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Audience attiva: il caso indymedia [2]
by lisic(A) Saturday, Jan. 21, 2006 at 7:09 PM mail:

LA CONCEZIONE DELL’AUDIENCE NELLE PRINCIPALI TEORIE SUGLI EFFETTI SOCIALI DEI MEDIA

Nel corso della storia del ventesimo secolo, gli studi sui media si sono inizialmente concentrati sugli effetti che i nuovi mezzi di comunicazione (chiamati di massa perché vengono utilizzati da un pubblico sempre più vasto), avevano sul pubblico che ne faceva uso.
I nuovi mezzi di comunicazione di massa, come radio, cinema e poi televisione nel XX secolo costituirono delle grandi novità tecnologiche che modificarono il modo di interagire, di conoscere e di fare esperienza abbattendo, così, i confini di tempo e spazio, creando quello che venne definito da McLuhan villaggio globale: un mondo in cui grazie ai media, che costituiscono gli strumenti di una nuova diffusa e potentissima “sensorialità”, tutti possono essere informati su tutto, così come accadeva nelle società semplici, dove però erano i rapporti interpersonali diretti a garantire la comunicazione e, quindi, la circolazione delle informazioni e la conoscenza delle cose e degli eventi.
Nell’esposizione delle diverse teorie elaborate nel corso degli anni sugli effetti sociali dei media, non si può prescindere dal considerare il contesto sociale e storico in cui esse si sono sviluppate.
Spesso le teorie sui media vengono spiegate e descritte seguendo un percorso “cronologico”, partendo da quella che è considerata la prima teoria sugli effetti dei media, che è la teoria ipodermica elaborata nei primi decenni del XX° secolo, fino ad arrivare alle nuove teorie degli audience studies degli ultimi decenni. In ogni teoria sugli effetti sociali dei media vi è una particolare concezione dell’audience: si va dall’intenderla come una massa sostanzialmente “passiva” fino ad una moltitudine di individui “attivi”, che riesce a mediare i contenuti elaborati dai media grazie al proprio bagaglio di esperienze culturali e sociali, maturate nel corso delle relazioni sociali tradizionali all’interno del proprio gruppo dei pari o tramite le altre agenzie di socializzazione (famiglia, scuola, ecc).
In questo capitolo le teorie degli effetti sociali dei media non verranno esposte in “ordine cronologico” ma seguendo le concezioni sull’audience che stanno alla base di queste teorie, distinguendo le teorie che si basano sul concetto di audience passiva da quelle che prevedono determinati gradi di attività dell’audience.

1.1 Audiences “passive”
Nella letteratura il modello della teoria ipodermica è posto agli inizi, come primo momento della riflessione sulle comunicazioni di massa. Gli elementi che maggiormente caratterizzano il contesto della teoria ipodermica sono, da un lato, le novità del fenomeno stesso della comunicazione di massa, dall’altro lato, la connessione di tale fenomeno con le esperienze totalitarie e autoritarie che caratterizzarono il periodo tra le due guerre mondiali; periodo nel quale viene appunto elaborata questa teoria.
Secondo la teoria ipodermica “i messaggi veicolati dai media colpiscono singolarmente e fortemente gli individui influenzandone le opinioni e i comportamenti. Si presume che gli effetti siano diretti ed immediati sulle persone che vi si espongono, e al tempo stesso che l’audience sia costituita da una massa di individui indifferenziati e isolati tra loro, quindi facilmente attaccabili dai messaggi”. A questa concezione di effetti forti dei media corrisponde la concezione di un’audience completamente PASSIVA e INDIFESA, che assorbe tutti i contenuti trasmessi.
Questa concezione di audience passiva ed indifesa deriva direttamente dalle teorie pessimistiche riguardanti appunto il pubblico di “massa”. All’inizio del XX° secolo, l’audience dei media viene considerata in maniera molto pessimistica come una massa di individui, ciascuno solitario fruitore dei messaggi veicolati dai media, ciascuno influenzabile, ciascuno attore completamente passivo del processo della comunicazione. Alla base di questa concezione pessimistica c’erano i nuovi processi di urbanizzazione e di industrializzazione in corso in tutti i paesi industrializzati che andavano allentando tutti i legami sociali tradizionali, isolando e alienando gli individui dagli altri individui. Questi individui isolati tra loro costituiscono, secondo gli studiosi “pessimisti”, una massa di persone ignoranti, irrazionali e facilmente suggestionabili che tendono ad assumere atteggiamenti collettivi uniformi pur non trovandosi spazialmente nello stesso luogo. Infatti, i messaggi che i nuovi media riuscivano a veicolare raggiungevano ormai tutto il territorio di una nazione, “colpendo” con i propri messaggi gran parte della popolazione.
Comunque il modello della teoria ipodermica non è considerato come un vero e proprio modello della communication research perchè nessuno scienziato sociale, nessuno studioso della comunicazione ha sostenuto con ricerche e con sperimentazioni empiriche questa teoria. Essa fu adottata nei primi decenni del secolo soprattutto da scrittori ed intellettuali che si mostravano pessimisti nei confronti delle comunicazioni di massa visto l’uso che ne veniva fatto dai vari regimi autoritari e totalitari sparsi per l’Europa, soprattutto con l’esercizio massiccio della propaganda politica.
Un’altra visione pessimistica, in questo caso di matrice marxista, delle comunicazioni di massa è la teoria critica elaborata e portata avanti dagli studiosi della Scuola di Francoforte negli anni ’50 e ’60. Tra questi possiamo ricordare nomi del calibro di Horkheimer, Adorno e Marcuse. Essi denunciano il dominio dell’industria culturale, intesa come tutti quegli organismi privati e pubblici che elaborano e veicolano dei messaggi e dei significati ben specifici, e quindi anche dei mass media, nei confronti degli individui all’interno di una società caratterizzata da un’economia capitalistica basata sul profitto.
La teoria critica sostiene che la cultura “di massa” diffusa dai media non consiste in una cultura prodotta spontaneamente dalla massa, ma si tratta di una cultura prodotta per la massa da parte di coloro che detengono il controllo dei mezzi di produzione culturale, ovvero dell’élite dominante. L’élite culturale dominante agisce diffondendo una cultura di massa volta ad esercitare un “controllo psicologico” sul comportamento del ricevente dei messaggi con l’obbiettivo di mantenere lo status di cose esistenti all’interno della nuova società consumistica nata nel secondo dopoguerra.
Per quanto riguarda la concezione dell’audience dei mezzi di comunicazione di massa insita nella teoria critica, non ci si discosta dalla concezione di totale passività dell’audience sostenuta con la teoria ipodermica. In ogni prodotto mediatico vi sono “segnali” che indicano al pubblico cosa pensare; il pubblico è passivo e acritico poiché è impossibilitato a reagire in maniera differente da quella prevista dagli emittenti. Sostanzialmente l’uomo è in balia di una società che lo manipola a piacere in maniera subdola facendo in modo di convincerlo che in realtà egli è indipendente dai messaggi veicolati dalla cultura di massa.
Fin qui si è parlato di teorie sugli effetti sociali che i media indurrebbero direttamente e in maniera immediata sull’audience. Un nuovo filone di studi sul potere dei media, definito powerfull mass-media, si sviluppa intorno agli anni ’70 e tende ad analizzare non più gli effetti diretti che i media hanno sul comportamento di chi si espone al messaggio, quanto invece analizzano le modalità sottili e indirette con cui i mass media formano, nel lungo periodo, la percezione che il pubblico ha dell’ambiente in cui vive.
Importante esponente di questo filone di studi sul media power è Elisabeth Noelle Neumann, secondo la quale i media hanno il potere di influenzare e persino di creare l’opinione pubblica enfatizzando particolari aspetti di una questione e nascondendone altri. In questo caso “l’opinione pubblica” è vista in senso “integrativo” ovvero: i messaggi spingono l’individuo a non isolarsi dal resto della collettività accettando quella che è, o viene esposta, come l’opinione dominante; l’individuo che potrebbe trovarsi in disaccordo con dei messaggi mediatici, pur di non rimanere isolato dal resto della collettività, rinuncia a far valere le proprie idee uniformandosi all’opinione comune. In questo modo le opinioni considerate dominanti si diffondono sempre di più a scapito di quelle meno accreditate; in tale diffusione i media assumono un ruolo cruciale. L’adeguarsi del pubblico alle opinioni maggiormente valorizzate dai media produce un effetto a spirale di riduzione al silenzio delle opinioni minoritarie. Da qui il nome della teoria di Noelle Neumann: spirale del silenzio.
Anche secondo questa teoria l’audience è una protagonista passiva del processo di comunicazione a causa delle caratteristiche insite nel sistema dei media (soprattutto per quanto riguarda la TV): la cumulatività intesa come ripetitività delle informazioni rese rilevanti dai media; e la consonanza, ovvero la presenza nei diversi canali mediatici di argomentazioni unanime riguardo ai fatti, alle persone e ai problemi esposti al pubblico. L’individuo che deve ricevere il messaggio non è in grado di selezionare le opinioni a lui più congeniali, proprio perché le opinioni esposte seguono tutte lo stesso “filone”; con la conseguenza che i media divengono i mezzi principali per gli individui che scelgono il “silenzio” della propria opinione, e che vogliono uniformarsi all’opinione considerata “dominante” con lo scopo di non sentirsi isolati all’interno del proprio ambiente sociale.
Altra teoria sui powerfull mass-media, che si riferisce ad effetti di lungo termine della fruizione televisiva, è la teoria della coltivazione (cultivation theory), elaborata anch’essa intorno agli anni settanta da George Gebner e dagli studiosi dell’Annenberg School of Communications dell’Università della Pennsylvania. Anche in questa teoria viene data particolare enfasi al potere del mezzo televisivo considerato come una vera e propria agenzia di socializzazione, perché viene considerato come il principale “costruttore” di immagini e rappresentazioni della realtà sociale.
In una sua ricerca, Gebner sostiene che i bambini nati nell’era della televisione crescono guardandola fin da piccoli molte ore al giorno e, data la loro limitata esperienza diretta della realtà e le loro scarse conoscenza sul mondo, sono condizionati ancora più degli adulti dalla realtà esposta nella fiction televisiva. Lo studioso, quindi, sostiene che nel lungo periodo la televisione ha il potere di “coltivare”, sia negli adulti ma ancor di più sui bambini, delle immagini della realtà semplificate, distorte e stereotipate, che spesso vengono confuse o sovrapposte con la realtà “oggettiva”, quella di cui si fa esperienza quotidianamente nella vita reale.
Anche qui si fa riferimento all’omogeneità dei contenuti trasmessi dalla televisione per sostenere la passività dell’audience. In più Gebner aggiunge il fattore relativo alla quantità di messaggi ricevuti sostenendo che più le persone guardano la televisione più subiscono la sua influenza.
Secondo la teoria della dipendenza, invece, l’ampiezza e l’intensità degli effetti mediali sono legate al grado di dipendenza che le componenti del sistema sociale e gli individui stessi hanno dal sistema dei media. Viene posto un forte rilievo sui rapporti che intercorrono tra il sistema sociale e il sistema dei media come metro per “misurare” l’intensità della dipendenza dai media. Questo modello considera la dipendenza del sistema sociale dai media non in maniera universalistica, ma sostenendo una stretta connessione tra i caratteri del contesto e i tipi di dipendenza.
I tipi di dipendenza rispetto ai media sono di tre generi:
1. una dipendenza cognitiva che si esplica nella necessità di riferirsi ai media per la conoscenza della maggior parte della realtà sociale;
2. la dipendenza nell’orientamento consiste nel fatto che i media sono considerati centrali ai fini delle interazioni sociali (oltre alle tradizionali reti di rapporti interpersonali e alle nostre stesse esperienze);
3. dipendenza nell’attività di svago (si a livello individuale sia a livello sociale).
In breve, secondo questa teoria, gli individui tendono a dipendere dai media per ottenere informazioni adatte ai loro scopi. L’intensità della dipendenza varia a seconda delle caratteristiche individuali, quali le motivazioni, gli scopi e le aspettative possedute nei confronti dei contenuti, che orientano le scelte di fruizione e i comportamenti di consumo. Questa teoria, in conclusione, concilia l’esistenza di un potere dei media con un certo grado di selettività dell’audiences allontanandosi dal binomio “effetti forti/audiences passive”.
Il potere dei media può non manifestarsi con un’influenza diretta su singole opinioni o atteggiamenti. Infatti i media possono anche attirare l’attenzione del pubblico su temi, eventi e personaggi di cui essi stessi parlano e nella misura in cui essi ne parlano, determinandone in tal modo l’importanza. Questa teoria prende il nome di teoria dell’agenda-setting.
I temi posti quotidianamente in “agenda” dai media vengono percepiti dal pubblico come temi rilevanti, e diventano così le questioni su cui discutere pubblicamente, su cui è “necessario” formarsi un’opinione; sono i temi che occupano i primi posti nella gerarchia delle notizie creata ogni giorno dai media a divenire i temi prioritari dell’agenda del pubblico. Donald Shaw, uno degli studiosi che hanno elaborato questa teoria, sostiene che “la comprensione che la gente ha di gran parte della realtà sociale è mutuata dai media”.
Per quanto riguarda, quindi, i rapporti tra media e pubblico, si sostiene la capacità dei media di influire sulla percezione di quali siano gli argomenti importanti su cui è “doveroso” formarsi un’opinione, indipendentemente dalle opinioni individuali. Poichè diversi media hanno diversi “poteri d’agenda”, l’elaborazione delle gerarchie d’importanza dipende anche dal media a cui ci si espone maggiormente. Inoltre, secondo alcuni critici di questa teoria, non viene considerata l’esistenza di un’agenda soggettiva dell’individuo, indipendente dai messaggi dei media. Secondo questi studiosi, è lecito supporre che vi sia una sorta di negoziazione tra le due agende nel formarsi delle gerarchie d’importanza, e di conseguenza che il pubblico non abbia un ruolo completamente passivo come i teorici dell’agenda-setting sostengono.

1.2 Audiences “attive”
Nell’esposizione delle diverse concezioni di audiences “attive” bisogna necessariamente partire dall’idea che per rapportarsi con i messaggi veicolati dai mass-media, bisogna che l’individuo innanzitutto decida (a meno che non vi sia costretto) di esporsi a tali messaggi. Una volta presa questa decisione, l’individuo si trova di fronte a diverse possibilità di esposizione. Egli può scegliere, selezionare il media a cui si vuole “esporre”, il tempo dedicatovi, il genere di programma (se il mezzo è la TV o la radio), l’articolo o il libro da leggere. Sostanzialmente l’audience è in grado di selezionare i contenuti dei media in accordo con le proprie idee, in base al meccanismo psicologico dell’esposizione selettiva. In questo approccio l’audience non è definita “attiva”, bensì, come afferma Raymond Bauer, la si può ritenere un’audience ostinata nel senso che non sempre gli individui rispondono in maniera adeguata alle aspettative del mittente. La selettività nell’esposizione ai media dipende da molti fattori come le motivazioni o i bisogni degli individui, ma anche dalle relazioni sociali che gli individui instaurano all’interno del proprio contesto sociale.
Proprio queste relazioni sociali sono assunte come base di partenza della teoria degli effetti limitati. Questa teoria fu elaborata in contrapposizione alla teoria ipodermica dal sociologo Paul Felix Lazarsfeld. Egli sosteneva che l’eventuale influenza dei media su ciascun membro del pubblico non è un’influenza diretta, ma al contrario mediata da condizioni e fattori sia psicologici sia sociali. Per mezzo di studi empirici, venne riscontrato all’interno della società una sorta di tramite tra i messaggi dei media e il pubblico di massa, dato dagli individui più attivi, influenti e più interessati a formarsi un’opinione esponendosi ai media. Questi individui sono chiamati opinion leaders. Più semplicemente vi sono degli individui, all’interno delle collettività, più attenti degli altri ai messaggi dei media e, grazie alla loro possibilità di influire sulle opinioni degli altri individui meno informati, contribuiscono in maniera più efficace dei media al mutamento delle stesse opinioni. Vengono, quindi, rivalutati dalla ricerca sui media i rapporti sociali all’interno della società di massa, rappresentandola in maniera completamente diversa da come si faceva con la teoria ipodermica, ovvero la società di massa come una collettività di individui atomizzati e isolati tra loro; bensì essa è formata da individui che hanno famiglie, vicini di casa, colleghi di lavoro con i quali stringono dei rapporti sociali condividendo valori e norme di comportamento e con i quali si scambiano opinioni. Con questa teoria non si sostiene tanto una effettiva attività dell’audience, quanto si vuole sottolineare come la visione pessimistica dei media della teoria ipodermica fosse infondata, proprio perché i media non dirigono a piacere le opinioni, e di conseguenza i comportamenti degli individui, perché questi sono inseriti in un contesto sociale, ed entro di esso si rapportano con altri individui e con delle regole ben precise, negando così l’immagine di una massa di individui isolati che assorbono il messaggio mediatico senza confrontarlo con le proprie esperienze e convinzioni che hanno preso forma all’interno di un determinato schema di rapporti sociali.
Un chiaro tentativo di definire i “poteri” del pubblico nel suo rapporto con i media è quello portato avanti da Stuart Hall tramite l’elaborazione del modello comunicativo encoding/decoding (codifica/decodifica). Lo studioso sostiene l’esistenza di due codici diversi nel processo di comunicazione. Uno è il codice usato dai media per veicolare i propri messaggi, l’altro è quello usato dal pubblico per decifrare i messaggi dei media.
Hall descrive il processo di comunicazione come una relazione tra due momenti facenti entrambi parte del processo comunicativo considerato nel suo complesso: l’emittente codifica un messaggio che veicola determinati significati e che assume una particolare “forma” a seconda del medium utilizzato (tv, radio, stampa); il destinatario, sulla base dei propri codici, decodifica il messaggio cercando di comprendere le intenzioni e i significati proposti dall’emittente. Ed è solo quando il messaggio viene percepito dal pubblico come “discorso dotato di significato” e si integra nelle pratiche sociali che, secondo Hall, si può parlare di comunicazione.
Quindi tenendo conto della diversità di codici con cui “leggere” i messaggi e dei diversi contesti in cui vengono ricevuti, è possibile che i destinatari dei messaggi non si allineino all’opinione proposta dall’emittente. Il ruolo attivo del fruitore si riscontra in questo modello nell’accettazione o nel rifiuto dei punti di vista presentati dai media.
Anche nell’approccio degli “usi e gratificazioni” si dà molta importanza al contesto sociale in cui vive il soggetto ricevente della comunicazione. Secondo questa teoria è proprio l’ambiente sociale che fa nascere nell’individuo determinati “bisogni”. I mass-media sono considerati da chi ne usufruisce mezzi capaci di soddisfare almeno alcuni di questi bisogni e per questo vengono “usati”: dall’”uso” dei media, quando essi risultano efficaci a questo fine, derivano delle “gratificazioni” che aiutano ad affrontare le situazioni sociali e ad alleviare le eventuali condizioni di disagio che queste possono produrre. Questa teoria enfatizza il ruolo attivo del pubblico nel suo rapporto con i media, riconoscendogli la possibilità di attuare un’ “uso” strumentale dei media in vista della soddisfazione di bisogni individuali. L’attenzione, in questo caso, si sposta da ciò che i media “fanno al pubblico” a ciò che il pubblico “fa con i media”.

Alla fine di questa breve carrellata di teorie sugli effetti dei media e di alcuni modelli comunicativi, risulta chiaro che non esiste una fruizione totalmente passiva: ciascuno presenta un certo grado di attività nella ricezione e naturalmente molto dipende da cosa si intende per “audience attiva”.
Possiamo così riassumere i comportamenti che nella letteratura sono stati associati ad un audience “attiva”:
- selettività nella scelta dei media di cui usufruire e dei contenuti ai quali esporsi;
- utilitarismo in quanto il pubblico sceglie i contenuti ai quali si espone allo scopo di soddisfare dei bisogni;
- resistenza, ovvero la capacità di opporsi ai contenuti ricevuti mediante i media.
Le “audiences attive” non vengono mai considerate attive perchè partecipano direttamente alla produzione dei messaggi veicolati dai media. Il pubblico si limita a riceverli. Le sue “attività” vengono riconosciute nella scelta del mezzo, dei significati, nell’uso di un preciso mezzo di comunicazione per soddisfare dei bisogni o nella capacità intellettuale (e comportamentale) dell’individuo di ragionare sul messaggio ricevuto e decidere se accettarlo o respingerlo, quanto e in quale maniera. Non viene riscontrata una “divisione più o meno equa dei poteri” tra i due protagonisti del processo comunicativo: come all’inizio del ventesimo secolo, la situazione di asimmetria all’interno del processo comunicativo pende decisamente da parte dei media. Questa situazione è legata alla presenza ormai quasi indispensabile dei mass media all’interno del nostro conteso sociale. I media tradizionali, la televisione su tutti, continuano a produrre messaggi con determinati significati. Dalla loro elaborazione il pubblico è tenuto decisamente alla larga. L’attività del fruitore, nella creazione del messaggio da parte del media in genere, non può essere considerata quella della lettera che viene pubblicata all’interno di una rubrica nelle pagine centrali di un quotidiano o settimanale, o dell’SMS mandato col cellulare che scorre sullo schermo durante un programma televisivo qualunque. Perché questi vengono accuratamente controllati e selezionati prima di “apparire” al pubblico.
Nel nuovo secolo in cui ci stiamo affacciando le innovazioni tecnologiche (COMPUTER ed INTERNET) sembrano rendere il pubblico più libero dai condizionamenti imposti dai media e “attivo” nella possibilità non solo di poter selezionare i contenuti preferiti ma anche di poter creare dei contenuti propri, produrre dei veri e propri messaggi mediali, mediante lo sfruttamento di un medium (media) quale il computer e sfruttando la rete internet che permette a chiunque di poter creare delle pagine, leggibili potenzialmente da chiunque, con i contenuti preferiti. Tutto ciò con costi di produzione e gestione alla portata di un gran numero di persone, e la necessità di una conoscenza non specialistica dei mezzi tecnici. Totalmente l’opposto avviene per quanto riguarda i media tradizionali, la cui creazione ex novo richiede ingenti risorse finanziarie, umane e, inoltre, conoscenze altamente specifiche dei mezzi da utilizzare.

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