Rimini - "La dignità e la rabbia"
riceviamo e diffondiamo:
La dignità e la rabbia. Appunti vivi di un dibattito collettivo oltre le mobilitazioni antifasciste e scioperanti di questo autunno, mettendo a fuoco il tempo che viene.
che valgano per tutti e siano piene d’acqua buona
per le popolazioni, gli animali e le piante
assetate, che diano movimento alle braccia ferme
e senza gesti di mestieri, che siano cariche
di attenzione per l’infanzia disperata:
INSOMMA che non siano parole per questo uomo
o per l’altro, né per questa pelle o quell’altra,
siano per l’umanità così da creare un grande
SOGNO COLLETTIVO.
Tonino Guerra
Le parole e le cose: anzitutto un piccolo prologo locale.
Non è per ricomporre alcun coccio che sentiamo la necessità di esprimere lucidità a partire dalla giornata del 29 settembre in occasione di una mobilitazione nazionale di Forza Nuova svoltasi anche a Rimini, quello che l’ha preceduta e riguardo soprattutto quello che le è succeduta. Sgombrare il campo da dubbi ci sembra fondamentale data la complessità della giornata e la confusione che qualcuno ha volontariamente creato. Riteniamo importante partire da una analisi locale perchè ci sembra di poterla utilizzare come cartina di tornasole per la comprensione di dinamiche ben più estese ed influenti.
Cominciamo col dire che mercoledì 26 settembre un’assemblea antifascista cittadina, pubblica e aperta a tutti e tutte, aveva deciso sulla base di una piattaforma comune che il corteo di Forza Nuova annunciato come regionale (Emilia-Romagna e Marche) per sabato 29 settembre andasse bloccato, possibilmente già dall’assembramento, in forma partecipata e popolare. Ebbene, c’è chi questa assemblea ha fatto finta che non esistesse, dicendo poi che era cosa minoritaria e addirittura facendo un comunicato avvilente per annunciare di non essere presente il giorno della manifestazione. Fin qui normale dialettica politica, si potrebbe pensare.
E invece? E invece un bel tacer non fu mai scritto. Perché poi gli stessi, accortisi della mobilitazione antifascista in corso, che evidentemente volevano scongiurare, sono corsi ai “ripari” (facendo più danni della peste) tornando sui propri passi cercando di sovradeterminare il corteo e delegittimando l’assemblea cittadina che quella stessa mobilitazione aveva prodotto. Come? Imponendo frazionismo, cercando di spostare il corteo in una zona volutamente distante rispetto a dove si trovavano e dovevano passare i fascisti, praticando “blocchi” del traffico concordati con la polizia e aride smegafonate a sé stessi. E riuscendo a coinvolgere qualche timorato che non rispettava il sabato quel che aveva deciso il mercoledì.
Questo fatto grave e senza precedenti non sarà permesso in futuro: come si fa politica è politico e come tale necessariamente sottoponibile a critica-pratica.
Constatato che non è soltanto la dirigenza dell’Anpi riminese a cercare un Aventino su cui ritirarsi con i propri patentini sbirreschi di legalitarismo da due soldi, ci siamo accorti che c’è anche chi sale allo stesso Aventino passando da altri percorsi e con patentini da attivisti innocui e (ben poco, paradossalmente) democratici. Due facce della stessa medaglia, diremmo: quella di chi si prende la responsabilità della divisione tra buoni e cattivi, in una regressione politicista che constatiamo amaramente tanto quanto ci disgusta e non ci sorprende.
La regressione politicista, dicevamo, di chi perde l’affinità con la strada e con la piazza (o forse non l’ha mai avuta), per relazionarsi con le burocrazie di governo della città. Che si tratti del PD o della digos, poco importa.
E la strada e la piazza sono come la vita, non se ne può avere il polso quando non se ne sente più il battito.
Allo stesso modo, per quanto riguarda l’8 novembre e il convegno di Fiore prima annunciato in un albergo periferico del lungomare deserto, per poi essere spostato in un luogo ancora più estraneo alla città (un pub finto-giapponese della movida estiva non molto “identitario” per la verità, chiamato Shibuya), in sostanza declassato da incontro pubblico in luogo privato ad incontro privato in luogo tenuto segreto, non avevamo protocolli da seguire, ma soltanto obbiettivi da raggiungere, cercando di scioperare i non luoghi militarizzati, anziché esserne preda.
Dall’altro lato dello specchio: quello della libertà
L’estate è finita da un pezzo e nella non occupazione diffusa ci apprestiamo all'attesa di una nuova stagione di sfruttamento. O meglio, quello lo sentiamo nelle tasche e sulla pelle tutti i giorni dell’anno: col padrone di casa, al mercato, in piscina, al distributore, in libreria, al colloquio con l'agenzia interinale come in qualsiasi locale del centro. Per i pochi che ne hanno il privilegio (siamo a questo), c'è almeno il sussidio di disoccupazione. Quest’anno rigorosamente tagliato sotto diciture incomprensibili. Aspi, mini aspi: nessuno ne parla, sottomissione e silenzio, un rimosso totale. A proposito di tagli: ogni giorno ci rincoglioniscono con questa cantilena come se fosse un dato naturale, ineluttabile, un esorcismo. Caduto il re-buffone, cercano di far sì che il popolino si muova stordito davanti al pifferaio tecnico… Finchè non si rompe l’incanto. E questa città poi… Non c’è nemmeno uno spazio libero, non un solo spazio che non sia governato o mercificato, nemmeno una libreria indipendente… E’ asfissiante, non c’è un cazzo di niente.
Poi come se non bastasse arrivano i nazisti dell’Illinois vestiti da matrimonio con le guardie, col solito discorso della guerra tra poveri… Perché qui sono 4 in croce e da soli non bastano neanche per entrare dentro a un locale pubblico, che per uscire devono chiamare i loro protettori in divisa. E il risveglio al mattino dopo non dev’essere affatto un’ ”alba dorata”… Loro sì che la rivoluzione la fanno per davvero e che hanno la ricetta giusta per uscire dalla crisi dell’Europa dei banchieri: sfasciare la bancarella di qualche migrante col pretesto della mancata licenza… Il cannibalismo su scala nazionale.
E in tutto ciò, permettete che siamo un po’ incazzat*?!
Però poi ci sono i contabili giudicanti… Che ci dicono che siamo pochi e che non possiamo, che abbiamo già perso. Se gli interessasse analizzare la realtà anziché calcolare i loro tornaconti, saprebbero certamente che non siamo affatto pochi. E che siamo già abbastanza da sentire collettivamente che stiamo bene soltanto se viviamo in movimento e intraprendiamo reali percorsi di ribellione. Perché se guardiamo al mondo senza paraocchi capiamo che la ricchezza non è fatta di cifre mal calcolate ma soprattutto che la strada che abbiamo davanti è meglio percorrerla con limpidezza e a testa alta, piuttosto che male accompagnati. “Io senza lotta non so essere felice”… E per essere precisi non è che siamo "un pò incazzati": abbiamo tutta la rabbia possibile verso questo presente, e non è di autoconsacrati depositari della morale movimentista quello di cui abbiamo bisogno per invertire la rotta dell'abbruttimento che tutti ci travolge.
Riappropriazione, autoproduzione e condivisione, cominciamo da qui.
Dal tentativo di autorganizzazione delle vite in comune. Dall’ampliare lo spazio di discussione e di pratica, necessario per non restare avviluppati nelle dinamiche del ghetto militante.
Per noi l’antifascismo è una pratica rivoluzionaria, non un esercizio di compatibilità.
Così come il discorso (e la paranoia indotta) degli opposti estremismi sono un dispositivo semantico del potere da violare e disinnescare, sia a livello discorsivo che pratico, non una gabbia in cui farsi imprigionare nell’inettitudine e nell’inazione.
Come la pratica dell’antifascismo militante insegna (ed ha insegnato) in tanti contesti metropolitani a livello globale, non è certo evitando la contrapposizione con i fascisti che si rompe questo dispositivo, quanto prendendosi le strade e gli spazi metropolitani (ogni giorno, in modi diversi), e rendendole incompatibili ai fascisti. Per dirla in altro modo, dove ci sono i compagni e le compagne (culturalmente prima di tutto, ma anche militarmente se necessario) non ci sono fascisti; in quest’ottica il mediattivismo è una pratica tanto utile quanto del tutto insufficiente sul terreno della lotta di classe, che è anche il terreno dell’antifascismo militante. Le lotte sociali sono l’unico strumento in grado di strappare il governo del territorio allo stato, al mercato e a quel becero sottoprodotto di entrambi che chiamiamo fascisti. Questa è già, e lo sarà sempre più, una questione fondamentale del nostro tempo.
Rompere la camicia di forza della polizia che scorta i fascisti a spasso per la nostra città, e quella di chi si volta dall’altra parte per fare comunicazione a sé stesso (quella si, autorappresentazione autistica e senza autonomia) è giusto e quanto mai necessario, e sempre più lo sarà in futuro. Non ci si tira indietro da quello che si riesce a fare con gioia: quando ci vuole, ci vuole!
Blocchiamoli sti cazzo di fascisti! E detoniamo la patetica litania dei soggetti…
In questo deserto sociale e politico, nel disastro dei tempi che viviamo e nell’inadeguatezza che quotidianamente affrontiamo, siamo convinti che qualcosa d’altro necessariamente emergerà. Perché non è la ricomposizione dei cocci che c’interessa, dicevamo. Bensì la ricomposizione sociale che si dà già, per chi la vuol vedere, e che molta più strada dovrà fare, possibile soltanto nella radicalità che non concede compromessi alla barbarie che ci circonda. Senza omettere la rabbia com’era consuetudine, senza più la paura a farla da protagonista. Non per calcolo né per autorappresentazione. Ma per una risposta di dignità che viene dal basso e si diffonde virale, e che non si accontenta di accordi da pace sociale.
E se la rivoluzione è ciò che abbatte lo stato di cose esistente, un semplice ripiegamento sulle istituzioni “tradizionali” del movimento operaio che fu (sindacati, partiti) ovvero le ceneri della “sinistra” storica, nell’illusione di portare a casa qualche risultato politico, non può che dimostrarci la mancanza di coraggio di chi invece di potenziare e potenziarsi in un immeticciamento sovversivo, si riduce a modalità di lotta conservative (e questo deve essere una problema che interroga tutti i militanti di base) e tutto sommato riformiste. L’alternativa non si costruisce vincolandosi ai soggetti o alle istituzioni decadute, ma cercando il più possibile di trasformare ibridandosi. Trovarsi: questa è la maggiore sfida che ci attende. Questo serve per essere all’altezza dei tempi. Nessuno è autosufficiente a sé stesso, se non nella propria sterile testimonianza e marginalità: gruppuscolandia è un luogo abitato dalla catastrofe. Solo la forza insieme destituente e costituente delle classi sfruttate e delle soggettività insubordinate potrà aprirci un varco e le lotte sono lì a dimostrarlo.
Chiapas, Copenaghen, Notre-Dame-Des-Landes, Québec, Nord Africa, Cile, Portogallo, Argentina, Sud Africa, Galizia, Grecia, Val Susa e mille altri luoghi nel mondo che ci danno l'esempio del possibile… Perchè il terreno della lotta di classe è un terreno di conflitto, un campo di battaglia, il campo di battaglia della plebe internazionale. Non si tratta di estetica o esercizi di stile, di mutuare passamontagna colorati, slogan o peggio, brand. E soprattutto non si tratta di evocare, si tratta di praticare. Nella gravità della crisi del capitale e nell’attacco delle forze reazionarie globali la questione è di urgente sostanza: la chiamiamo rivolta. Il comune, quando non permeato di vuota retorica, può essere molto più che uno spazio referendario: è uno spazio di potenza.
Tutti a pontificare sulla crisi, la finanza, l’economia reale, le tecniche del controllo sociale, la rappresentanza, su questo e quell’altro aspetto del campo del nemico… Senza mai porci la questione di come si organizza il nostro campo. Su cosa è giusto e necessario fare, e cosa no. Su come si costruisce, si regge, si può vincere una battaglia di medio-lungo periodo quale quella in cui siamo immersi.
Il conflitto sociale, di cui l’antifascismo deve esserne parte, è un obbiettivo da praticare cercando di estendere il campo delle possibilità insorgenti, non per la produzione di ritualità né per un suo recupero gestionale.
Ad esempio quindi non ci può interessare pilotare l'ennesimo movimento studentesco buono per la solita minestra dell'autunno riscaldato che è già finito... Prepariamoci piuttosto ad un inverno che possa covare il calore di una nuova primavera.
Tenendo ben presente che gli spettacolini da foche ammaestrate vengono sempre riassorbiti nel teatrino della politica gattopardesca.
Contro l'autonomia del politico, per la politica dell'autonomia.
Romagna mia...autonomia...
Autorganizzat* Rimini
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