Testimonianza e riflessioni di una volontaria del Servizio Civile Internazionale dal campo profughi di Dehisheh (Betlemme)
Campo profughi di Dehisheh. Perche' essere presenti qui e in qualsiasi altro luogo della Palestina.
Dalla finestra di una delle camere dell'ostello del centro IBDAA vedo un bambino che si nasconde, tremante, dietro un muro. Dalla strada arrivano i rumori dei cingolati, che senza tregua, dilaniano i timpani. Un uomo, correndo, stizzito e nervoso lo strattona e gli ordina di tornare dentro. Uno stress continuo. La tensione accumulata giorno dopo giorno impedisce di vivere normalmente. La paura fa perdere gioia, ottimismo, pazienza e affabilita'. Le depressioni, le nevrosi collettive, sindromi da stress sono all'ordine del giorno. E' importante registrare queste immagini nella mente, per non dimenticare che qui non esistono solo persone colpite e uccise fisicamente. Ci sono uomini, donne e bambini sottoposti quotidianamente a torure mentali che provocano un gran numero di disturbi psicologici. Qui la vita quotidiana non e' solo mancanza di cibo e acqua, impossibilita' di muoversi, di studiare e di lavorare ma e' anche impossibilita' di costruire e coltivare relazioni sociali, di divertirsi , di distrarsi. Si subiscono i rumori di spari, bombe, urla. Si subiscono continui lutti, perdite materiali, di amicizie e affetti. La mente non e' preparata ad elaborare continuamente la morte. Qui non esiste convalescenza.
Tra le politiche genocide del governo israeliano, c'e' quella di tagliare fuori dal mondo il popolo palestinese. Costruendo muri e tirando su check point, tagliando linee telefoniche ed elettricita', impedendogli di studiare e di partire, cercando di provocare astio tra comunita' locali, come quella tra Cristiani e Musulmani a Betlemme (vedi l'assedio alla Chiesa della Nativita'), cacciando gli internazionali che provano a stabilire contatti con i palestinesi e tentando di osservare ed interporsi, revocando la cittadinanza agli israeliani che collaborano con i palestinesi.
Essere presenti e' essenziale, anche se a volte si ha la sensazione di non poter fare niente. Essere presenti vuol dire: - Capire alcuni meccanismi, mettere in relazione, contestualizzare. E' approfondire diversi aspetti di una stessa situazione; - Essere testimoni non solo di eventi eclatanti, sparatorie, arresti, demolizioni e occupazioni di case. E' anche rendersi conto dell'esistenza che portano avanti i palestinesi giorno dopo giorno, invasi dalla paura, dalla soggezione, dal dolore; - Sostegno e vicinanza ad un popolo che si tenta di isolare in tutti i modi. Sostegno morale. Sostegno attraverso le azioni di interposizione che possono alleviare le difficolta' quotidiane, come appoggiare una donna nel paesaggio ad un check point, portare medicinali e cibo a famiglie sotto coprifuoco o passare la notte in una casa che rischia di essere demolita. Sostegno anche ai civili israeliani che hanno il coraggio e la lucidita' di opporsi ad un governo oppressore che, causando sofferenza al popolo palestinese, ne causa altrettanta al proprio. - Tutto questo per testimoniare e riportare nei propri paesi, attraverso i media e la rete relazionale, le immagini raccolte in questa terra. Per fare in modo che questa moltitudine cresca, perche' si dia piu' continuita' alla presenza internazionale in Palestina, per far conoscere.
L'esercito israeliano ha paura degli internazionali. L'IDF aumenta sempre di piu' le misure difensive e di attacco alla loro presenza. Nell'ultima manifestazione ad Howwara, Nablus, hanno deliberatamente deciso di arrestare, puntando il dito a caso. Il rifiuto del visto d'ingresso in Israele e' diventata quasi prassi ordinaria, mentre negoziare ai check point diventa sempre piu' arduo. Tutto cio' non deve scoraggiare ma deve dare maggiori conferme sull'utilita' e l'importanza della presenza internazionale in Palestina.
Mi vengono in mente le parole di Hunut, una ragazza, molto giovane, gia' madre di tre bambine, che ci ha invitato a casa sua, un appartamento posto sopra un altro appena demolito. "Sapevo che i soldati sarebbero arrivati prima o poi. Avevo paura. Ma quando sono entrati e mi hanno puntato il mitra contro, a me che sono una donna e non avrei potuto fargli niente, mi sono tranquillizzata. Sono loro ad aver paura. Hanno paura perche' sanno chi ha ragione".
Raffaella, 11 agosto 2002
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