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Palestina, Israele e pensiero critico
by Roberto Signorini Friday, Jul. 21, 2006 at 9:38 AM mail:

Alcune riflessioni


Se la cosiddetta sinistra italiana appare così omologata su posizioni filo-israeliane è anche perché una vastissima area di opinione democratica e antirazzista si lascia chiudere sistematicamente la bocca dal ricatto dell’accusa infamante di antisemitismo, al punto che l’indignazione per un sessantennio di abusi contro la legalità internazionale e di violenze contro i Palestinesi da parte dei governi di Israele non trova alcuno spazio di espressione pubblica, e ogni dibattito serio sull’argomento è reso impossibile.
Il suicidio culturale e politico della sinistra italiana ha significato, in nome di una presunta fine della storia e delle ideologie, l’abdicazione alla memoria storica e a due secoli di pensiero critico con radici illuministiche ancor prima che hegeliane e marxiane. Su queste basi viene accettata la pretesa dello stato di Israele ― fondato sul militarismo, l’aggressività colonialista e la discriminazione razziale ― di rappresentare l’ebraismo, anzi di identificarsi con esso e di parlare in suo nome col linguaggio delle armi. Ma ciò significa dimenticare e disperdere l’enorme patrimonio che l’ebraismo non integralista ha rappresentato per la cultura laica e democratica dell’intera modernità.
In questo contesto di disfacimento culturale si colloca l’avallo silenzioso della sinistra all’alleanza politico-militare stretta con lo stato di Israele dalla destra italiana, al riciclaggio come sostenitori dell’ebraismo di coloro che hanno raccolto l’eredità del fascismo razzista e complice della shoah, e alla stigmatizzazione come antisemiti di coloro che si oppongono alla politica di Israele richiamandosi all’antifascismo a al rifiuto del razzismo.
L’identificazione dello stato di Israele con l’ebraismo e l’annullamento di fatto del patrimonio ideale e storico di questo nella politica statale di quello (a cui in Italia contribuiscono anche le dirigenze delle comunità ebraiche, appiattite sull’approvazione a qualunque costo della politica di Israele) non può che avere effetti devastanti e regressivi, soprattutto quello paradossale e sempre più frequente del risorgere dell’antisemitismo per la libertà d’azione garantita alle componenti sociali neofasciste e razziste, e la riduzione al silenzio di quelle antifasciste a antirazziste.
Già trent’anni fa un autore non certo accusabile di antisemitismo come il sionista Yeshaiahu Leibowitz (“Lo Stato, l’uomo, il popolo e l’ebraismo” [1975], in D. Bidussa, Il sionismo politico, Milano, Unicopli, 1993, p. 213) vedeva la società di Israele identificarsi ormai esclusivamente “nel suo Stato”, cioè “nella sovranità, nel potere, nella bandiera, nell’esercito, nell’attività bellica, nell’occupazione militare, nella vittoria, in tutto il complesso dei valori fascisti”, e a ciò riconduceva l’esodo da Israele di migliaia di persone all’anno. Ed è appena il caso di richiamare la profonda analisi di Alberto Asor Rosa (La guerra, Torino, Einaudi, 2002) e le vigorose prese di posizione di Franco Fortini (“Lettera agli ebrei italiani”, in Il Manifesto, 24 maggio 1989). Infine, basta leggere Franz Kafka, Walter Benjamin, Anna Frank, Etty Hillesum e poi pensare allo “stato ebraico” di Israele per rendersi conto dell’abisso che ormai separa questa entità statale dalla storia e dalla cultura che essa pretende di esaurire in sé.
Sono convinto che finché non si aprirà una riflessione coraggiosa e veramente laica, di alto profilo intellettuale ma con dimensioni di massa paragonabili a quelle del movimento per la pace, sulla differenza fra ebraismo e stato di Israele, sull’impossibilità della pace e sui rischi di sempre nuovo antisemitismo che la loro forzata e abusiva identificazione determina, finché questo rivolgimento di idee non avverrà, anche sul piano dei fatti non potranno avvenire cambiamenti.
Gli appelli contro la “marcia della follia” dello stato di Israele e per la razionalità di una pace giusta con un vero stato di Palestina possono trovare spazio solo se si ha il coraggio di tornare alla radice dei problemi. Primo Levi ha scritto Se questo è un uomo, e di questo “uomo” non ha sentito il bisogno di specificare l’appartenenza etnica, di genere, di lingua, di religione, perché quella indignata domanda nasceva da profonde radici illuministiche e universalistiche: quelle di cui oggi a “sinistra” ci si vergogna o si ha paura.

Roberto Signorini, Milano
r.signorini@flashnet.it
13 luglio 2006

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