Evoluzione miope
I darwiniani, per togliere di mezzo Dio, finiscono per credere agli extraterrestri... di Francesco Agnoli C’è da credergli, a Darwin, quando parlando di se stesso scrive di “essere molto portato a inventare coscienti bugie, e sempre allo scopo di provocare movimento”. E pure quando ricorda più volte, ponendola tra le doti alla base del suo “successo come scienziato”, la sua “buona dose di inventiva” (Autobiografia). Nell’esporre la sua ipotesi di un evoluzionismo trasformista, infatti, Darwin non solo ignora i meccanismi dell’ereditarietà, al punto di non degnarsi neppure di leggere uno scritto inviatogli dal povero monaco Gregor Mendel, ma costruisce un’ipotesi sull’uomo fondandosi solo sulle affinità morfologiche, fisiologiche, e secondo lui psicologiche, con altri mammiferi. Come se la somiglianza tra una moto e una bicicletta, o tra una poesia di Dante e una ricetta di cucina, bastassero a dimostrare la derivazione delle prime dalle seconde. In verità Darwin non ha prove paleontologiche, e si limita a ritenere che un giorno verranno scoperti i famosi anelli mancanti, intermedi, testimonianze della transizione graduale da una specie all’altra. Tali anelli sono stati cercati, ma il risultato sembra essere solo l’accumularsi di errori, di casi incerti, oltre che di falsi ideologici certi, come l’uomo di Piltdown, o molto probabili, come l’uomo della Cina, o Sinatropo. Dopo un secolo di ricerche, la realtà è che siamo ancora in alto mare. Secondo due autorevolissimi paleontologi, entrambi evoluzionisti, Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, infatti, “gli anelli semplicemente non esistono, e l’evoluzione non sarebbe il risultato di molte piccole variazioni graduali, come per Darwin, ma di cambiamenti bruschi, seguiti da lunghissimi periodi di stabilità” (Mariano Artigas, “Le frontiere dell’evoluzionismo”, Ares). Basterebbe riflettere su posizioni così antitetiche, quelle di Darwin e quelle di Gould, per comprendere come le “certezze” della macroevoluzione siano assolutamente risibili. Anche a Darwin, per tornare alla sua “inventiva”, vengono attribuite falsificazioni volontarie: parte delle foto utilizzate a sostegno della sua tesi vennero truccate, su sua esplicita richiesta, dal fotografo Rejlander (http://www.disf.org). Il maestro, per il vero, sembra sia stato ben imitato: oltre ai falsi già ricordati, si possono menzionare quelli del suo apostolo, Ernst Haeckel, già denunciati da A. Brass e A. Gemelli nel 1911, e quelli di P. Kammener, deprecati da un darwinista eccellente come il genetista italiano G. Montalenti nel suo “Elementi di genetica”. Fattori poetici e indefiniti Ma non è solo qui che l’inventiva del Nostro sembra brillare particolarmente. E’ dovendo indicare il meccanismo dell’evoluzione, infatti, che ci offre il meglio di sé e della sua “scienza” non sperimentale: incapace, cioè, come ha scritto il fisico Antonino Zichichi, di rigore, di riproducibilità, di basi matematiche e di “predire il valore esatto dei tempi che caratterizzano l’evoluzione umana”; incapace, come aggiunge Pietro Omodeo, di fare previsioni, e cioè di “ricavare applicazioni pratiche”. Cosa fa Darwin? Attribuisce tutto a tre fattori “vaghi e indefiniti”, e per questo poetici assai, come la selezione naturale, di cui si scrive che “il suo potere non ha limiti creativi” (proprio al pari del Creatore!), il tempo, che sembra assumere lo stesso ruolo delle fate con bacchetta magica, e il Caso, altro personaggio sfuggente come pochi, essendo indefinibile, un non ente non causante, eppure caricato di compiti straordinari. Ma perché attribuire trasformazioni così complesse, dalla “larva” all’uomo, al tempo e al caso? Semplicemente per negare il finalismo, il disegno intelligente, l’“unità di disegno” sostenuta da Voltaire, come pure dai più grandi scienziati della storia, da Galilei a Morgagni, Pasteur, Mendel, Maxwell, Planck… Siamo chiaramente di fronte a una posizione ideologica, che traspare anche dalle affermazioni di quanti, da Haeckel, a Montalenti, a Dawkins, sostengono che tutto, nella sua armonia e complessità, “ha l’apparenza di essere stato progettato per uno scopo”, ma solo l’apparenza! E’ così che, negando l’evidenza, al solo scopo di accantonare Dio, si finisce per appellarsi agli extraterrestri, come fa lo scopritore della struttura del Dna, il premio Nobel Francis Crick, allorché scrive: “L’origine della vita appare quasi un miracolo, tante sono le condizioni che hanno dovuto essere soddisfatte perché essa potesse avere inizio”. Un miracolo? Sì, ma grazie ai “microrganismi inviati in una qualche navicella spaziale da una civiltà extraterrestre” (F. Crick, “Life itself”). Il Foglio 3 novembre 2005
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