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Arabia Saudita, nel silenzio dei media succede di tutto.
by mazzetta Sunday, Oct. 17, 2004 at 3:43 PM mail:

C'è anche l'Arabia Saudita in guerra, e il re traballa sul trono.

Arabia Saudita, nel ...
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Un aspetto curioso della gestione mediatica del conflitto mediorientale, e della battaglia contro l’Islam radicale, è il sostanziale black out su un paese che invece dovrebbe essere al centro delle nostre attenzioni, l’Arabia Saudita.
Perché l’Arabia Saudita ha un trattamento privilegiato sui nostri media, e non la meritata attenzione critica?
La domanda ha una facile risposta: tutte le informazioni che riguardano gli avvenimenti sauditi provocano sconquassi sul mercato petrolifero; il fatto che il paese sia alleato degli Stati Uniti, e a cascata anche del nostro paese, giustifica quindi, in senso machiavellico, la terribile trascuratezza.
Il paese gode ora di un robusto aumento del flusso d’entrate, moltiplicato dall’impennata dei prezzi del greggio, ma non della pace sociale.
Se Rumsfeld in un eccesso di confidenza motivò l’invasione irachena con la necessità di sgombrare dall’Arabia Saudita, tutto questo non sembra essere stato sufficiente per riportare la pace nel regno wahabita.

A dispetto di un’immagine superficiale i sauditi non sono particolarmente religiosi, anche se la loro società resta organizzata su basi feudali e familistiche che si fondano sulle regole coraniche e sulla tradizione tribale beduina.
Nel complesso i sauditi sono meno influenzati dalla religione rispetto ad altri abitanti di paesi musulmani. In Arabia i fedeli islamici sono oltre il 90% della popolazione, ma solo il 62% dei sauditi si dichiara osservante devoto, contro l’82% degli iraniani, l’85% dei giordani e il 98% degli egiziani.
Solo il 28% dei sauditi dice di partecipare alle funzioni religiose della settimana, a fronte di un 44% dei giordani e del 42% degli egiziani”.
Anche per ciò che concerne il matrimonio, i sauditi esprimono idee liberali: “Il 48% dei sauditi pensa che l’amore sia l’elemento cardine della vita coniugale; il 50% degli intervistati si dichiara favorevole ai matrimoni combinati”.
Un’evoluzione normale in un popolo roso dal consumismo e viziato da un relativo benessere. Il fondamentalismo può contare quindi su un appoggio minoritario nella popolazione.
Solo il 20% dei sauditi lavora, il resto vive di rendite o di sussidi governativi. L’istruzione è mediamente elevata, i sauditi si dichiarano a favore della democrazia al 60%, ma non riescono a modificare un’organizzazione sociale assolutamente particolare. L’ottanta per cento della forza lavoro è straniera, generalmente organizzata in regimi di apartheid secondo la provenienza.
Il saudita medio si sente nobile, è benestante, ed è abbastanza razzista, per questo non gode di grande considerazione nei paesi arabi; in patria si comporta da padrone nei riguardi degli immigrati, ma anche degli occidentali; numerosi sono i casi di comportamenti inumani verso i lavoratori stranieri, in particolare quelli asiatici, vittime di vere e proprie bestialità e degli umori politici dei loro "padroni" sauditi.

Opinione destinata a peggiorare dopo l’11/9, i sauditi, infatti, hanno scelto come nuove destinazioni turistiche i paesi dello stesso medioriente, anche per evitare il trattamento da “terroristi”, imposto dalle nuove politiche della sicurezza, che li attenderebbe nei paesi occidentali.

Ciò non ha giovato alla loro immagine; gli abitanti del paese custode dei luoghi sacri dell’Islam, quando sono all’estero sfogano i desideri repressi dalle regole assurde in vigore a casa loro, ingigantendo però nei loro ospiti, e correligionari, la cattiva opinione che vuole i sauditi rappresentati come ricchi depravati, pronti a gustare ogni eccesso che la loro ricchezza renda praticabile.

Nell’ultimo dei ricorrenti sforzi per convincere i sauditi a lavorare il governo ha espulso oltre un milione di lavoratori indiani, nel volgere di alcune settimane, ma la mossa non pare avuto grandi effetti, se non sugli indiani cacciati.
I sauditi negli ultimi 20 anni si sono riprodotti, arrivando a raggiungere i 12 milioni, e si circondano di oltre 7 milioni di lavoratori immigrati.
Come abbiano occupato il tempo i sauditi nati dal boom demografico e cresciuti nella bambagia petrolifera fin dagli anni ’70, non è un mistero.
La maggior parte di loro, semplicemente, si è trasformata in determinate macchine da consumo, attenti all’ultimo grido, fanatici di marchi stranieri.
I tre morti nella ressa all’apertura dell’Ikea di Gedda parlano da soli, non sono stati i tre buoni sconto messi in palio a richiamare migliaia di persone e a provocare la calca assassina, ma il feticismo del marchio.
Divoratori di programmi satellitari e allevati in scuole straniere o con standard internazionali, i sauditi si sono presto allineati ai loro coetanei europei, godendo al contempo di formidabili capacità di spesa.
Il problema principale restava la noia e l’insofferenza per un paese noioso e cupo, insopportabile per le donne, ma anche per giovani pieni delle immagini di altri mondi.
Il problema fu evaso a lungo incoraggiando gli irrequieti a prendere la via di Kabul, combattere la guerra afgana contro i russi era al contempo eroico, religiosamente corretto, liberatorio e apprezzato in tutto il mondo; i giovani arabi entravano nella storia e potevano finalmente procurare nuove gesta alla rinata mistica dell’eroe in nome di Allah, tramontata durante l’esplosione del socialismo panarabo, e ora in piena rimonta grazie al decisivo sostegno occidentale in chiave antisovietica.
Supportati dall’Occidente e dai paesi fratelli, i sauditi combatterono finalmente sul campo, mentre crescevano le strutture per esportare il modello wahabita, guardate con favore dalla corte perché allontanavano le teste calde dal paese, e dagli Stati Uniti in quanto procuravano un esercito invisibile che si batteva per loro procura contro i sovietici.
Dopo l’11/9 fu chiaro a tutti che non si trattava più di una manica di avventurieri, ma che la guerra afgana aveva saldato wahabiti e islamici pakistani, arrivando a coinvolgere quasi la metà dei rispettivi eserciti ed apparati di sicurezza, per anni a fianco degli americani ed ora nemici non dichiarati, ma letali.
L’infiltrazione islamica nei rispettivi eserciti e servizi è ammessa da tutti, ma poco pubblicizzata.

Attualmente l’Arabia Saudita vive la schizofrenia di una guerra civile latente che non scoppia perché sarebbe una disgrazia economica, e perché, in fondo, i rivoltosi non arrivano a chiedere l’esilio dei Saud, dei quali sono, spesso, soci beneficiati.
Esiste però una guerra fatta pressioni e di attentati e dell’impotenza reale a fronteggiare l’opposizione armata, i terroristi che colpiscono in Arabia Saudita, infatti, riescono a dileguarsi anche da obbiettivi in mezzo al deserto e assediati dalle forze speciali; così come nell’attacco che costò la vita al cuoco italiano, spariti da un micromondo circondato dal deserto dopo essere stati addirittura circondati.
Difficile pensare che non abbiano goduto di complicità nell’esercito.
Il re le prova tutte, editti draconiani e offerte di amnistia, ma non raccoglie alcun risultato.
Addirittura viene beffato, alla sua offerta di amnistia per gli aderenti ad al Qaeda aderiscono in meno di una decina di persone, tra le quali Khaled al Harbi, che si è presentato all'ambasciata saudita a Teheran, in Iran, chiedendo di usufruire del perdono regale.
Al Harbi è il venerando vecchietto che appariva accanto ad Osama in uno dei video della rivendicazione degli attentati del 9/11, ora si muove indisturbato e perdonato nel paese, virtualmente intoccabile essendo protetto dalla sua fama di amico di Osama, come dalla sacra parola regale.
Il fatto ha destato scalpore, l’amnistiato, pur ricercato dagli americani, ha lasciato l’Afghanistan, raggiunto l’Iran e da lì casa sua. Diventando, ovviamente, un riferimento ed un esempio per l’opposizione.

Sempre nella massima discrezione, inotlre, si stanno degradando anche i rapporti con gli Usa, la settimana scorsa, infatti, l’Arabia Saudita è stata inserita dal Dipartimento di Stato nella lista dei “Paesi che preoccupano particolarmente”, in relazione alla mancanza della libertà di professare qualsiasi religione. L’Arabia raggiunge così la Corea del Nord, Iran ed il Sudan.
Due anni fa, questi paesi facevano parte dell’asse del male, in compagnia dell’Iraq.
Mr. Danforth, esponente dell’amministrazione Bush, ha lamentato i sermoni infuocati nelle moschee, il monopolio religioso del wahabismo, la corrente locale dell’Islam e l’attività di esportazione dell’intolleranza religiosa.

Commentando la riduzione delle importazioni di petrolio saudita, da parte degli americani, si afferma che non si tratta di una punizione, ma semplicemente del fatto che non esiste più una relazione speciale tra Washington e Riyadh.
In effetti l’Arabia Saudita è considerata da molti americani, il vero nemico e il vero protettore del fanatismo islamico perchè è un paese che ha entrate imponenti, al centro del meccanismo di formazione dei prezzi petroliferi, e dotato di abbastanza zelo fanatico da permettergli di perseguire una egemonia politico-religiosa dall’Africa all’Asia centrale.

Sempre contando sul silenzio, intanto, il re ha rinviato ancora una volta, la terza, le prime elezioni libere dopo anni di promesse.
Libere per modo di dire, si tratta soltanto di elezioni locali, durante le quali si voterà solo per il 50% degli amministratori. Il restante 50% li nomina la corte, che decide pure sull’ammissibilità dei candidati, inoltre voteranno solo alcuni dei sauditi, tutti rigorosamente maschi.
Tutti gli analisti concordano che intervenire sulla condizione della donna sarebbe mortale per la famiglia degli al Saud.

Un po’ poco per una nazione che chiede riforme da decenni.
L’opinione del governo è che non ci sia bisogno di adottare certe forme di democrazia per essere accettati nel consesso internazionale.
Posizione curiosa, ma non incomprensibile; se la comunità internazionale ha ignorato per oltre 70 anni il regime feudale saudita, è logico che ora i sauditi fatichino a capire l’apparente urgenza con la quale altri invocano riforme nel loro paese.
Curiosamente anche la nostra stampa ha comunicato la notizia dell’ultimo rinvio delle libere elezioni senza specificare che si trattava del terzo, e senza scendere troppo in dettagli sulla “libertà” e caratteristiche delle elezioni promesse, e sempre rimandate.
Ovviamente, secondo la corte saudita ed i partner americani, il primo passo per la democratizzazione è la sicurezza. In una situazione insicura la democrazia non può essere esercitata compiutamente.
Tesi sostenuta per non far votare gli iracheni e sempre utile per i dittatori di ogni latitudine.
Peccato che l’Arabia Saudita, quando era sicurissima, non abbia mai pensato ad alcuna riforma, così come non è mai sembrato opportuno ai loro clienti americani ingerire nella loro politica dell’epoca.
A questo punto, in una situazione fatta di riforme neanche immaginate e di confronto a mano armata, il bagno di sangue pare inevitabile e in Occidente si cominciano a tirare righe nel deserto per studiare come dividere il paese in tre o quattro emirati, o qualcosa del genere.
Dividi et impera; quattro mini-arabie sembrano molto più malleabili del monolite saudita. Un tema sul quale si esercitano riviste di geopolitica come Limes o che viene dibattuto in riunioni riservate, ma che ancora non “buca”, e non riesce ad acquisire il permesso di essere portato all’attenzione dei più.
I più nel frattempo sono intrattenuti con l’inutile esibizione di selezionate efferatezze guerresche, temi troppo complessi non sembrano alla loro portata.

Nel frattempo nel paese va in scena il tiro al piccione occidentale, qualche autobomba esplode davanti ai commissariati più attivi nel contrasto all’opposizione, e mentre chi chiede civilmente le riforme viene incarcerato, addirittura si è istituzionalizzato un robusto pendolarismo con l’Iraq.
Centinaia di giovani di buona famiglia trascorrono qualche giorno in Iraq, partecipano ad azioni di guerra, e poi tornano tranquillamente a casa dopo aver sparato a qualche americano, iracheno, o a chiunque venga indicato loro dalle guide wahabite.
Un pendolarismo del quale resta traccia solo nell’aumento delle morti tra i giovani sauditi, nei funerali veloci e poco pubblicizzati, e nei racconti delle imprese in terra straniera che passano di bocca in bocca.

Il destino, dell’Arabia Saudita è scritto sulla sabbia, e sarà possibile leggerlo solo dopo che si sarà placata la Desert Storm di inizio millennio.

Per il momento godiamoci il silenzio che ci regala la nostra propaganda.




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