da "il manifesto"
Molti gareggeranno nel tessere l'elogio funebre di Gianni Agnelli e nel rendergli onore in morte come gli hanno tributato adulazione in vita. Era un uomo potente, per privilegio di nascita o forse anche per sua virtù, che ha influenzato il destino di tante persone e di un intero paese ed è naturale che sia celebrato. Ma meglio sarebbe se fosse semplicemente rispettato come qualsiasi persona che finisce di vivere. Il rispetto non è ricevere l'estrema unzione da un cardinale in conformità alle gerarchie e non è una riunione familiare che due ore dopo formalizza la successione. Personalmente preferirei di no.
Quest'uomo che tutti conosciamo da decenni, come modello positivo o negativo, ha avuto una vita invidiabile secondo i valori correnti ma una morte tragica. Così almeno ci appare, per la perfetta e quasi beffarda coincidenza tra la fine della persona e il crollo della sua opera, della «creatura produttiva» in cui ha identificato la propria esistenza.
Che fallimento, che fallimento, chissà se nelle ultime ore ha pensato in questi termini e mormorato queste parole come capita facilmente quando si tirano le somme. Probabilmente no, è sempre stato o almeno è sempre apparso molto sicuro di sé anche di fronte a vicende sfortunate. O forse sì, perché per un grande proprietario dev'essere amaro non lasciare una degna eredità.
La Fiat non era un bene patrimoniale ma il lavoro vivo di milioni di uomini e donne che ora finisce in un buco nero, al nord e al sud, dentro e fuori i confini nazionali. L'auto non era una merce ma un idolo e una filosofia che ora è in rottamazione. La Fiat era il capitalismo familiare italiano, che non vuol dire buono e affettuoso e che ora è all'asta. Era anche un governo ombra, un regime nei regimi, ora detronizzato e sottomesso a una repubblica delle banane.
In eredità ci lascia le autostrade, grandioso monumento funebre, il traffico urbano e lo smog, uno sviluppo che ci inorgoglisce ma di cui non si può dare a Gianni Agnelli né il merito né la colpa. Ha fatto la sua parte, come si dice, ma al massimo è stato il simbolo di una storia, un simbolo «signorile» che i successori faranno magari rimpiangere.
Dunque una bella vita e una tragica morte, una caduta degli dei, che ridà spazio a umane considerazioni. Anche per il fatto che non ci piacciono in generale i grandi uomini o i reputati tali non ci sentiamo «percossi e attoniti» per la scomparsa del principale azionista di una grande fabbrica ma lo vediamo un po' più piccolo e perciò più umano.
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