da tc
krònos: Io esisto, sono, e domino su tutto. Pensa solo che sono io a dire agli uomini quanto devono lavorare ogni giorno.
lògos: Non credo. Credo che siano gli uomini, attraverso di me, ad averti inventato per sapere quanto lavorano. Cosa poi -è curioso- che interessa soprattutto agli uomini che non lavorano.
k.: Non è così, io sono sempre esistito, e esisterò sempre.
l.: Non credo, e non so. Credo che l'idea di una misurazione quantitativa di quello che chiamiamo "tempo" abbia molto a che fare col problema di produrre merci scambiabili, il che pare sempre interessare molto soprattutto a quelli che non le producono, le merci, ma che, possedendole, le scambiano. Pare che con questo sistema si faccia lavorare la gente molto più di quello per cui per cui la si paga (sembra che tramite te si misuri un tempo sufficente per la "riproduzione", e via, il resto si può produrre gratis). C'era un tizio che era entrato in fissa con questa storia. Lo stesso che era convinto che le cose, gli animali o le persone potevano non essere merci - ma le merci dovevano essere cose, animali o persone; che le merci contenevano due valori diversi, e che uno dei due non era misurabile quantitativamente.
k.: La stessa quantità di tempo è sempre uguale alla stessa quantità di tempo.
l.: Certo. Magari ti potrei dire che hai detto una discreta banalità. Ma nelle accademie filosofiche di oggi, visto il livello, forse non ti capirebbe nessuno. Il punto è che anche il tempo non può essere ridotto solo a quantità.
k.: Non è possibile.
l.: Certo, per te è impossibile. Per la quantità c'è solo la quantità, per la merce c'è solo la merce, per il valore di scambio le qualità determinate della merce in cui esso è contenuto non hanno alcun significato. Il che non toglie che esistano, e siano, addirittura, necessarie all'esistenza del valore di scambio. Come il lavoro vivo per quello oggettivato, e così via.
k.: Io non ho bisogno di nulla. Esisto in quanto tale.
l.: La presunzione acceca spesso, e il peggior cieco è quello che non solo crede di vedere, ma ti spiega anche con sussiego che, si sa, le cose sono evidentemente così come lui non le vede. Posso dirti solo che pare che neppure tu esisteresti a prescindere da una società che ti costituisca attraverso di me, per degli scopi sociali. Mentre, non vorrei farti avere una crisi d'identità, ma una società potrebbe esistere senza di te.
k.: Senza il tempo?
l.: Tu non sei "il tempo"! Ridimensionati, caro. Cos'è il "il tempo"? Bella questione, certo! Ma la propaganda della classe dominante valla a fare a qualcun altro - come puoi immaginare sono un esperto in tema. Tu sei una certa idea della temporalità, l'idea che ogni ora sia uguale all'altra, che ogni giornata di lavoro sia uguale all'altra. L'idea su cui si regge una società fondata sulla produzione di merci attraverso merci. Ma pare che neppure tu esisteresti se non potessi manifestarti nella materialità di un altro tempo, fatto di qualità, di determinazioni, di disomogeneità e di rotture. Un tempo vivo, necessario anche alla produzione più alienata, e che tramite te si tramuta in una cosa scambiabile, una merce. Ma pare sia ricomparso, a volte, nella sua forma originaria. Alcuni lo chiamano kàiros, altri JetzZeit, o tempo critico. Altri preferiscono pensare semplicemente alla rivoluzione. Sai quella storia con i soviet - e la classe che ci va giù di brutto. E pare se la prendano per primi con quelli che stanno lì col cronometro a misurarti il ritmo. Insomma, quando si spara sugli orologi. O quando, meglio, si spara, per una società in cui gli orologi non servano a sfruttare gli uomini.
k. (dopo alcuni secondi di dubbio): Parli sempre troppo. E le cose non stanno così, è evidente.
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