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In contatto con Baghdad (45)
by robdinz Wednesday, Apr. 02, 2003 at 7:09 PM mail: robdinz@hotmail.com

"Baraka"

Che fortuna, ho pensato, sentendo gli squilli liberi da interferenze della linea telefonica dopo solo venti minuti di tentativi a vuoto.
Fortuna. Mi sono vergognato per averla solo pensata questa parola.

Mi risponde una voce sottile e nitida, prima in arabo e subito dopo ascolto un chiaro “hello”. Chiedo del mio contatto che in pochi secondi è all’apparecchio. Ma, era Sajida, chiedo? Si, mi risponde il mio contatto, che è ancora la reporter e film-maker che l’altra sera mi aveva raccontato la storia della stiratrice bambina dell’hotel nel quale vive da qualche settimana. Si, era proprio Sajida che si trova in camera mia per aiutarmi a riparare un paio di pantaloni ai quali è saltata la zip. Per fortuna, mi dice, Sajida ha una specie di miniera in quelle valige che tiene sotto il letto. E alla fine una cerniera a lampo che si può ben adattare ai mie pantaloni l’abbiamo trovata.
Fortuna.

Lo saprai già, mi interrompe mentre le sciorino più rapido che posso il bollettino di guerra che ci è dato di sapere qui in Europa, hanno colpito, sventrato la clinica della maternità. Quella gestita dalla Mezza Luna Rossa. Quella di Said.

Lei era stata parecchie volte in quella clinica, aveva girato ore di materiale filmato tra quelle donne in attesa di partorire, o che avevano appena dato alla luce il loro bambino. E lì aveva conosciuto Said, laureato in medicina al Cairo e specializzato in ginecologia a Londra. Erano i giorni pieni di tensione e paura di prima della guerra. Erano i giorni del terrore dei primi bombardamenti.
E sempre con lei c’era Said. Non giovane, circa sessant’anni ben portati, robusto, capelli grigi e dei gran baffi quasi a coprire le labbra. E’ scapolo Said, una rarità questa in tutto il mondo arabo. Intelligente, brillante, pieno di disincantato senso dell’umorismo. Il suo fluente inglese, ed in qualche modo il suo fascino, avevano convinto la film-maker ad accettare un paio di volte un’invito a cena in casa sua.
Una casa non grande ma bella, in un moderno quartiere residenziale, luminosa, piena di libri. Ed avevano riso insieme quando Said le aveva indicato e tradotto il foglio scritto a mano attaccato sulla porta di casa, quando ormai i bombardamenti si erano incominciati a fare intensi su tutta la città: qui vive (ancora per oggi, bombe permettendo) il dr. Said. Nella vita ci vuole anche una buona dose di “baraka”(fortuna), le disse.
Fortuna.
Ed avevano tirato l’alba mangiando frutta secca, facendo zapping sul satellite e bevendo qualche buon bicchiere di robusto wiskhy irlandese.


Quando stamane, la reporter, ha appreso la notizia che la clinica delle maternità era stata colpita da missili e da bombe, è uscita dall’albergo ed ha inziato a correre a perdifiato per strade e vicoli, schivando le automobili, senza neppure curarsi dei camion. Senza preoccuparsi dei documenti, della mancanza dei visti che la obbligano ad essere sempre molto prudente.
Più si avvicinava più poteva scorgere il fumo che le copriva la deformità di un lato della clinica, colpito e distrutto. In pezzi.
Fuori c’erano delle auto apparentemente intatte nella forma ma divorate dalle fiamme, e con i loro occupanti carbonizzati ancora con le mani sul volante.
Fiamme, fiamme dappertutto, feriti, attrezzature ospedaliere polverizzate, un tappeto di vetri, letti, lettini. Coperte e lenzuola che penzolavano dalle macerie del primo e secondo piano.
E poi quelle urla, quelle scene di disperazione alle quali è impossibile abituarsi. Ma questa volta è peggio, ha pensato. E’ peggio di tutto. Questa è la clinica della maternità, dove ci sono solo donne, bambini, medici ed infermiere.
La prima vittima, davanti ai suoi occhi, era sotto una pesante lastra di cemento, con tutti quegli spuntoni di ferro che uscivano contorti dalla pietra fino a lambire delle caviglie sottili, e dei piedi che ancora indossavano degli zoccoli di gomma bianca,
quelli tipici delle infermiere di tutto il mondo.

Cercava Said. Sapeva, era certa che lui fosse lì. Lo sapeva e lo sentiva.
Decine e poi centinaia di persone scavavano a mani nude per aver ragione di quello sfracello, per tirar fuori chi piangeva e gemeva. Alcuni si inoltravano fin dentro i varchi aperti dalle bombe, si arrampicavano fino ai piani superiori attaccandosi ai mattoni ancora in piedi, ai pezzi di scale che ancora apparivano inutilmente stabili.

Cercava Said. Che certamente era lì, ma non lo trovava.
Si faceva largo tra la frenesia dei soccorritori, guardava dentro le automobili che come ambulanze portavano i feriti in qualche altro ospedale. Cercava di scorgerlo, di intuirlo sotto la coltre bianca di calcinacci che ricopriva come farina i sopravissuti.
I feriti, quasi tutti medici ed infermiere della clinica, venivano fatti sdraiare in terra, all’aperto, gli uni accanto agli altri. Quasi tutte donne, perlopiù colpite da quella miriade di schegge che ti fa sanguinare tutto il corpo. Una, una sola, aveva un pancione enorme, e respirava ansimando.
Per un attimo vedendo quel pancione le passò per la mente ancora quella parola, fortuna. Forse lei ce l’avrebbe fatta, a con lei il suo bambino.
Fortuna.

Si accorse che accanto ad un vecchio frigorifero squartato a terra, che l’esplosione delle bombe aveva scagliato chissà da dove, da quale altezza, c’era un vecchio con i capelli bianchi inginocchiato a terra e le braccia protese in avanti.
Guardò meglio, come a mettere a fuoco quell’immagine che aveva qualcosa di familiare.
Si avvicinò e trovò Said. Said pregava, con un piccolo libro del corano stretto tra le mani. Non sapeva che Said fosse religioso, tanto religioso da portare con sé un corano. Dopo averlo scosso per le spalle Said si è girato verso di lei. Piangeva Said, singhiozzava. Improvvisamnte era diventato vecchio, le labbra e la lingua impastate di calce e polvere e piangeva Said. Che fortuna, ha pensato, è vivo.
Fortuna.

Ma non trovava pace Said. Non poteva trovarla. E continuava a piangere con le lacrime e la saliva che squagliandosi con la polvere dei calcinacci lo rendevano irriconiscibile. E’ rimasta qualche minuto seduta a terra accanto a lui. Muta, cercando di calmare, carezzandone la schiena, quel vecchio corpo squassato e disperato.
Ma quanti saranno i morti della clinica? Ed i feriti? E tutte le vittime di oggi? Dove avranno colpito, dove saranno saranno andati ad esplodere i missili e le bombe che continuano a cadere senza interruzione. Cosa potrà ancora esserci di peggio che delle bombe su una clinica di maternità?

“Baraka”, fortuna che Said è qui. Si calmerà, lo aiuterò, farò qualsiasi cosa per lui. E’ vivo.
Fortuna.

Si calma Said e si alza, come a riprendere coscienza e senso di sé. Cammina accanto a lei guardandosi intorno. Indica con le mani la lunga fila di feriti e ferite sdraiati a terra, ed accelera il passo. E’ un medico Said e sa fare bene il suo mestiere. Ora ha da fare, prendersi cura delle ferite, che fino ad un’ora fa erano sue pazienti, che erano i suoi colleghi e le sue infermiere. Le dice che per fortuna molte partorienti erano state trasferite nei due giorni precedenti in altri piccoli presidi sanitari, per metterle al sicuro, e con loro le donne che avevano appena partorito insieme con i loro bimbini.
Fortuna.
Ma non ce l’avevamo fatta a trasferirle tutte. Eravamo rimasti noi medici e le infermiere per continuare i trasferimenti ed assistere quante ancora erano rimaste qui.
Ora eccoli, ed indica i feriti.
Sai, a volte nella vita serve davvero un pizzico di fortuna, afferma dopo aver toccato con le mani il pancione di quella donna, Sta bene, dice, ed anche il suo bambino.
”Baraka”.

Che la notte sia leggera.
r.

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