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Una musica velenosa che conosciamo fin troppo bene
by Squalo Tuesday, Aug. 31, 2004 at 1:07 PM mail:

Mikis Theodorakis è il più eminente musicista greco dei nostri tempi. Ma Theodorakis è molto di più di un compositore.


Per più di mezzo secolo ha instancabilmente combattuto la tirannia. La sua lotta contro il regime militare in Grecia e altri regimi dispotici nel mondo l’hanno reso una figura di grande statura morale. Con la sua musica e con la sua vita, il rinomato artista greco ha incarnato lo spirito della libertà dell’Europa progressista.
Alla luce di tutto questo, le dichiarazioni che ha rilasciato nella straordinaria intervista concessa ad Haaretz Magazine il 27 agosto scorso assumono un rilievo molto speciale.
Nell’intervista Theodorakis ha parlato apertamente di controllo degli ebrei sulle banche, sui media e sul mondo della musica, e della tendenza degli ebrei ad essere dominatori e fanatici. Ha parlato del popolo ebraico come di una società segreta impegnata a promuovere gli interessi dei suoi membri, e del rifiuto ebraico del messaggio d’amore di Gesù. Ha dato corso senza freni a classici temi del razzismo più oscuro. Parlando dello stato di Israele, Theodorakis lo ha di nuovo paragonato alla Germania nazista. Per tutta l’intervista ha dato ampia dimostrazione di non essere affatto un umanista progressista, ma un puro e semplice antisemita, che non merita alcuna attenuante.
La tendenza che prevale da qualche anno in Israele è quella di centrare l’attenzione sulle nuove forme di antisemitismo non cristiano. Individui e varie organizzazioni nell’establishment ebraico hanno deciso di occuparsi del nuovo odio pregiudiziale verso Israele, quello di matrice islamica, alimentato dal conflitto israelo-palestinese. In effetti questo nuovo antisemitismo è un fenomeno reale, che richiede attenzione. Ma le agghiaccianti affermazioni fatte da Theodorakis devono riportare l’attenzione sul vecchio antisemitismo: sono affermazioni che svelano con inaspettata nettezza la persistenza del problema nei secolari rapporti tra Europa cristiana ed ebrei. Esse contengono abbastanza elementi da innescare una rinnovata riflessione sulla natura delle strette relazioni fra le comunità ebraiche d’Europa e il panorama culturale che le circonda.
Sono diversi gli elementi che spiccano nelle parole di Theodorakis: l’incapacità di accettare il popolo ebraico come una nazione al pari di tutte le altre; l’incapacità di accettare gli ebrei come persone che possano detenere del potere; l’incapacità di disfarsi del pesante ruolo teologico attribuito agli ebrei dalla tradizione cristiana.
Ma c’è un punto che emerge sopra ogni altro: l’incapacità di accettare l’identità plurale degli ebrei, l’incapacità di accettare il fatto che gli ebrei che vivono nella diaspora sono leali sia verso la l’ambiente in cui vivono, sia verso il loro distinto retaggio.
Gli israeliani del terzo millennio spesso perdono il collegamento storico con la nascita del loro stato. Le difficoltà quotidiane che comporta la realizzazione dell’impresa sionista spesso fanno sì che se ne dimentichi la ragione logica di fondo. Le parole di Mikis Theodorakis giungono a ribadire e rafforzare quella ragione. Esse indicano che l’analisi sionista della condizione ebraica era fondamentalmente corretta. Gli ebrei come individui hanno il diritto di vivere dove vogliono, ma il popolo ebraico deve avere una sua propria sede nazionale. Senza questa sede nazionale, la vita degli ebrei nella diaspora potrebbe essere in pericolo. La loro identità plurale potrebbe risvegliare oscuri istinti profondamente radicati.

(Da: Ha’aretz, 31.08.04)


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