i preparativi per la guerra all'iran proseguono
con il pieno coinvolgimento dei Kurdi
Come Proggrammato gia' nel 1991 : la politica del dividi et Impera si aplica su scala planetaria : dal cossovo all'Afganistan (che e' ritornato ad essere un paese spezzatino) passando per l'irak (nord, centro e sud) cosi da preparare uno stato fantoccio Kurdo e filo USA CHE COMPRENDA iul nord dell'Irak e il nord dell'Iran + gran parte dell'iran Occidentale Il sud Dell'Iran farà stato aperte con il sud IRAK (stato degli sciiti)e cosi via.. nel frattempo pero' si preparano le basi per l'aggressione
Iraq - Sulemanya - 28.11.2006 Verso la frontiera iraniana Alle porte di Sulemanya, in Kurdistan, gli Usa costruiscono basi. Di fronte all'Iran dal nostro inviato Vauro E’ uno degli ultimi agglomerati di casupole ad un piano a ridosso della periferia di Suleimanya. E’ sorto sotto la strada che porta fuori della città. Dall’alto i teli di plastica che fungono da tetto alle baracche brillano alla luce del mattino. Verso l'Iran. Bambini giocano in uno slargo fangoso tra i mucchi di immondizia. Uno si diverte a tirare sassi con la fionda ad una mucca nera che bruca sterpi secchi accanto ad un rotolo arrugginito di filo spinato, il vento lo ha addobbato facendovi impigliare sacchetti di plastica e stracci. Da lì la strada prosegue in piano per scendere in una gola bagnata da torrenti e ruscelli e poi risalire verso le montagne di roccia che chiudono l’orizzonte. Si entra in un paesaggio bellissimo fatto di rocce venate di azzurro, mosso da clivi e promontori illuminati dal verde tenero dell’erba e ombreggiati da macchie di alberi. Rari villaggi rurali, piccoli gruppi di case di fango secco e pietre, quasi sempre vuote, abbandonate perché gli abitanti sono andati ad infoltire l’anello di baracche che circonda Suleimanya. Bisogna lasciare la striscia di asfalto e prendere un accidentato sentiero sterrato e pietroso per coprire i circa quindici chilometri che ci separano dalla linea di confine con l’Iran. Un casotto, due tende da campo, tre o quattro soldati armati che accennano un saluto senza fermarci e tornano alla loro noia. Poco oltre alcune case di fango, un villaggio di frontiera. Di villaggi abitati ne sono rimasti solo quattro in questa area, una decina di case ciascuno. Di improvviso un rumore forte di motori sovrasta quello del vento: ruspe, camion, schiacciasassi al lavoro. E’ in costruzione un’ampia strada che taglia la valle e va dritta verso la frontiera. “La stanno facendo costruire gli americani per aiutare noi dei villaggi” ci dice, con un sorriso sdentato, una donna anziana che è sopraggiunta tenendo per mano una bambina. Una superstrada per quattro villaggi di case di fango dove non arriva nemmeno l’elettricità? Mettere radici. “Questa strada percorrerà tutta la linea di confine con l’Iran – ci informa il capocantiere curdo – servirà a collegare le cinquantacinque basi militari americane che verranno costruite lungo la frontiera. Una, poco distante da qui, è già stata ultimata alla fine dell’estate scorsa. I lavori sono finanziati da società americane ed eseguiti da ditte curde”. Il ragazzo che, accucciato accanto ad un mucchietto di brace alimentata da un grosso ciocco di legno secco, sta preparando il tè per gli operai, ci indica dei cumuli di pietre tra la rada boscaglia circostante “ Segnalano il pericolo delle mine, qui, tutto intorno, il terreno ne è pieno. E’ stato ripulito solo il percorso della strada in costruzione. Meglio non fare nemmeno un passo oltre il ciglio”. Più avanti, in basso, seminascosta tra gli alberi, si intravede di lontano la nuova base militare Usa. E’ una specie di castelletto circondato da mura e da quattro torri agli angoli. A meno di un chilometro in linea d’aria, su un promontorio, si scorgono le strutture di un avamposto iraniano. Già si fronteggiano. Non si può andare oltre, avvicinarsi di più alla base non è consentito. Dalla boscaglia scende dritto verso la sterrata il greto secco di un torrente pluviale: ciottoli, rami, terriccio portati dall’acqua. Ha lo stesso colore grigiastro della pietra alla quale è rimasta accostata, la base sprofondata nella terra smossa, l’acqua ha trascinato insieme ai detriti una mina antiuomo. Si è fermata a meno di tre metri dalla strada. Quasi invisibile, la scorgiamo per puro caso. E’ una mina Valmara, di produzione italiana, un cilindro di plastica delle dimensioni di un barattolo di conserva. Un ordigno micidiale, la plastica non è rilevabile da metal detector ed è quindi difficile individuarla. Spesso quattro o cinque di questi cilindretti sono collegati tra loro da un sottile cavo di acciaio, così se se ne calpesta uno gli altri esplodono quasi simultaneamente, scagliando le loro schegge per centinaia di metri tutto attorno. Tre ragazzini, due cavalcano un mulo, il più piccolo un asinello “Andiamo a raccogliere legna secca per il fuoco” “E le mine? – gli diciamo – ce n’è una proprio lì, non avete paura delle mine?” “Nostro padre ci ha insegnato i luoghi sicuri e quelli no, dove andiamo noi non c’è rischio” “Ma si spostano trascinate dall’acqua piovana” insistiamo “Non possono arrivare oltre quel torrente là sotto, lì si fermano e noi andiamo sull’altro lato dove non ce ne sono”. Pare proprio che i ragazzini vogliano tranquillizzare noi. Ci salutano con un sorriso e scendono giù per il ciglio, verso il torrente che scorre in basso. Quest’area non è densamente abitata eppure, negli ultimi anni, le mine qui hanno ucciso più di quaranta persone. Benjoin, a valle, è il centro abitato più grande: case, negozi, la moschea. Qui le mine sono segnalate. Triangoli di ferro montati su un’asta piantata nel terreno. Sui triangoli è disegnato un teschio, mezzo cancellato dalla ruggine. Ce n’è una foresta che circonda la cittadina e vi si infiltra anche dentro, là dove c’è qualche spazio sterrato tra le case. Un vecchio assedio che continua dal tempo della guerra Iraq-Iran. Quello nuovo è già in costruzione.
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