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Storia di una Donna Partigiana Comunista..(x tutti i revisionisti prezzolati)
by Resistenza Sempre Saturday, Oct. 21, 2006 at 7:55 PM mail:

La Resistenza Vive nella Resistenza di Oggi

Come si diventa partigiani comunisti. Vita esemplare di Erminia Mattarelli (1)

di Erminia Mattarelli. Testimonianza raccolta da Michela Di Mieri

Dunque, la Resistenza, in particolare quella comunista (vale a dire un buon 70%), sarebbe stata un grande crimine collettivo. Ce lo garantisce Giampaolo Pansa, legittimato dal fatto di essere "uomo di sinistra", o presunto tale. Francamente gli preferivo il defunto Giorgio Pisanò (da cui Pansa attinge a piene mani), che aveva il coraggio di non mistificare le proprie posizioni. Contro gli assalti alla memoria, è bene ricordare che ogni "dopo" ha avuto un "prima". Pubblichiamo quindi, a puntate, ampi stralci di un libriccino stampato due anni fa dal Circolo Arci di Bologna Iqbal Masih e a circolazione purtroppo limitata, intitolato S'atâurn indrì (Si torna indietro). Storia della donna Erminia Mattarelli. E' l'autobiografia orale, raccolta da Michela Di Mieri, di una partigiana comunista morta nel 2001. Un documento straordinario. Sul modo di acquistare il volumetto completo si guardi qui. Seguirà, con l'ultima puntata, la prefazione che scrissi per l'occasione. Confido comunque che fin dalla prima puntata sia possibile cogliere il discrimine etico che separa una qualunque Erminia Mattarelli da un Pansa qualunque.] (V.E.)

Due parole di presentazione.

Ho conosciuto l’Ermina nel 1996, quando ancora abitava nella sua casa del “treno”. All’epoca, lei aveva 88 anni portati splendidamente; soprattutto la sua mente conservava una grande lucidità ed una capacità di analisi anche del presente, non comuni.
La prima cosa che l’Ermina mi disse, fu che la sua università era stata la risaia, e lì lei aveva imparato tutto quello le serviva per vivere in piena dignità. La seconda, fu che senza le donne la Resistenza ce la potevamo scordare. La terza, che se avesse potuto tornare indietro, avrebbe sparato di nuovo, ma anche alle spalle, evidentemente delusa per la piega che avevano preso gli eventi. Per quello che l’ho conosciuta, posso dire che in queste brevi affermazioni è racchiusa l’essenza di questa donna, che con la sua vita abbraccia tutto il Novecento. La sua storia è, per tanti aspetti, emblematica della realtà dell’area padana di quel periodo, e, nelle sue parole, si possono ritrovare gli ideali, le paure, le reazioni, le vite di molti della sua generazione.
Questo lavoro non ha la pretesa né vuole essere un documento storiografico. E’ il frutto di lunghe interviste, alle quali ho tentato di mantenermi il più fedele possibile nell’opera di trascrizione in un italiano più comprensibile e scorrevole, ed alle quali ho aggiunto qualche nota di riferimento storico sugli argomenti da lei raccontati.
Da parecchi anni assistiamo ad un’opera di revisionismo e mistificazione della Resistenza ad uso strumentale e politico, che negli ultimi tempi sta assumendo aspetti sempre più aggressivi e preoccupanti. Ho inteso questo scritto come atto di opposizione a questo fenomeno , fissando per sempre una testimonianza diretta di quegli anni a onor del vero, oltre che come un tributo alla memoria dell’Ermina.
Ora lei non c’è più. E’ morta venerdì 19 ottobre 2001 all’Istituto Giovanni XXIII°, un istituto per anziani del Comune di Bologna, dove era ricoverata da un paio d’anni, da quando , cioè, le sue gambe hanno definitivamente smesso di sorreggerla. Per una donna come lei, l’immobilità era peggio di qualsiasi nemico; lei che, fino all’ultimo, ha dato tutto, nei modi e con gli strumenti che la contingenza storica le ha permesso, per realizzare il sogno proibito di un mondo migliore, di una società giusta fondata su di una pace equa, sull’uguaglianza e sulla solidarietà tra gli esseri umani. Tanti sono gli spunti su cui riflettere leggendo queste pagine, e il loro più intimo significato sta proprio qui: non lasciare che tutto sia stato invano, non dimenticare, per imparare dal passato e continuare la sua lotta, che, a ben vedere, è anche la nostra.


Bologna, gennaio 2003 Michela Di Mieri

Mi chiamo Ermina Mattarelli, sono nata a Selva Malvezzi, una borgata nel comune di Molinella (Bo), il 10 giugno 1908.
I miei genitori, Virginia Cavazza e Augusto Mattarelli, erano due contadini e vivevano in una famiglia molto numerosa. La terra che lavoravano e la casa dove vivevano facevano parte dell’enorme proprietà della Chiesa, infatti un prete, il parroco di Molinella, aveva il compito di amministrare quei beni. Proprio grazie a quest’esperienza, mio padre e mia madre si formarono una coscienza politica di un certo orientamento. Lavoravano, infatti, come muli dall’alba al tramonto, ma erano sempre in una miseria nera. Quando il prete veniva a fare il bilancio, il giorno di S. Martino, come voleva l’usanza chiedeva del capo famiglia, cioè l’uomo più anziano. Essendo questo un contadino analfabeta, non poteva contestare i continui debiti. A quei tempi era in uso l’istituto della decima, per cui di tutto ciò che si ricavava dal raccolto o dalla macellazione delle bestie, la primizia era dovuta alla Chiesa.
Zio Onorato, fratello di mio padre, si stancò di questa storia; andò a scuola per imparare a leggere e scrivere e per un anno tenne segnato tutto ciò che si consegnava al prete giorno per giorno: uova, polli, latte, frutta, verdura…
Puntuale, il giorno di S. Martino, il prete arrivò per fare i conti; voleva parlare solo col capofamiglia, ma zio Onorato, che era un pezzo d’uomo alto e grosso che lavorava per due, lo aspettava sull’uscio. Disse al prete che i conti poteva farli con lui; ai debiti che presentò il prete, lo zio rispose con i suoi conti: finì che il prete, con stizza infinita, dovette LUI pagare i suoi debiti allo zio!
Fu la fine per la mia famiglia… furono sfrattati immediatamente e buttati nel giro di 24 ore in mezzo alla strada. Era evidente che dei contadini così nessuno li avrebbe mai presi a lavorare: erano un pericolo per i padroni, perché all’epoca, loro erano tra i primi a ribellarsi e a protestare, quindi pochi e deboli. Così ognuno prese la sua strada, tentando di vincere l’enorme miseria.
Zio Onorato andò a lavorare in Germania, altri due zii andarono a fare i garzoni fuori dal paese, i miei genitori arrivarono a Selva Malvezzi. Mia madre, incinta di me di sette mesi, aveva già due figli: Mario, del 1904 e Argentina, del 1906, miei fratelli. I miei furono fortunati perché accolti nel vecchio Castello di Selva Malvezzi da alcuni compagni del luogo, guidati da Giuseppe Massarenti .
Lì io nacqui, nel 1908.
I miei fratelli nacquero nella casa del prete, quindi battezzati per forza (a mio fratello fecero fare anche la cresima); invece lì i miei erano liberi di fare la loro scelta e non mi battezzarono, perché mio padre diceva che dovevo essere io, una volta adulta, a decidere… ed io ho confermato ciò che mi ha dato lui!
A Selva Malvezzi i miei volevano aprire un negozietto di generi alimentari, però la borgata era troppo piccola, due case in croce, così ci trasferimmo a Molinella, l’abitato più grosso della zona: tante case, tanti contadini e operai, c’era un’officina, la tabaccheria, l’osteria… lì, con l’aiuto di Massarenti e dei compagni, i miei aprirono il negozio.
Col passare del tempo si guadagnarono la stima di tutti i compagni e del paese, dunque per noi le cose non andavano male: mia madre aveva comprato una cavalla, Dora, e faceva la birocciaia, mio padre era il macellaio di maiali per tutto il paese. Io ed i miei fratelli andavamo a scuola, ma intanto lavoravamo: io allevavo conigli, Argentina polli, Mario maialini; così imparavamo a responsabilizzarci e a saper guadagnarci da vivere da subito. In quegli anni tutti eravamo impegnati a costruire la cooperativa agricola ideata da Massarenti…..facemmo tante lotte!
Ricordo che fu in quel periodo che assistetti alla prima delle tante battaglie dei contadini, ed anche alla prima delle tragedie che negli anni a seguire avrei vissuto. Era il 1914 e accaddero quelli che vennero poi chiamati ”i fatti di Guarda”, una borgata vicino a Molinella.
Fu una lotta tremenda dei contadini e dei mezzadri, stanchi di pagare sempre debiti alla fine dell’anno ai loro padroni (come successe alla mia famiglia), debiti tanto alti che rimanevano da pagare persino l’anno dopo aggiunti i nuovi!
Io vidi tutto: avevo sei anni e non avrei dovuto essere lì, ma ero ribelle, in casa sentivo sempre i discorsi dei grandi, e già allora io sapevo che quella lotta era la MIA lotta, era talmente viva dentro di me che era la mia vita, non più di bambina, ma di adulta che sentiva già una grande rabbia. Così quel giorno sentii in casa che tutti gli uomini stavano andando a Guarda; seguii di nascosto mio padre, e giunti là davanti mi nascosi dentro il fosso … quello che vidi non potrò mai dimenticarlo tanto mi sconvolse ma anche mi fece crescere. Ricordo gli scontri a fuoco tremendi; la peggio toccò ai krumiri: cinque morti e sette feriti. Tra i “nostri” venne colpito Pondrelli, un mezzadro sfrattato perché non aveva pagato i debiti. Arrivarono i camion dei carabinieri (vedere dei camion a quei tempi era una cosa che lasciava sbalorditi): ci fu il fuggi fuggi e ancora spari e sangue. Rimasi scossa, ma non impaurita… seguii mio padre e Benetti, un mezzadro solidale con Pondrelli che venne immediatamente ricercato. Mio padre lo portò a nascondersi nel fienile di casa nostra in mezzo alle fascine di paglia e alla legna. Bene, si vede una spiata, non so com’è, vennero i carabinieri a perquisire da noi, il giorno stesso. Li vedevo punzecchiare la paglia con le spade, per fortuna però una fascina protesse Benetti che così si salvò, e i carabinieri se ne andarono a mani vuote.
Io conoscevo molto bene Benetti, perché tutte le sere andavamo nella stalla della sua famiglia a filare con la rocca e a fare la veglia, ma io mi annoiavo, allora mi mettevo a leggere delle storie sui libri e agli altri faceva piacere, visto che tutti gli adulti non sapevano leggere.
La repressione fu durissima: tanti i perseguitati, ma dopo sembrò tornare un po’ di calma. Dicevo, sembrò perché venne una tragedia ancora più grande: scoppiò la guerra, la Grande Guerra del ‘15-‘18.
Ricordo che, quando gli uomini di Molinella dovettero partire, le donne e noi bambini andammo in stazione dove c’era la tradotta che portava i soldati al fronte, e ci sdraiammo tutti sulle rotaie per impedire al treno di partire. Naturalmente intervennero i carabinieri caricandoci a cavallo, ma il più delle volte i cavalli, davanti a noi si arrestavano, nitrivano forte e si alzavano sulle zampe posteriori disarcionando il carabiniere….l’animale si fermava, mentre l’uomo ci picchiava con i manganelli!
Della nostra famiglia partirono in cinque: mio padre ed i miei zii. Noi rimanemmo soli, e avevamo tanta di quella miseria! Si viveva come animali ed era già fortunato chi aveva una camera dove stare con tutta la famiglia. C’era, però, tanta solidarietà tra tutti, che bene o male si riusciva a tirare avanti.
Io ed i miei fratelli sapevamo leggere e scrivere, così partivamo da casa con una penna legata ad un bastoncino, una boccetta d’inchiostro e dei fogli di quaderno e andavamo al Castello di Malvezzi (dove sono nata io) dove c’era un centro di smistamento reclute molto grande; facevamo da scrivani per i soldati analfabeti, che erano i più, scrivendo lettere e cartoline per le loro famiglie. Era una cosa bella, perché questi ragazzi si aprivano con noi; si sentiva l’amore e la nostalgia per la loro casa lontana, e, io bambina, anche lì ero costretta a maturarmi e diventare adulta in questo altrui dolore. Così, sul nostro tavolino compariva spesso un qualche centesimo, un soldino, una fetta di polenta o una galletta del rancio…per noi era già una paga più che sufficiente!
Per mia madre, che era analfabeta, era più difficile, ma fu di un’energia e di una forza tale da essere esempio per noi per sempre: si mise a fare la lavandaia e così racimolava quel tanto che poteva bastare a non chiedere l’elemosina… che poi non si sarebbe saputo a chi, tanto eravamo tutti poveri.
Ritornarono da questa maledetta guerra in due: mio padre e uno zio. Partirono con la promessa che se fossero stati bravi soldati, avrebbero ricevuto, finita la guerra, un pezzettino di terra in proprietà: la certezza contro la miseria. Ritornarono feriti, delusi nel corpo e nello spirito, e neppure l’ombra del pezzettino di terra, né della pensione d’invalidità di guerra per mio padre ferito al fronte.Come premio, però, gli venne consegnato un fazzoletto quadrato con sopra stampata l’Italia, questo stivale, con tutti i punti delle battaglie, delle vittorie e delle conquiste messi bene in evidenza, e un taglio di vestito militare, che noi usammo per rattoppare le lenzuola.
La vita, dunque, riprese. Fummo educati al risparmio, all’orgoglio di poter dare qualcosa; per anni furono ospitati in casa nostra i bimbi che avevano perso il padre in guerra, e diventarono dei fratelli veri e propri per noi.
Erano gli anni delle grandi lotte sindacali e politiche del ’19 e del ’20… lotte per la terra, per l’affrancamento dalla schiavitù dai grandi agrari. Ci fu l’occupazione delle terre incolte e polverose, di proprietà dei latifondisti che appositamente non le coltivavano, creando ancora più povertà; noi cominciammo a lavorarle, a dissodarle, a bonificarle ed a renderle produttive. Nacque così la prima Cooperativa agricola socialista di Molinella: una coop. di consumo di tutti i contadini che creava una sicurezza contro la miseria, perché i prodotti della terra non andavano più ad arricchire i padroni, Chiesa o conti che fossero, ma venivano divisi tra i lavoratori. Così, dal paese degli accattoni, come eravamo chiamati, divenimmo quello più ricco! Questa cooperativa nacque grazie all’aiuto e all’esperienza di Giuseppe Massarenti… lui era un “dottore”, ma di una semplicità tale da non mettere in imbarazzo nessuno! Quando mio padre andava a lavorare, io, spesso, andavo con lui, così approfittavo per parlare con Massarenti, un uomo meraviglioso! Fu il nostro maestro, guidava gli operai nella lotta, li educava all’onestà ed alla solidarietà… è stata una guida importante ed ha pagato con la vita il suo ideale.
Venne perseguitato e confinato durante il fascismo: lo fecero passare per pazzo e lo rinchiusero in una clinica psichiatrica a Roma, su ordine scritto di Mussolini. Per i fascisti era essenziale che quella mente non pensasse né comunicasse più.

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