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LE VIE CONFUSE DEI NO GLOBAL
by di Panebianco (dal corriere della pera) Monday, Oct. 06, 2003 at 8:17 AM mail:

Anche l’Europa è diventata un nemico.


C'era una volta nel mondo un vasto movimento anticapitalista la cui religione secolare (il marxismo) amministrata da sacerdoti addetti alla difesa del culto e all'esegesi dei sacri testi alimentava la fede nell'inevitabile trionfo finale e, più importante ancora, manteneva viva l'illusione che la storia fosse ormai senza più veri segreti, che tutto l'essenziale dei conflitti e delle tragedie umane fosse stato reso comprensibile e, quindi, politicamente dominabile. Quel movimento si appoggiava alla potenza e alle milizie di una chiesa combattente (l’Unione Sovietica) ma al suo interno operavano anche correnti eretiche e scismatiche. La ricompensa principale di chi aderiva al movimento era la soddisfazione di una domanda di senso: egli trovava una risposta, all'apparenza coerente e, soprattutto, «scientifica», ai suoi principali interrogativi sulla vita e sul mondo (un compito in precedenza svolto dalle religioni rivelate). L'anticapitalismo non è morto con la fine dell’Unione Sovietica ma ha cambiato pelle. Dopo aver covato sotto le ceneri è improvvisamente risorto (a Seattle, nel 1999) sotto la veste di movimento antiglobalizzazione e, per qualche anno, è vissuto nell'illusione di avere di nuovo in mano le chiavi del futuro. I contestatori che a Roma hanno manifestato contro i 25 capi di governo europei riuniti nella Conferenza intergovernativa che darà (forse) una Costituzione all’Europa sono una tarda espressione di questo movimento. Ma il problema del nuovo anticapitalismo è che esso non ha nemmeno l'ombra della coerenza e della capacità persuasiva del vecchio. Oltre che privo del sostegno di una chiesa, manca di solidità dottrinale, di lucidità e di vigore intellettuale. Fin dal suo esordio a Seattle il movimento no global vive infatti di incoerenze e contraddizioni evidenti. Accusa la globalizzazione di fare il male della parte povera del mondo ma accetta, nella prima fase almeno, la leadership di quei sindacati americani e di quei contadini francesi il cui feroce protezionismo è una causa importante di quel male.
Soprattutto, accusa di ogni misfatto la globalizzazione (ossia la sempre maggiore apertura dei mercati) e le imprese multinazionali assurte a simbolo della globalizzazione andando contro l'inoppugnabile evidenza per cui non c'è sviluppo né ricchezza senza apertura dei mercati. Poi viene l'11 settembre, scoppia la guerra fra il terrorismo islamico e l'Occidente, e il movimento sa soltanto schierarsi contro gli Stati Uniti. Sulla base della rozza equazione secondo cui gli Stati Uniti sono il Paese guida della globalizzazione e la guerra altro non sarebbe che un effetto di quest'ultima. Ancora una volta, senza capire l'essenziale: che la guerra scatenata dal terrorismo islamico, lungi dall'essere un frutto della globalizzazione, ne è invece la potenziale tomba (come la prima guerra mondiale lo fu rispetto alla precedente ondata di globalizzazione). E, infine, arriva anche la contestazione dell’Europa. Dove il movimento confonde un'integrazione regionale con la globalizzazione e l'Unione Europea con la Wto (Organizzazione mondiale del commercio) e altre istituzioni (sempre più impotenti, come si è visto a Cancun) della governance economica mondiale.
Privo della capacità che aveva l'antica religione secolare di «ridurre la complessità» del mondo dando ai suoi adepti l'illusione di padroneggiare intellettualmente la storia in fieri , il nuovo anticapitalismo non può rilevarne le funzioni, non è in grado di dare risposte soddisfacenti, e pertanto durature, a domande di significato e di identità. Per questo appare destinato a restare ciò che è: un coacervo di ribellismi confusi senza sbocchi e prospettive.

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