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Moby Prince, il caso si riapre | ||
by dal manifesto Sunday, Oct. 15, 2006 at 1:40 PM | mail: | |
La procura di Livorno torna a indagare sul traghetto affondato nel '91. Sullo sfondo gli Usa. La tesi ufficiale dà la colpa a un banco di nebbia, ma troppi rimangono i misteri. A partire da quello di sei navi militari Usa cariche di armi. In piena guerra del Golfo e a un passo dalla base di Camp Darby. 15 anni di omissioni.
La decisione di riaprire le indagini sulla tragedia del Moby Prince da parte della procura di Livorno è un fatto che nella sua straordinaria importanza conferma un dato elementare: la verità su quanto accaduto la sera del 10 aprile 1991 nel porto di Livorno è ancora tutta da scrivere. Perché un dato è incontrovertibile: alle 22.25 circa di quel maledetto mercoledì, in mezzo alla rada di Livorno piena di navi militarizzate americane di ritorno dalla prima guerra del Golfo, la prua del traghetto Navarma si è infilata nella tanica n. 7 della petroliera Agip Abruzzo carica di iranian light . Ma le ragioni vere che hanno causato la collisione (e che hanno poi impedito ai soccorsi di salvare la vita alle 140 persone morte a bordo del traghetto), beh quelle sono ancora tutte da scrivere. Anche se non difficili da ipotizzare. La tesi ufficiale con cui si è sbrigativamente cercato di spiegare la tragedia al grande pubblico è nota: un banco di nebbia avrebbe avvolto la petroliera (lasciando però perfettamente visibili tutte le altre navi in rada); l'equipaggio della nave passeggeri era distratto da una partita di calcio trasmessa in tv; il comandante del Moby aveva scelto una rotta rapida ma pericolosa per uscire dalla rada. Una combinazione di fattori concomitanti, una distrazione, la solita tragica fatalità insomma, con un enorme fardello di responsabilità scaricato per sempre sulle spalle di chi non potrà mai più difendersi. Quando ho iniziato, ormai cinque anni or sono, a leggere gli atti processuali del caso Moby Prince (indagini, udienze, verbali, perizie), ero partito con l'atteggiamento del «buon padre di famiglia» che, rispettoso delle istituzioni, è convinto che dalla lettura degli atti sarebbero emerse definitive conferme alla versione ufficiale, smentendo una volta per tutte le illazioni su chissà quali misteri. Quattro anni dopo questo stesso cittadino, assieme a molti altri, pretende dalle istituzioni competenti (la procura di Livorno e auspicabilmente una Commissione parlamentare d'inchiesta) una cosa molto semplice: conoscere finalmente tutta la verità sulle ragioni che hanno causato la morte di 140 persone a bordo di un traghetto passeggeri in un porto civile italiano. Perché quella sera non esisteva alcun televisore nella plancia comandi del traghetto, il radar era acceso e funzionante, la timoneria funzionante, la rotta scelta prudente e sicura. E la nebbia serviva a nascondere qualcos'altro. Qualcosa di orribile, di spaventoso. Partiamo dalla necessità di rispondere ad alcune questioni che le inchieste e i processi hanno lasciato irrisolte: perché la Capitaneria di porto di Livorno, appena poche ore dopo la collisione, parla della nebbia come causa dell'incidente mentre l'avvisatore marittimo, il pilota di porto, militari di vedetta e ufficiali della guardia di finanza presenti sul posto affermano che la petroliera era perfettamente visibile in una serata «chiara e limpida»? Pochi minuti dopo la collisione, mentre stanno arrivando i soccorsi, alcune imbarcazioni ancorate in rada registrano i movimenti di altre imbarcazioni che si allontanano a grande velocità dal luogo della collisione: chi sono quelle navi? Perché si trovavano lì (non erano previsti movimenti a quell'ora in quella zona del porto) e soprattutto perché fuggono dopo la collisione, anziché prestare soccorso? Perché non è stato organizzato l'abbordaggio del traghetto dopo la collisione, lasciandolo invece andare alla deriva in fiamme? Perché non è stata almeno tentata un'operazione di salvataggio di passeggeri ed equipaggio del Moby Prince (gli esami clinici hanno evidenziato che la vita a bordo è durata ore)? Chi e perché ha fatto sparire dal vano delle eliche del relitto del Moby Prince i registratori KaMeWa, una sorta di «scatola nera» che avrebbe risolto in modo definitivo la velocità e la rotta seguita dal traghetto al momento della collisione? Chi e perché ha prelevato e tagliato in «modo non professionale» (relazione Criminalpol) un nastro video registrato a bordo del traghetto da un passeggero, prima di consegnarlo al magistrato? Perché il comando del Leghorn Terminal di Camp Darby comunica alla Capitaneria nel marzo 1991 l'arrivo a Livorno di tre navi militarizzate Usa cariche di armi provenienti dalla prima guerra del Golfo, mentre dieci anni dopo scopriamo che le navi erano in realtà sei? A chi poteva appartenere l'elicottero che numerosi testimoni (avvisatore marittimo, guardia marina, persone che dal lungomare assistevano all'incendio) vedono volteggiare sul luogo della collisione per poi scomparire nel nulla? Perché tutti i radar dei mezzi di soccorso sembrano impazzire avvicinandosi in rada al punto in cui è avvenuta la collisione? Anche quella sera nel porto di Livorno funzionava un servizio di vigilanza militare 24 ore su 24 (era così da quando era iniziata l'operazione Desert Storm). La rada, più che uno scalo civile, era simile a una darsena militare. Alla sorveglianza delle autorità portuali si sovrapponeva il controllo radar dalla base di Camp Darby, alla quale spettava la vigilanza diretta delle navi militarizzate cariche di materiale bellico di proprietà dell'esercito Usa e sottratte a qualunque forma di controllo e ispezione da parte della Capitaneria. Quella sera, un banco di triglie non sarebbe passato inosservato nelle acque portuali di Livorno. Com'è possibile che proprio quella sera, a quell'ora e in quel preciso punto della rada dove avviene la collisione, tutti i sistemi di sorveglianza civile e militare dislocati nell'Alto Tirreno siano andati in corto circuito? Perché non è mai stata messa a disposizione una registrazione radar dei movimenti delle navi in rada quella sera, al momento della collisione? Perché nessuna immagine satellitare, indispensabile per ricostruire la dinamica dei fatti, è mai stata messa a disposizione degli inquirenti? Che cosa stava accadendo, quella sera in quel punto della rada, che non andava visto né documentato? Circa un'ora dopo la collisione, due ormeggiatori si mettono all'inseguimento del Moby Prince in fiamme: sono soli, a bordo di una barchetta di sette metri senza radar né impianto antincendio. Raggiungono la nave e recuperano in mare il giovane mozzo del Moby Prince, terrorizzato, unico sopravvissuto (sparirà ben presto dal processo). A questo punto i due ormeggiatori, sul canale radio di emergenza, urlano ai mezzi della Capitaneria un appello disperato, ripetuto più volte in un silenzio irreale, che viene registrato ad insaputa di tutti dalla stazione Ipl Livorno Radio e rappresenta un duro atto d'accusa: «Abbiamo recuperato un naufrago! Dice che ci sono persone a bordo da salvare! Ho una motovedetta accanto a me che indugia! Ci sono passeggeri da salvare... Ma che sta succedendo?» Che sta succedendo in rada? E' questa la domanda. Quella sera, camminando nei pressi dell'Accademia navale di Livorno, due ufficiali di marina osservano qualcosa di anomalo che sta avvenendo in rada: in prossimità della zona dove è ancorata la grande petroliera Agip Abruzzo, strani bagliori squarciano l'oscurità. Sembra un incendio, a loro avviso. Ma la cosa più importante è che, mentre osservano questo fenomeno, vedono il traghetto Moby Prince uscire dalla diga foranea diretto in rada: traghetto e petroliera sono ancora distanti, ma qualcosa di anomalo sta già avvenendo in rada, qualcosa che di lì a poco inghiottirà lo sfortunato traghetto Navarma mentre, dall'alto, un elicottero senza nome segue la scena. La testimonianza dei due ufficiali non viene tenuta in alcun conto. Cinque anni dopo la tragedia, un comandante della Guardia di finanza, fra i primi a uscire in soccorso quella sera, afferma davanti ai magistrati di aver visto in rada alcune imbarcazioni che movimentavano armi, quella sera: operazione assolutamente vietata di notte e in prossimità delle rotte commerciali. La sua non è una testimonianza tardiva: l'ufficiale aveva puntualmente scritto tutto questo in una relazione regolarmente consegnata e protocollata agli atti dell'inchiesta cinque anni prima, 24 ore dopo la tragedia. Ma la sua relazione era inspiegabilmente sparita dal fascicolo. |
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