Pubblicato sulla Rinascita del 22 setembre 2006
Fin dal primo impatto, scendendo dall’aereo, si avverte che qualcosa in Libano è cambiato. Il moderno aeroporto di Beirut è semideserto, l’atmosfera quasi irreale. La guerra la vedi subito: sulla strada che conduce a Beirut, ponti distrutti ed enormi manifesti riproducono le immagini del conflitto. Su tutti lo slogan “la vittoria divina”. E’ il segno che il principale degli obiettivi proclamati da Olmert è lontano dall’essere anche solo parzialmente raggiunto: gli Hezbollah continuano ad essere una forza fondamentale del Paese, del quale controllano intere regioni. Se ne ha la conferma andando a sud, nei territori teatro per ben 33 giorni dei micidiali bombardamenti israeliani.
Sulla strada che da Beirut collega a Sidone non è restato in piedi neanche un ponte, tutti abbattuti con millimetrica precisione. Abbattuti anche i cavalcavia e i sottopassaggi. Non migliora la situazione quando, oltrepassata Sidone, prima di arrivare a Tiro, si devia verso est in direzione di Nabhatiya. Da qui si va diretti verso il confine israeliano. La meta è il carcere di Khiam, una struttura tristemente nota per essere stata dal 1982 al 2001, durante i venti anni di occupazione israeliana del sud del Libano, luogo di torture atroci. Dopo il ritiro di Barak il carcere era diventato un monumento, un luogo dedicato alla memoria. La guerra lo ha ridotto ad un cumulo di macerie. Girando fra le rovine si coglie il preciso intento dell’esercito di Israele di eliminare proprio questa “memoria”. Khiam ci riserva anche la sorpresa di un partito Hezbollah ancora padrone del territorio.
Il capo militare e responsabile del partito di Dio, Nabil Qawuq, non ha problemi ad incontrare la nutrita delegazione italiana, in Libano per l’anniversario di Sabra e Chatila. Un incontro lungo, durante il quale l’esponente di Hezbollah non sottolinea come Israele abbia fallito in tutti i suoi intenti: «All’inizio ci volevano eliminare, noi siamo oggi anche più forti; poi volevano disarmare,i e invece conserviamo le nostre armi; infine volevano respingerci oltre il fiume Lithani, ma noi siamo sempre presenti a ridosso del confine con Israele». La sua stessa presenza a Khiam è chiaramente una sfida.
Come il sapore di sfida assume il viaggio che viene fatto fare alla delegazione italiana lungo il confine con la Galilea, fino a Bent Jbeil, cittadina martire e simbolo della resistenza libanese. L’esercito di Israele ha tentato per tutti i 33 giorni di combattimenti di conquistare questa collina, senza mai riuscirci. Anche qui, all’ingresso di un paese fantasma, dove le case rase al suolo lasciano il posto ad una nuvola di polvere dall’odore acre della morte, la presenza di Hezbollah è ben percepibile, ad iniziare da una bancarella con le più disparate immagini del leader del movimento e le marce di guerra che inneggiano al partito religioso. Poco prima di giungere a Bent Jbeil, agli ingressi di altri villaggi semidistrutti si vedono, discrete, le presenze di caschi blu indiani e africani. Un atteggiamento diverso da quello che assumono alle porte di Tiro due mezzi del battaglione S. Marco che avanzano lungo una distesa di bananeti con i soldati in tenuta da guerra, mitra e occhiali scuri. Probabilmente le precedenti missioni in Iraq e in Afghanistan hanno condizionato più del dovuto i militari italiani.
Tutte le forze politiche libanesi plaudono all’arrivo del contingente Unifil, salvo ricordare che i caschi blu hanno il compito di fare da cuscinetto e non di disarmare qualcuno. Si teme che le diplomazie possano trasformare quella che in Libano è percepita come una vittoria della resistenza sull’invincibile vicino israeliano. Pressoché assente l’esercito libanese, impegnato in distratti posti di blocco dislocati nelle strade principali. Ai lati delle strade, bandiere gialle e manifesti raffiguranti Nasrallah mostrano chi controlla veramente il territorio. Del resto molti di questi villaggi, a quasi un mese dalla fine della guerra, non hanno ancora visto lo Stato centrale. Le uniche ruspe che rimuovono i detriti sono di Hezbollah e da Hezbollah sono arrivati i primi aiuti in denaro.
E’ straordinaria e visibile la voglia di ricominciare a vivere. Un brulicare di ruspe che rimuovono i calcinacci, mentre i lavori sono coordinati da associazioni legate, neanche a dirlo, al partito di Dio. Qualcuno cerca anche di riparare quello che resta della sua casa, ma non sempre questo è possibile a causa della presenza di oltre 900mila bombe a grappolo, lanciate per lo più nelle ultime 48 ore di conflitto a testimoniare la volontà di Israele di operare un vero e proprio esodo degli abitanti della regione. Solo così, a poche ore dalla tregua, i vertici dell’esercito di Israele hanno pensato di poter sradicare i militanti del movimento religioso dai loro confini, ma sembrano non aver fatto i conti con la determinazione della resistenza libanese.
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