare quanto avevano vissuto sulla loro pelle e, soprattutto, di continuare la battaglia per la pace, per la giustizia sociale, contro la povertà e contro ogni discriminazione. Marco e Ivano hanno rischiato consapevolmente e hanno aperto la strada a quanti, dopo di loro - come ricorda Giuliano Giuliani nella sua prefazione - hanno deciso, dopo quasi due anni di indagini, di dire la verità su quanto avevano visto e vissuto, consentendo così che l’indignazione aprisse lo squarcio verso la verità e la giustizia.
Mi ricordo, e difficilmente potrei dimenticarlo, il giorno in cui ho incontrato Marco Poggi e Ivano Patrissoli: erano turbati, dilaniati, sicuri di quello che volevano fare, eppure - e comprensibilmente impauriti. Del resto, per tornare allo scritto, e alle riflessioni di Marco, come dimenticare che la vita non è stata, con lui, indulgente: il bisogno di lavorare ancora giovanissimo lo ha portato a prestare la sua attività, e la sua sensibilità, nei manicomi e poi nelle carceri. Luoghi dove l’umanità è fondamentale e conta almeno quanto la competenza e la professionalità; luoghi dove l’umanità è messa ogni giorno a dura prova, come accade quasi inevitabilmente nelle istituzioni totali.
Ne aveva già viste tante, Marco, prima di Genova e del G8; così come nella mia ormai lunga esperienza ne avevo viste tante anch’io. Eppure anch’io ero profondamente sconvolto: ero stato a
Genova, insieme a, purtroppo pochi, parlamentari e a molti avvocati democratici e avevo visto con i miei occhi quello che era successo. Ma poi, quando per tutta la sera e la notte di quel 20 luglio
2001, nessuno riusciva a sapere dove fossero finiti i ragazzi e le ragazze arrestate, ho deciso, con un impulso che mi derivava da un timore che speravo non si trasformasse in realtà, di andare nelle carceri vicino a Genova per rintracciare quelle centinaia di persone di cui nessuno, amici e familiari, avvocati e parlamentari, riusciva ad avere notizie. E ciò che ho visto, ciò che ho sentito è stato peggio di quanto già avevo visto in piazza a Genova. E così ho potuto denunciare pubblicamente le storie dei ragazzi ingiustamente arrestati, come ha accertato la stessa magistratura, e le violenze da loro subite.
Nel carcere di Pavia un giovane pacifista, che aveva fatto il servizio civile perché si era sempre battuto contro ogni forma di violenza, mi aveva accolto piangendo, disperato e mi aveva raccontato la sua storia: “Prima sono arrivati i neri e mi hanno picchiato con i bastoni. Grondavo sangue quando sono arrivati i carabinieri e mi hanno riempito loro di manganellate, buttato dentro un cellulare, preso a calci in tutte le parti del corpo, ammanettato. A Bolzaneto mi hanno fatto sdraiare per terra, calpestato con gli anfibi, insultatoâ€. Tra i singhiozzi diceva: “Ma cosa c’entro io con tutto questo?
Perché la violenza contro i non violenti, mentre hanno lasciato indisturbati quei pochi che erano a Genova solo per distruggere tutto e tutti?â€
Non piangeva, ma era sulla brandina spoglia di una cella, rannicchiato in un cantuccio per il terrore, un ragazzo poco più che bambino. Faceva sciogliere di tenerezza: aveva la faccia viola dalle manganellate, l’occhio destro rosso di sangue. Era venuto a Genova per solidarietà con i migranti; aveva dormito in tenda, poi si era diretto verso il punto d’incontro del corteo. Davanti alla stazione di Brignole lo avevano fermato, aveva in mano solo i suoi documenti: gli erano stati tolti, buttati per terra, calpestati e distrutti. E subito dopo, in un gioco perverso, lo avevano fermato perché “non era possibile procedere all’identificazioneâ€. Anche lui mi aveva raccontato la sua giornata diventata un incubo durato fino a notte fonda: ammanettato, sbattuto dentro il cellulare, manganellato sui fianchi perché non teneva le mani alzate. Portato a Bolzaneto, era stato costretto a percorrere il corridoio in ginocchio, a testa bassa, perché - gli dicevano - “non sei un uomo, sei un essere inferiore, anzi, una merdaâ€. In ginocchio per 45 minuti, insieme ad altri venti ragazzi.
L’ordine perentorio di gridare “viva il duceâ€, e per chi non lo faceva manganellate anche in testa. Sotto la maglietta aveva i fianchi devastati dai calci e dai manganelli.
Avevo poi incontrato un altro ragazzo, giovanissimo, con un grosso cerotto in testa per coprire i sette punti di sutura di una ferita che gli provocava dolori lancinanti. A voce bassa, pieno di vergogna e di umiliazione per essere stato costretto, lui, antifascista, a sussurrare quella frase che non avrebbe mai voluto dire. Ma poi altre violenze: “Se hai detto viva il duce, allora vuol dire che sei un violento provocatoreâ€. E le manganellate gli erano arrivate sulla faccia e sulla schiena. Il suo corpo era un livido unico. Ogni cella racchiudeva storie di incubi e di violenze. Fabrizio, un fruttivendolo di Genova, stava tornando dal lavoro in motorino. Portava il casco, come prescrive la legge, e aveva con sé il cellulare e l’incasso della giornata. In carcere non aveva più i soldi, né il cellulare; solo i segni dei manganelli. Storie da regime cileno, impossibili da dimenticare o rimuovere. Storie che avevano bisogno del coraggio di qualcuno, che non fosse un manifestante, per poter permettere che le indagini proseguissero e si potesse sperare di arrivare alla verità su quanto era avvenuto in quelle tragiche giornate. E, per quanto possibile, accertare le singole responsabilità: per aprire la strada alle inchieste e alla chiarezza.
Se solo vi fosse stata la volontà, sarebbe stato possibile, a Genova, fermare i pochi violenti e permettere, come in Parlamento si era impegnato a fare il Governo, alle migliaia e migliaia di pacifisti di manifestare per un mondo migliore. Invece, alcuni suoi ministri, non solo hanno coperto le violenze, ma - e tra questi il Ministro della Giustizia (o, meglio, dell’ingiustizia) - hanno avallato, con la loro presenza, le violenze delle “forze dell’ordineâ€, non solo in piazza ma anche nel “lager†di Bolzaneto. E ancora adesso, seppur con voce sempre più flebile, c’è chi continua ad affermare che nulla è accaduto, che si trattava solo di calunnie di tanti “facinorosiâ€.
Eppure, era possibile, se solo si fosse voluto, fermare e isolare i pochi violenti che erano arrivati a Genova per metterla a soqquadro.
Ma non è stato fatto, sono stati lasciati liberi di distruggere e devastare, mentre i lacrimogeni e i manganelli venivano usati, come clave, contro chi voleva manifestare pacificamente.
Con il cuore gonfio e con la convinzione forte che era necessario dimostrare come le regole di uno stato democratico fossero state stracciate, i diritti calpestati, gli innocenti colpiti; con la certezza che non bisognava assistere passivamente a quanto era accaduto, ho incontrato Marco. So che il nostro incontro gli ha provocato un senso di liberazione, ma anche tanta sofferenza e ritorsioni. Per me lui ha rappresentato il primo anello di una catena che ha aperto la strada verso l’accertamento della verità, anche - seppur a fatica per l’ostruzionismo di chi continua a gestire il potere - nelle indagini giudiziarie e nei processi, e non rimanere mera testimonianza vivente di chi aveva vissuto l’illegalità e della coscienza democratica del Paese. Quanto accaduto a Bolzaneto, là dove l’infermiere Poggi era stato chiamato a prestare servizio in quei giorni, era conosciuto solo da chi aveva subìto la violenza dello Stato e vere e proprie torture da parte di singoli appartenenti alle “forze dell’ordineâ€, da chi si era trasformato da servitore dello Stato in carnefice. Per arrivare alla verità c’era bisogno di coraggio, di ribellione civile, di vedere la propria vita messa in gioco: e questo hanno fatto Marco e Ivano.
E se, per la morte di Carlo Giuliani, non si è arrivati alla verità, è anche - e soprattutto - perché nessuno, tra carabinieri e poliziotti presenti in Piazza Alimonda, ha squarciato il muro dell’omertà!
Per questo, quando Marco Poggi, con la sua usuale schiettezza, mi ha chiesto di scrivere una postfazione al suo libro, non ho avuto esitazioni. Altro che “infame di Bolzanetoâ€. La sua è la storia di un uomo che altri hanno “nutrito di violenza†e che a quella violenza si è ribellato e continua a ribellarsi: quella violenza che era quotidiana nei manicomi, prima che entrasse in vigore la legge Basaglia, e che, ancora oggi, purtroppo, è frequente nelle carceri, anche del nostro paese. Ma la sua è anche la storia di un uomo che ha deciso di venire allo scoperto, consapevole delle conseguenze sulla sua vita, sul suo lavoro. La sua testimonianza, dall’interno delle istituzioni, è cruda ma può servire a tutti noi per capire quelle realtà per far aprire gli occhi a chi vuol sapere, a chi vuol capire. Ed è anche importante, l’ho verificato personalmente in questi anni, che Marco malgrado l’ostracismo, malgrado il tentativo di ghettizzarlo, malgrado la volontà di isolarlo, malgrado le continue ritorsioni nel tentativo, vano, di farlo tacere - abbia continuato, e continui, nella sua battaglia per un carcere meno disumano, dove il diritto alla vita e alla salute sia garantito a tutti. E non sia più - come invece continua a essere - una discarica sociale che non aiuta il reinserimento sociale, lavorativo, familiare. Un luogo dove, in maniera talvolta crudele, la “giustizia†non è eguale per tutti, ma debole con i forti e severa, spesso violenta, con i deboli e gli emarginati. Marco è il segno che la debolezza determinata spesso dalla paura - quella che permette ai forti di essere sempre più forti - può essere superata e sconfitta. E il suo libro è una testimonianza che può dare forza e coraggio, a tutti, nel denunciare ogni sopruso, ogni abuso. Solo così si può evitare che il silenzio incoraggi abusi sempre maggiori e che si finisca con l’accettare, supinamente, senza ribellarsi, che avvengano fatti come quelli di Genova, e prima ancora di Napoli, e che continuino a esistere luoghi - basti pensare ai “centri di detenzione per immigrati†- dove si calpestano i diritti individuali e si annulla la dignità delle persone. In spregio alla Costituzione, alle regole e ai princìpi di uno stato di diritto!

Giuliano Pisapia
Milano, gennaio 2004
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APPENDICE

Ivano Pratissoli è infermiere penitenziario nel carcere di Reggio Emilia. Anche lui testimone delle violenze commesse nella caserma di bolzaneto, è stato ascoltato dai magistrati del tribunale di Genova e ha raccontato decine di episodi di violenza commessi dalle forze dell’ordine all’interno della caserma.

Alfonso Sabella, direttore ufficio inchieste del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria arrivato nel periodo della direzione di Giancarlo Caselli, era il massimo responsabile per quanto riguarda i siti penitenziari di S. Giuliano e Bolzaneto. Ora è tornato a fare il magistrato o il giudice a Firenze.
L’ho conosciuto telefonicamente alcuni giorni prima del G8 e poi l’ho visto per la prima volta a Genova: un tipo non molto alto molto, affabile e gentile nei modi.

Giacomo Toccafondi
Il Dr. Toccafondi è un uomo robusto, abbastanza alto. Faceva il Medico Incaricato e responsabile dell’Area sanitaria del carcere di Pontedecimo da alcuni anni. Una dottoressa che lavorava con lui lo descriveva come un tipo che “non scherzavaâ€. Aveva la fama di duro. A Bolzaneto non ha mai indossato il camice, o quasi mai, ma è sempre stato con la tuta mimetica o con la maglia blu col distintivo della Polizia Penitenziaria stampato in piccolo, sul petto. Portava anche gli anfibi e i guanti neri. Non ha mai perso occasione per esprimere il proprio disprezzo nei confronti di quei manifestanti arrestati o fermati
Anche a Bolzaneto, così come in Bosnia, fece la sua piccola raccolta di cimeli comprensiva anche di una maglietta con stampata sopra la stella a cinque punte, simbolo di quelle associazioni che vogliono l’azzeramento del debito, rubata ad una ragazza.
Alla fine poi mi ha anche dato un encomio scritto al computer, a me come a tutti gli altri componenti dell’equipe sanitaria di Bolzaneto.


LETTERA ALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INDAGINE SUI FATTI DI GENOVA

La commissione ignorò la lettera e ritenne di non dover ascoltare la deposizione di Poggi.
Al termine dell’indagine, la mozione della maggioranza non rilevò alcun illecito da parte delle forze dell’ordine, che anzi vennero elogiate, e condannò duramente il Genoa Social Forum, accusato di aver “fiancheggiato†i cosiddetti black block.
La minoranza di centro sinistra pubblicò una seconda mozione, in cui le conclusioni venivano totalmente ribaltate.
Un esempio evidente di come la pacificazione su fatti di tale importanza sia più che lontana.
Infermiere Marco Poggi

AL SIG. PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE DI INDAGINE BICAMERALE SUI FATTI DI GENOVA
DR. ON. DONATO BRUNO
CAMERA DEI DEPUTATI
PALAZZO MONTECITORIO
00186 ROMA

Io sottoscritto Marco Poggi presente nei giorni dal 17/07/01 al 22/07/01 alla caserma della Polizia di Stato di Bolzaneto a Genova, in qualità di infermiere inviato dal DAP ritengo utile portare alla conoscenza della Commissione di indagine Bicamerale sui fatti di Genova accaduti nel corso dei giorni 20-21 e 22 luglio 2001 di cui sono stato testimone presso la suddetta caserma a Bolzaneto.
Prendevo servizio alle ore 20 del 20/07/01 presso la caserma di P.S. di Bolzaneto nella struttura penitenziaria per l’occasione allestita.
Dopo circa un’ora dall’entrata in servizio cominciarono ad arrivare i primi arrestati, prima ancora di entrare nella struttura a Bolzaneto o appena dentro ad essa, a volte ammanettati anche con stringhe di plastica in dotazione alla P.P. nel giubbotto multitasche, i manifestanti fermati venivano sottoposti ad una prima superficiale visita, da parte dei medici in turno, i quali valutavano se i fermati potevano accedere direttamente ai gabbioni o essere inviati in ospedale o essere messi nella nostra infermeria per medicazioni o brevi periodi di osservazione sanitaria. Nel caso in cui fossero ritenuti idonei alla allocazione ai gabbioni venivano dichiarati, con un eufemismo, “abili e arruolatiâ€.
Nella struttura, oltre a due uffici per la Digos, uno per la Squadra Mobile, un ufficio matricola della Penitenziaria, un locale di riposo per la Penitenziaria, un disimpegno tipo magazzino e una infermeria, oltre a due enormi bagni tipo caserma militare, vi erano nove gabbioni per i detenuti di cui due a disposizione e a custodia della penitenziaria per gli arrestati e quindi in attesa di essere trasferiti ai carceri di assegnazione gli altri a disposizione dell’Autorità Giudiziaria per i fermati in attesa o del rilascio o per la trasformazione del fermo in arresto.
I detenuti, in qualsiasi posto sostavano all’interno della struttura che poteva essere un gabbione, o il corridoio venivano posizionati in piedi, con le gambe divaricate, le mani larghe e la testa appoggiati al muro e non dovevano ne muoversi ne parlare e spesso dovevano rimanere così anche per molte ore nel caso in cui avessero parlato o si fossero mossi spesso venivano percossi.
Entrando nello specifico dei fatti di cui sono testimone oculare ho avuto modo di vedere:

NELL’INFERMERIA alcuni detenuti che non capivano come fare a fare le flessione di routine previste dalla perquisizione di primo ingresso in carcere, venivano presi a pugni e a calci dagli agenti di P.P. ho visto il medico, il quale era quasi sempre vestito con tuta mimetica, anfibi e maglietta blu con stampato sopra il distintivo degli Agenti di Polizia Penitenziaria (questo dal giorno
17 e non dopo la spinta di un poliziotto come da lui affermato sulla stampa) […] ho visto lo stesso medico fare allargare le gambe ad alcuni detenuti con piccoli calci alle caviglie l’ho anche visto dare un piccolo ceffone.
Non veniva chiesti ai detenuti sottoposti a visita medica di primo ingresso dove e come si fossero procurate le varie ferite ed escoriazioni che si erano procurate come esplicitamente previsto dal DAP e spesso non venivano nemmeno redatti referti medici per quei pazienti inviati in ospedale.
Venivano fatte considerazione, dallo stesso medico ad alta voce come: “Sei una brigatista hai la stella a cinque punte delle Brigate Rosse†o “Te lo do io Che Guevara†e altro.

FUORI DALL’INFERMERIA sin dalla sera del venerdì 20 durante la mia permanenza a
Bolzaneto dalla ore 20 alle ore 8 del giorno 21 ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con pugni, calci, schiaffi e testate contro il muro (sia dalla Polizia di Stato che, soprattutto dagli Agenti di Polizia Penitenziaria sia dei Gom che del Nucleo Traduzioni).
Nei giorni del mio servizio, sino alle ore 15-15.30 del 22 ho anche visto trascinare un detenuto in bagno, da circa tre o quattro agenti di P.P. i quali dicevano “Devi pisciare vero?
Hai detto che devi pisciare vero?â€. E una volta arrivati nell’androne del bagno ho sentito che lo sottoponevano ad un vero e proprio pestaggio.
Ho visto sferrare ad un detenuto in piedi nel corridoio vicino all’infermeria, un violentissimo calcio ad una gamba da parte di un agente di P.P. ed un altro che allora le diceva “Ma che cazzo faiâ€.
Ho visto distruggere, con il tallone di un anfibio un telefono cellulare ai piedi del presunto proprietario.
Ho sentito e visto in un gabbione un Agente della Polizia di Stato che dall’esterno, approfittando della finestra aperta, con la suoneria del proprio telefonino faceva suonare Faccetta nera.
Inoltre ho dovuto assistere ad una sequela infinita di violenze gratuite ed ingiustificate. Tali violenze le hanno maggiormente perpetrate gli Agenti di Polizia Penitenziaria.
Inoltre alcuni ragazzi, chiamati benzinai per l’odore di benzina che facevano, avevano un trattamento “speciale†ancora più violento nei loro confronti.
A Bolzaneto ho avuto la netta sensazione che nessuno comandasse o avesse responsabilità di coordinamento in quanto tutto ciò è successo nonostante la presenza di ufficiali e graduati.
Nella caserma di Bolzaneto vi erano moltissimi agenti ma solo alcuni di loro, anche se parecchi, hanno fatto violenze da me denunciate ed è anche per questo, per tutelare la maggioranza degli agenti che hanno fatto e fanno il loro lavoro con serietà e professionalità che ho deciso di testimoniare e anche perché in un paese civile non si può tollerare che vengano disconosciuti, come è avvenuto a Bolzaneto, i più elementari diritti di ogni cittadino.
Lei avrà dei figli sig. Presidente e io ho dei nipotini anche loro dovranno avere il diritto di protestare contro chiunque vogliano sia che siano di destra sia che siano di sinistra, anche questa è la vera democrazia.
Comunque i fatti citati e quelli evidenziati al giudice sono solo una parte.
Rimango comunque, se Ella lo ritiene opportuno, a Sua disposizione per ogni ulteriore chiarimento.
In fede
Marco Poggi
Bologna, 29 agosto 2001


FONTI DI RIFERIMENTO

Libri

AA.VV., Genova. Il Libro Bianco, “l’Unitàâ€, “Liberazioneâ€, “il Manifestoâ€, manifestolibri, Carta 2002
I fatti di Genova. Relazione dei gruppi parlamentari dell’Ulivo, Editori Riuniti 2001
Il caso Genova. Da Piazza Alimonda alla scuola Diaz, Manifestolibri, 2002
Giulietto Chiesa, G8/Genova, Einaudi, Torino 2001
Valeria Chioetto (a cura di), Voi G8... Noi 6.000.000.000: quel che è stato deciso nel vertice ufficiale di Genova, Editrice Berti - Altra Economia 2002
Concita De Gregorio, Non lavate questo sangue, Laterza
Heidi e Giuliano Giuliani (con Antonella Marrone), Un anno senza Carlo, Baldini & Castoldi, 2002
Lorenzo Guadagnucci, Noi della Diaz. La notte dei manganelli e i giorni di Genova nel racconto del giornalista che era dentro la scuola, Editrice Berti - i libri di Altreconomia
Carlo Gubitosa, Genova, nome per nome. Le violenze, i responsabili, le ragioni, Berti/Altreconomia, 2003
Stefano Tassinari, I segni sulla pelle, Marco Tropea Editore
Stefano Cristante, Violenza MEDIAta. Il ruolo dell’informazione nel G8 di Genova, 2002
AA.VV., Globalizzazione delle resistenze e delle lotte, EMI,
2000
Radio Gap, Le parole di Genova, Edizioni Fandango, 2002
AA.VV., I popoli di Seattle, Limes, 2001
Baumann, Dentro la globalizzazione, Laterza, 1998
Naomi Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, Baldini & Castoldi, 2001
Luther-Blissett, McNudo 100 buone ragioni per stare alla larga da Mc Donald’s , Stampa Alternativa, 2001
Film “Bella ciaoâ€, film di Marco Giusti sul G8 “Carlo Giuliani, ragazzoâ€, film di Francesca Comencini “G-Hateâ€, film di Gianfranco Pancrazio, Franco Leo, Matteo
Nigro “Aggiornamento 1 - Aggiornamento 2†di Indymedia. “Sequenze sul G8†film prodotto dall’ Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. Regia di Silvia Savorelli “Le strade di Genovaâ€, film di Davide Ferrario “Niente da archiviare. Materiali da piazza Alimondaâ€, a cura del Comitato “Piazza Carlo Giulianiâ€, Pillola rossa, Comitato “Verità e giustizia per Genova†“Maledetto G8. Le immagini shock dei due giorni di Genovaâ€, film sul G8 di Genova, regia di Roberto Torelli “Un mondo diverso è possibileâ€, film in videocassetta da 60 minuti ideato e diretto da Francesco Maselli
Genoa Social Forum, “Genova per noi. Immagini e testimonianze sui tre giorni del G8â€, film in videocassetta ideato e realizzato da Paolo Pietrangeli
Globalise Resistence - Tv Choice Production, “Genova libera†videocassetta di 34 minuti, Londra 2002
Indymedia e il Genoa legal forum, “Genova luglio 2001 - i diritti negatiâ€, Genova 2003
Studio Media, “Genova senza risposte. La ricostruzione dei fatti di Genova dal 16 al 22 luglio 2001â€, videocassetta di 62 minuti, realizzata da Federico Micali, Teresa Paoli, Stefano Lorenzi
Giacomo Verde e Lello Voce (a cura di), “Sololimoni. Agrumi e testi sui fatti di Genova†(libro e videocassetta), Shake edizioni
Francesco Villa, “La discussioneâ€, film di 8’

Cd-rom
Radio Popolare, “Genova luglio 2001/cronache†(con 5 cdaudio allegati con le radiocronache di Radio Popolare) “Microfoni da Genovaâ€, prodotto da Radio Città del Capo di
Bologna “Organismi genovamente modificati. Piccolo dizionario degli orrori, Genova luglio 2001â€, Edizioni Zero in Condotta
Siti
http://www.peacelink.org
http://www.italy.indymedia.org
http://www.ngvision.org
http://www.indymedia.org

INDICE GENERALE

Prefazione 5
Introduzione 9
In movimento verso Genova 10
La storia dell’infamia 22
Le giornate di Bolzaneto 25
Mediattivismo 54
Bisogna raccontare tutto! 56
Io, l’infame di Bolzaneto 68
Chi è Basaglia? 82
Sul perché chiediamo giustizia 98
Postafazione 106
Appendice 112
Lettera alla commissione parlamentare di indagine sui fatti di Genova 114
Richiesta di onorificienza 119
Interrogazione parlamentare 120
Fonti di riferimento 121

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