Le strane storie del reparto speciale dei carabinieri che ha dato il via
alla strana inchiesta sui «sovversivi» meridionalidi
Un’inchiesta nata male, quella sui «sovversivi» no global. Caduta, per uno scherzo del destino, come il cacio sui maccheroni fumanti della maggioranza berlusconiana. Sommata infatti alla condanna di Andreotti, ha permesso di proclamare ai Giovanardi di turno (non contraddetti dai Fassino di turno): vedete? arresti sconclusionati a sinistra, sentenze inaccettabili a destra, la giustizia è impazzita, bisogna intervenire.Il metodo suggerito per l’intervento è il solito: tagliare le unghie alla magistratura, che peraltro ha già le dita abbastanza scoperte. Nessuno, né a destra né a sinistra, si è azzardato a spiegare che le due decisioni giudiziarie sono invece assolutamente imparagonabili. La sentenza di Perugia è stata emessa da una Corte d’assise d’appello, composta da sei cittadini estratti a sorte e solo due giudici: non c’è barba di separazione delle carriere, Cirami, Pittelli e via riformando, che potrebbe influire sulle decisioni prese a maggioranza dai giurati popolari. La retata di «sovversivi meridionali» è invece l’atto finale di un’operazione investigativa realizzata dal Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri, oggi diretto da Giampaolo Ganzer.Ci sono, è vero, alcuni magistrati coinvolti nell’operazione: il pubblico ministero di Cosenza Domenico Fiordalisi e il giudice per le indagini preliminari (gip), sempre di Cosenza, Nadia Plastina. Ma questi sono stati coinvolti dagli ufficiali del Ros dopo una sorta di pellegrinaggio giudiziario, un viaggio in Italia alla ricerca – non facile – di qualche magistrato che prendesse per buone le conclusioni del Ros.«Non esiste alcun dossier vagante per l’Italia», ha dichiarato Ganzer il 19 novembre, cioè quattro giorni dopo gli arresti. «Preciso che le sezioni anticrimine di Genova e Catanzaro hanno condotto distinte indagini delegate dalle Procure di Genova e Cosenza, cui hanno riferito gli esiti degli accertamenti esperiti nel rigoroso rispetto dei mandati ricevuti e delle competenze attribuite alla polizia giudiziaria. Pertanto, nessun’altra autorità giudiziaria avrebbe potuto essere né è stata in alcun modo informata degli accertamenti svolti».Eppure la vicenda può essere raccontata in modo diverso. «Da noi gli ufficiali del Raggruppamento operativo dei carabinieri si sono presentati un anno e mezzo fa», dichiara a Diario un magistrato della Procura di Napoli, «ma con un rapporto inadeguato, che conteneva elementi investigativi fragili. Tanto che il gip di Napoli non ha concesso le intercettazioni telefoniche e ambientali che il Ros chiedeva». Sono quelle che, poi concesse invece dal gip di Cosenza, infiorettano il rapportone che è alla base delle richieste d’arresto dei membri della «Rete meridionale del Sud ribelle». Una rete che peraltro non ha mai suscitato preoccupazioni neanche negli uffici della Digos di Napoli, la quale si è limitata a mandare a Cosenza carte e filmati che già aveva nei cassetti, mentre il grosso dell’istruttoria è stata appunto condotta dal Ros dei carabinieri.Gli ufficiali del Ros ci avevano provato anche con i magistrati di Genova, impegnati nelle indagini sul G8: avevano prodotto un «affresco generale» sui movimenti e le persone. «Ma la nostra Procura ha preferito attenersi ai fatti concreti e materiali», dicono da quella sede. E spiegano: «Ci siamo occupati di singoli episodi di devastazione e saccheggio, lasciando perdere ipotesi associative di più difficile costruzione». Insomma, l’esatto contrario di quanto fatto a Cosenza. Lì sono stati scongelati vecchi reati d’opinione del codice fascista («cospirazione politica al fine di turbare l’esercizio delle funzioni di governo, propaganda sovversiva, sovvertimento violento dell’ordinamento economico costituito dello Stato, istigazione a disobbedire alle leggi dell’ordine pubblico»), attribuiti a una rete di personaggi tenuti insieme non da precise azioni illegali, ma da una generica aria di famiglia.Anche i magistrati milanesi e torinesi che nella stagione dell’antiterrorismo si erano fatta una fama di duri, davanti alle 359 pagine dell’ordinanza che ha generato 20 arresti e 22 indagati, oggi scuotono la testa: le concatenazioni suggestive sostituiscono i fatti concreti.AMARCORD. Il metodo usato questa volta dal Ros ricorda quello che i cugini del Gico di Firenze (il Gruppo investigativo sulla criminalità organizzata della Guardia di finanza) attuarono nel 1996, quando produssero una mole immensa di materiale investigativo, fatto per lo più di intercettazioni telefoniche, che poi andarono a offrire a due giovani magistrati della Procura di La Spezia. Ne nacque la cosiddetta «Tangentopoli Due», con avvio pirotecnico, arresti clamorosi (il presidente delle Ferrovie Lorenzo Necci, il banchiere Francesco Pacini Battaglia) e rapido declino: dubbio radicamento territoriale, spostamento delle indagini altrove (a Perugia, a Brescia), accuse sgonfiate; e una sola pista perseguita con puntiglio: quella contro Antonio Di Pietro, accusato di aver favorito Pacini Battaglia durante le prime indagini su Tangentopoli. Dopo mesi di attacchi mediatici all’eroe di Mani pulite (che ottengono comunque il risultato di appannarne forse irrimediabilmente l’immagine), la vicenda si esaurisce con il suo pieno proscioglimento.Ancor più simile all’operazione «Sud ribelle» è un’indagine dei Carabinieri partita nel 1985, con sette arresti, sul «Comitato contro la repressione Veneto-Friuli». Stessa area di reati: l’associazione sovversiva. Stesso protagonista: Giampaolo Ganzer. Allora in forza nel Veneto, l’ufficiale imbastisce, a emergenza terrorismo sostanzialmente esaurita, un’inchiesta contro una sessantina di persone accusate di associazione sovversiva con finalità di terrorismo. Il gruppo aveva dato vita a un «Coordinamento nazionale dei comitati contro la repressione» e a un periodico, edito da Giuseppe Maj e intitolato Il Bollettino. Per tutti l’accusa, pesantissima, è di sostenere e fiancheggiare le Brigate rosse-Partito comunista combattente.Nel marzo 1988 solo venti degli iniziali indagati e arrestati sono rinviati a giudizio. La Corte d’assise di Venezia, però, si dichiara incompetente e invia gli atti a Milano, dove inizia il dibattimento. Ma già alla prima udienza è il pubblico ministero, Armando Spataro (pure considerato un duro dell’antiterrorismo), a chiedere l’assoluzione immediata per tutti, ritenendo inconsistenti gli elementi d’accusa. La Corte accoglie e assolve.FUGA DEI CERVELLI. Ora, dopo lo svarione di Cosenza, il Ros di Ganzer finisce sotto accusa. L’ufficiale è arrivato al vertice del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri in un momento difficile, dopo l’uscita del generale Mario Mori, divenuto direttore del Sisde, il servizio segreto civile. Mori nei mesi scorsi ha chiamato al Sisde molti dei migliori investigatori del Ros, che ora soffre una crisi di vocazioni. Il reparto speciale dei carabinieri dovrà rimpiazzare le perdite. E non sarà facile, perché l’esperienza non si improvvisa. Dovrà ricostruire un gruppo d’eccellenza come quello che, attorno a Mori, ha lavorato negli anni Ottanta e Novanta su corruzione e criminalità organizzata: con molti successi e qualche polemica a proposito di episodi non del tutto chiariti (la cattura di Totò Riina, la trattativa con Vito Ciancimino e Cosa nostra dopo le stragi del 1992...). Riuscirà Ganzer nell’operazione rilancio?Sembra essere partito con il piede sbagliato. Uno smacco, per un ufficiale come lui, che ha cominciato la carriera lavorando nel contrasto alla criminalità comune, ha proseguito entrando poi nel nucleo antiterrorismo di Carlo Alberto dalla Chiesa ed è infine divenuto il braccio destro di Mori al Ros. In questa terza fase della sua carriera è l’antimafia l’impegno prevalente. Mette a segno molte «brillanti operazioni», ma resta invischiato anche in alcune contorte e imbarazzanti vicende che sono tuttora oggetto d’indagine presso la Procura di Milano, affidate ai sostituti procuratori Daniela Borgonovo e Luisa Zanetti. Imbarazzanti perché hanno per protagonisti ufficiali dei carabinieri, primo fra tutti proprio Ganzer.Sono storie di droga, di cocaina sequestrata ai trafficanti, ma poi usata dai carabinieri – secondo l’ipotesi d’accusa – per moltiplicare le «brillanti operazioni». Lo schema che si ripeteva era questo: veniva segnalato l’arrivo in Italia di un carico di cocaina, di solito grazie alla soffiata di un confidente; allora i carabinieri chiedevano al magistrato un provvedimento (legale) di «ritardato sequestro», per poter completare le indagini e arrestare il maggior numero di persone coinvolte nel traffico. A volte, però, la droga scompariva in qualche caserma dei carabinieri e ricompariva in misteriose raffinerie, magari gestite dai carabinieri stessi; oppure veniva rivenduta da agenti sotto copertura a gruppi diversi da quelli inizialmente previsti.Così una partita di 200 chili di polvere bianca, arrivata al porto di Massa, viene sequestrata da Ganzer, ma trattenuta nella caserma del Ros di Roma, sulla Salaria, nella prospettiva di «incastrare» in seguito gli acquirenti, che operavano sulla piazza di Milano. D’improvviso, però, Ganzer comunica al magistrato che c’è un cambiamento di programma: l’operazione di Milano viene sospesa, ma in cambio 50 chili saranno «venduti» a Bari... Il magistrato, a quel punto, si presenta senza preavviso in caserma, si fa aprire la cassaforte dov’è custodita la cocaina e consegna a Ganzer un decreto che impone l’immediata distruzione dello stupefacente.A USO INTERNO. Il Ros, per «statuto», si occupa anche di politica, di «antagonismo», di eversione. E ancora prima di Cosenza alcune delle sue inchieste si occupano di casi intricati, poco chiari. Nel luglio del 1997 viene recapitata a Radio Black Out di Torino una busta anonima che contiene un documento intestato «Ros, sezione anticrimine di Roma», datato 19 dicembre 1994, che riporta la seguente intestazione: «Nota informativa di servizio ad uso interno relativa a una possibile attività investigativa da esperire sul conto dell’eversione anarchica». Il documento è una puntigliosa storia dell’eversione di questa matrice dagli anni Settanta ai primi anni Novanta, ed è incentrato sulla figura di Alfredo Maria Bonanno, notissimo (a chi segue queste cose) ideologo degli anarchici più duri, leader di Azione rivoluzionaria ed editore di pubblicazioni di quell’area. Nel rapporto si parla di rapine e altri reati riconducibili a Bonanno e altri, ma l’azione investigativa finora non ha dato risultati abbastanza solidi.La nota spiega perciò che bisogna indurre Mojidhe Namsetchi, fidanzata di uno del gruppo, a collaborare: «In particolare si delinea la probabilità di agevolmente operare pressione sulla Namsetchi, riconosciuta elemento vulnerabile e psichicamente duttile, affinché la predetta deponga su fatti di natura criminale commessi dal Tesseri e da altri anarchici, fra cui il Bonanno. Se la testimonianza a carico non dovesse assumere sufficiente carattere probatorio, si può ipotizzare una chiamata di correità, secondo un metodo già collaudato in diversi procedimenti da altre autorità giudiziarie. Si permette di suggerire l’ambientazione di attività criminali come rapine nella zona di Trento...». Questo permetterebbe al tribunale giudicante, continua il documento, «di ipotizzare il reato di banda armata o anche solo di associazione sovversiva per tutti gli anarchici».Il documento ricevuto viene immeditamente esibito dai legali degli anarchici al Tribunale di Roma, dove è in corso il processo a quegli stessi anarchici, istruito dal pubblico ministero Antonio Marini. In primo grado il processo si conclude, nel maggio del 2000, con la conferma di alcuni reati comuni e l’assoluzione per tutti dai reati associativi, ed è attesa a breve la sentenza d’appello.E il documento? Il Ros ne smentisce la paternità e così si apre un’inchiesta contro il gruppo di Radio Black Out, accusato di aver prodotto un falso: nel febbraio scorso vengono tutti assolti, ma la sentenza sostiene che il documento è contraffatto, dai timbri alla firma del tenente colonnello Rosario Marimpietri. Chi è stato delegato alle indagini? Incredibilmente, il Ros medesimo (la documentazione sulla vicenda si trova sul sito del centro sociale anarchico El Paso di Torino, all’indirizzo http://www.ecn.org/elpaso/distro/rosnudo.htm). Un caso clamoroso (che però, a dire il vero, ha fatto clamore solo nella ristretta cerchia degli anarchici), ma non l’unico. Diverse iniziative «politiche» di questo reparto d’élite dei carabinieri hanno suscitato polemiche, per esempio l’arresto, nel maggio del 2001, di otto militanti di Iniziativa comunista, nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio di Massimo D’Antona, rivendicato dalla Brigate rosse. Un gruppo indubbiamente «vetero», di ispirazione marxista-leninista, ma tutt’altro che clandestino. Anche in questo caso l’accusa che regge tutto è «associazione sovversiva», con riferimenti vaghi a contatti con ex brigatisti riparati all’estero.«Associazione sovversiva»: un reato che proviene dal codice Rocco dell’era fascista, che tutte le principali forze politiche dicono di voler cancellare, ma che sul Ros esercita ultimamente un fascino irresistibile, come dimostra anche l’inchiesta di Cosenza. La quale, senza le altisonanti imputazioni rispolverate per l’occasione, finirebbe subito altrove. O meglio in quasi nulla, visto che al dunque tratta per lo più argomenti già oggetto di indagini da parte delle Procure (davvero) interessate. I presunti reati associativi si compiono a Cosenza, mentre i reati comuni contestati si commettono per lo più a Napoli (contestazione della conferenza Ocse sull’E-government del 17 marzo 2001) e Genova (contestazione al G8 il 20 e 21 luglio 2001). Per quanto riguarda Genova, le 359 pagine della richiesta di custodia cautelare firmata il 4 novembre scorso dal gip Nadia Plastina, non aggiungono nulla a quello che la locale Procura ha già ricostruito. Per i pm genovesi Anna Canepa e Andrea Canciani, la tesi che non solo i black bloc abbiano partecipato agli scontri è stato un punto di partenza e non di arrivo, peraltro evidente a chiunque fosse lì nei giorni del G8 o abbia visto un po’ di filmati. Resta da vedere, però, quali scontri furono realmente «preordinati» dai manifestanti che vi presero parte.Il 20 luglio, alcuni degli arrestati di Cosenza stavano nel corteo dei Disobbedienti, che avevano abbondantemente annunciato il loro proposito di sfondare la zona rossa con scudi di plexiglas e protezioni varie, ma furono pesantemente caricati dai carabinieri in via Tolemaide, cioè un punto dove il corteo era autorizzato dalla Questura. Da lì montò una vera guerriglia urbana, che portò al famoso assalto al furgone dei carabinieri che finì bruciato, agli scontri di piazza Alimonda e alla morte di Carlo Giuliani. I Disobbedienti non hanno mai negato di aver reagito con violenza alla carica, e il loro leader Luca Casarini lo riafferma oggi: «Dopo la carica dei carabinieri abbiamo percepito che eravamo in pericolo di morte, ma non ci è stato permesso di ritirarci verso lo stadio Carlini», spiega. «In quel momento, i blindati venivano usati come proiettili in mezzo alla folla, io stesso ho raccolto da terra una ragazza che era stata investita ed era ferita al collo. Il nostro obiettivo era fermare i blindati per difenderci». Casarini chiede la costituzione di un gruppo di «osservazione democratica» formato da parlamentari che vigilino sull’attività dei servizi segreti ma anche dei gruppi investigativi speciali come i Ros, «sulla cui attività non si sa nulla».Il punto è che in realtà gran parte del «teorema Ros» rilanciato dalla Procura di Cosenza si basa su attività «antagoniste» realizzate alla luce del sole, e un vero piano organizzato per provocare incidenti non emerge da nessuna parte. L’ordinanza di custodia cautelare dedica parecchie pagine alle occupazioni (pacifiche) di alcune agenzie di lavoro interinale di Cosenza e Taranto organizzate dalla «Rete meridionale del Sud ribelle» il 2 luglio 2001, che erano state accompagnate addirittura da una conferenza stampa di presentazione. Così come era stato pubblicato in rete il manuale di tutela legale in vista di Napoli (e c’è ancora: http://www.noglobal.org/tutelalegale.htm), addotto come una delle prove principali contro la Rete, dove la cosa più sovversiva è la frase «Solo in gruppo è possibile liberare qualcuno dalle grinfie dei poliziotti», e piuttosto invita a evitare «azioni individuali» che «non portano a niente».MA QUALE EVERSIONE! Anche il documento che la Procura di Cosenza ritiene «di fondamentale importanza ai fini investigativi» viene pubblicato poco prima del G8 sul sito della Rete, con tanto di indicazione dell’origine: «Assemblee del Sud ribelle, Cosenza, centro sociale Granma, 19-20 maggio 2001». Il cosentino Francesco Cirillo, 52 anni, già condannato per associazione sovversiva nei primi anni Ottanta e oggi vicino all’area dell’autonomia, lo firma senza problemi con nome e cognome.Ecco la parte che il gip Plastina sottolinea: «Napoli ha dato quindi una sterzata, gli incidenti sono veri, il ministro degli Interni se ne è dovuto assumere la responsabilità. Il Sud era vero, c’erano gli Lsu, i disoccupati, gli immigrati, il governo lo ha intuito e ha caricato... La ricchezza di Napoli va ora riportata a Genova, non bisogna arretrare di un millimetro. Come realtà del Sud questo dobbiamo portare: soggetti reali e, se è il caso, scontri reali. Questa è la differenza fra noi e le componenti moderate, che a Napoli col loro atteggiamento hanno indirettamente consentito la spaccatura del corteo... Ok, la violenza della polizia è stata altissima, gli agenti erano strafatti di coca, ma è comunque mancato un servizio d’ordine... La questione “scontro o non scontro” è un falso problema, in quanto non lo decidiamo noi, vedi gli immigrati caricati ieri a Roma. La questione della violenza la impongono “loro”, a noi quindi non interessa entrare nei discorsi su violenza e non violenza. Non perdiamo tempo con la vetrina rotta!».Come si vede, Cirillo ammette l’uso della violenza, «se è il caso», sostanzialmente in risposta alle cariche. Commenta in proposito il gip: «L’argomento della violenza in risposta a quella generata dai poteri istituzionali è argomento propagandistico di pseudo copertura ad una scelta che affonda le sue radici in una preesistente, distorta visione ideologica» (Per inciso, a Genova e a Napoli sono ben avviate inchieste che potrebbero far apparire l’argomento della violenza generata dai poteri istituzionali tutt’altro che propagandistico).Quindi eccolo qui il «documento nel quale emergono chiari e preordinati i comportamenti violenti che i componenti dell’associazione avevano intenzione di porre in essere a Genova», il documento «fondamentale» per ordinare l’arresto del firmatario e di altre 19 persone. Che sono accusate – testualmente – di «cospirazione politica mediante associazione al fine di: turbare l’esercizio delle funzioni di governo; effettuare propaganda sovversiva; sovvertire violentemente l’ordinamento economico dello Stato».Molti dei «sovversivi» di Napoli, Cosenza e Taranto arrivano alle manifestazioni di Napoli e Genova già sotto inchiesta e quindi supercontrollati: cellulari intercettati, telecamere puntate, eppure non è che salti fuori molto sul loro conto, anzi. Qualcuno si mette un cappuccio, qualcuno lancia «ortaggi« (a Napoli) e grida slogan contro la polizia, qualcuno – come Francesco Caruso, il leader dei Disobbedienti napoletani – sta vicino a furgoni da cui si scaricano bastoni. E se qualcuno degli indagati partecipa ad azioni violente (per esempio il saccheggio del supermercato «Di per Di» a Genova), nessuno le organizza o le guida. Anzi, molte testimonianze carpite in diretta dalle orecchie del Ros e della Digos indicano un atteggiamento tutt’altro che comprensivo verso i black bloc e la loro azione distruttiva: durante gli scontri di Genova la redazione di Radio Gap (sigla che il gip Plastina collega addirittura a Giangiacomo Feltrinelli) rischia l’invasione da parte delle Tute nere che «vengono a rompere il cazzo qua», come dice uno dei redattori intercettati; mentre Anna Curcio, un’altra redattrice, arrestata nel blitz cosentino, lamenta che «un anarchico ha spaccato un palo in testa» a un amico in manifestazione. E proprio Francesco Caruso, in via Tolemaide, si sgola al megafono per far arretrare il corteo dei Disobbedienti dopo le prime cariche, come registrano diversi filmati realizzati sul G8.RICORSI STORICI. Sotto l’ombrello onnicomprensivo dei reati del codice Rocco rievocati dalla Procura di Cosenza, alla fine solo tre persone sono accusate di un reato «concreto», cioè porto di oggetti atti a offendere (tra cui Caruso, per la vicinanza al famoso furgone), mentre in sette sono accusati di resistenza a pubblico ufficiale. Materia eventualmente di competenza delle Procure di Napoli e Genova. Tra l’altro, spiega l’ordinanza, l’inchiesta parte da un volantino dei Nipr, che rivendicava l’attentato all’Istituto per gli Affari internazionali di Roma del 10 aprile 2000, recapitato allo stabilimento Zanussi di Rende, in provincia di Cosenza. Un luogo che, secondo il gip, «poteva considerarsi non casuale» perché lì si trova «l’Università degli studi Arcavacata», «tenuto conto che proprio il centro universitario era divenuto noto, a partire dagli anni Settanta, per la presenza di diversi esponenti di primo piano dei gruppi più estremisti della sinistra extraparlamentare, coinvolti successivamente, a vario titolo e livello di responsabilità, nelle vicende del terrorismo degli anni di piombo». La citazione sta a pagina 9 dell’ordinanza di custodia cautelare e non ve n’è più traccia nelle successive 350. Chi abbia recapitato quel volantino, insomma – dopo tutta l’indagine, tutte le intercettazioni, tutte le cimici piazzate qua e là – non è mai saltato fuori.Un impianto di questo genere ha suscitato una valanga di critiche, così riassunte dall’avvocato Tommaso Sorrentino, presidente della camera penale di Cosenza e difensore di alcuni imputati, tra cui Anna Curcio: «Mi sembra che nessuno ormai possa nutrire dubbi: questi arresti sono un’autentica operazione di polizia studiata in altri luoghi e, per questo, autenticamente politica. Già l’avere estrapolato dalla “moltitudine” poche persone e averle indicate quali responsabili di fatti individuati come eversivi dell’ordine economico dello Stato la dice lunga. Se poi si considera che l’eversione sarebbe stata cagionata da pubbliche manifestazioni nel corso delle quali i manifestanti hanno resistito alle cariche delle forze dell’ordine», continua l’avvocato Sorrentino, «l’inconsistenza del quadro accusatorio risulta di tutta evidenza. Ovviamente tutto ciò non poteva non essere noto e i magistrati di Cosenza sono sufficientemente esperti per capire che l’impianto avrebbe suscitato le reazioni democratiche del Paese. Tuttavia hanno proceduto ugualmente e, dunque, non è azzardato presumere che a essi sia stata prospettata una realtà esagerandola o volutamente travisandola».Se questa inchiesta è nata con intenti politici, per ora ha ottenuto un risultato opposto alle intenzioni. Dopo gli arresti, il movimento new global ancora fresco del successo di Firenze ha risposto in modo compatto, da Attac ai Disobbedienti, da Lilliput ai Cobas, passando per padre Alex Zanotelli. In più, si è creato uno stravagante fronte comune che va dal ministro Giovanardi al segretario dei Ds Fassino, e in mezzo Francesco Cossiga. Il «giacobino» Paolo Flores d’Arcais ha criticato i giudici, il moderato Sergio Cofferati non ha detto cose tanto diverse dagli autonomi dei centri sociali. Quasi come se fossero tutti una grande, variegata, capillare associazione sovversiva.(Ha collaborato Danilo Chirico)
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