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dicono di Pintor...
by da il manifesto Monday, May. 19, 2003 at 11:40 AM mail:

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Una semplice e colta dichiarazione di libertà
STEFANO BENNI
Quello che ci resta è un ultimo corsivo non scritto, ma inciso in ogni pagina che da oggi leggeremo. La certezza che si può restare puliti, ironici, attenti agli altri fino all'ultimo giorno. Quello che ci resta è che ogni parola scritta da Luigi non potrà essere rivoltata, cancellata, plastificata da nessuna storia, da nessun tirannello, da nessuna commemorazione.

Perché Luigi sapeva scrivere in venti righe quello che noi scrivevamo in duecento, e noi continueremo a cercare il segreto e l'energia luminosa di quella scrittura, senza raggiungerla mai, ma pieni di forza, perché l'abbiamo vista brillare.

Quello che restano sono i suoi dolori, il suo pudore, la capacità di dimenticarli e di occuparsi dei nostri.

Le sue rabbie rapide, concluse da un sospiro e da un sorriso.

La sua faccia da fenicio, i suoi jeans da giovanotto, i milioni di sigarette rivendicate.

Quello che ci resta è Servabo.

E tutte le volte che avevo un dubbio su un pezzo e chiedevo, per favore fatelo leggere a Luigi, e il suo calmo imprimatur, «va bene, stai tranquillo».

E i dubbi sui suoi libri, e il parlarmene con umiltà.

Mi resta il ricordo comune di un mare sardo agitato e oscuro, e la sua voce coperta dal vento che diceva: «è bello anche così».

Quello che ci resta è così complesso, generoso, forte che ci vorranno anni per dipanarlo, riascoltarlo, amarlo in nuovo modo, e cercare di portarne a termine anche una piccola parte.

Quello che ci resta è questo giornale che amiamo e talvolta detestiamo, perché non ci basta, perché è meno dei nostri desideri, come era meno dei desideri di Luigi, ma per cui ha combattuto con tutte le forze fino all'ultimo.

Quello che ci resta è la sua forza e la sua grazia.

Ci resta il rimorso di non avergli parlato abbastanza, sentimento da cui lui ci avrebbe liberato con una battuta, o una risata.

Quello che ci resta è molto, è troppo, è felicemente troppo. Sono sicuro che la consapevolezza di questo dono ha accompagnato Luigi negli ultimi giorni.

Non solo i dolori e le delusioni, ma il viaggio vittorioso di una grande, fertile lezione di vita e di coraggio.

Quello che ci resta è la semplice e colta dichiarazione di libertà di un cittadino del mondo.

Sono stato breve per una volta, Luigi.

Come vedi ho imparato.

A si bbiri



Le pagine di un sovversivo
PIETRO INGRAO
E'sempre difficile, forse impossibile - almeno per me - rispondere alla domanda su chi e che cosa è stato un altro da me. Ebbene, se dovessi rispondere su chi è stato Luigi Pintor, risponderei subito: un eversore. Uno che voleva sovvertire la società in cui viveva. Di essa non gli piacevano né le leggi, né i costumi, né i modelli. Si ribellava a una oppressione? Mi pare che fosse diverso e di più.

Prima ancora, guardando a lui, Luigi Pintor, mi sembrava che egli protestasse innanzitutto contro un modo di leggere la vita: sembrava provare una nausea per i codici e i sacrari posti sugli altari. E lo stupiva l'ipocrisia che stava al fondo di quei canoni. Anche se poi - alla fine del suo amaro riflettere - sembrava sempre chiedersi con un breve ghigno: ma di che siamo sorpresi?

Certo, alla fonte del guasto era per lui il capitalismo, con la sua avidità insanabile. Luigi non era un riformista. Non lo era mai stato, anche quando scendeva con sarcasmo a denunciare e misurare l'avarizia della borghesia nei suoi riti di elemosina sociale. Il suo sogghigno era come dire: avete visto di che pasta sono fatti costoro?

Ma c'era alle spalle come un'idea del Male del mondo, di una ingiustizia più vasta della violenza propria dell'ordine sociale imperante. E il furore e la collera contro tale ordine sociale in auge sembrava in lui accrescersi proprio in rapporto alla durezza dell'infelice condizione umana. Tanto più la borghesia era sordida.

Dunque: un apocalittico mediterraneo? La cosa sorprendente in questo amarissimo e aspro narratore del male di vivere, era la testarda tenacia combattiva con cui egli si impegnava - si potrebbe dire: ogni giorno - nella lotta quotidiana, sullo scontro pratico della sinistra come essa era, nei suoi difetti e nelle sue più elementari speranze, nelle sue passioni e prove di ogni giorno. E come il suo gusto per la pagina alta e severa, per il canto disperato, si mischiavano all'elzeviro bruciante sul giornale, alla staffilata breve contro il nemico di classe, contro i trafficanti della politica. Qui - per me - era il suo volto inconfondibile che tornava poi anche nelle pagine così stringenti e allusive dei suoi romanzi o memorie.

La perdita è grave, nel momento in cui la partita mondiale vede toccare nuove altezze e pone la guerra come asse centrale della politica. E sono alla prova, di nuovo, letture del mondo, sistemi mondiali di politica.

Altri dirà della vocazione naturale di Luigi alla scrittura, della sua passione singolare a trasformare l'emozione etica in racconto e l'abbandono alla memoria come interrogazione sulla vita.

A me è caro ricordare la sua alta irrequietezza sul senso dell'essere, e insieme come egli mescolava il suo stare quotidiano nella mischia con le domande sull'Ultimo. Qui vedo la cifra dell'uomo.

Non era semplice Luigi. La sua irrequietezza non era breve. E la sua passione polemica - a guardare in fondo - scavalcava anche la sua parte.

Riflettendo su di lui, ora che è composto nella calma severa della morte, bisognerà risalire lontano a una vena, a una costa d'Europa maturata nella «guerra totale» (come l'ha definita Hobsbawm) apparsa sul globo a metà circa del Novecento e poi - nel tempo di Bush - tornata a misurarsi col nuovo livello raggiunto dall'arte dell'uccidere.

Qui per me vengono anche domande sul passato. Che vedemmo, che capimmo allora, in quell'incendio mondiale della nostra gioventù, quando Luigi sfiorava appena i vent'anni e già era nella bufera della insorgenza partigiana? E che non capii io della rottura del manifesto che ci divise? E ancora oggi non siamo riusciti a costruire un livello di incontro adeguato alle varianze faticose della sinistra oggi, pur dopo la novità straordinaria dei new global. Da che viene l'insuperato che ancora ci spacca? E come possiamo pensarti, ed evocarti, fratello che te ne vai, senza cercare risposta a queste domande? Dal tuo silenzio, come ancora ci chiami - testardamente - nella tua amara interrogazione sul domani...

La notizia sei tu ma ci manca un pezzo
RICCARDO BARENGHI
Carlo Luigi, ti scrivo queste righe oggi che è il quattordici maggio, un mercoledì, tu non le leggerai né oggi né mai tuttavia te le scrivo lo stesso. Altri le leggeranno, le leggeranno quando usciranno sul tuo giornale ché quel giorno il giornale sarà proprio tutto tuo. Non ti preoccupare, le notizie del giorno non mancheranno ma verranno dopo di te di qualsiasi genere o valore esse siano. Lo so, è sbagliato, avresti voluto un semplice fogliettone, quarantacinque righe e fine del discorso. Non ti abbiamo dato retta, stavolta. La notizia, diciamo così, per noi sei tu. E' da parecchio che lo sei, diciamo dalla pasqua scorsa. Non hai idea di come stia vivendo il giornale, la tua catacomba soleggiata, si trascina dalla mattina alla sera come sospeso nel vuoto. Ti ricordi? parlavamo del mondo e lo vedevamo appunto sospeso in attesa che scoppiasse la guerra all'Iraq. Il manifesto oggi è un po' come il mondo di qualche mese fa. Ma stai tranquillo, là fuori non se ne accorge nessuno, siamo mestieranti che sanno nascondere i sentimenti (fino a un certo punto, forse qualcuno più sensibile di altri se n'è anche accorto). Comunque, continuiamo a occuparci di quel che accade e c'è poco da divertirsi con Berlusconi che fra un po' ci mette tutti in galera, la sinistra morta che non reagisce ma fa finta di reagire, bombe che scoppiano qua e là, le elezioni amministrative, il referendum, due treni che si scontrano alla stazione Tiburtina. Il mondo va avanti, lo sai com'è fatto male il mondo: non ti è mai piaciuto. Scusa, ho sbagliato, avrei dovuto dire che il mondo va indietro. Così forse ti piace di più.

Ma il mondo, dicevamo, oggi è il manifesto. Da quando hai saputo di stare male e noi con te, facciamo le stesse cose di prima ma come se ognuno di noi fosse due persone in un corpo unico. Per me almeno è così, ogni tanto scrivo un articoletto tanto per tenermi in esercizio e poi perché il mondo va indietro e a un giornale gli tocca starci, nel mondo. Ma per il resto non c'è resto. Penso a questi miei ventitre anni di vita qui dentro e ti rivedo quando ero un ragazzino al quale avevano detto di non perdersi le riunioni di redazione e il momento dei titoli la sera, «quelli che fa Pintor». Non me li sono persi. Penso anche a quando ancora passavi i pezzi di cronaca, almeno quando andavano in prima. Un onore, se capitava, ma anche un timore. Ho imparato da te a togliere quel che non serve, perfino le virgole, e a cogliere la sensibilità delle persone. Per restituirgliela e farli sentire a casa loro quando aprono il giornale.

Questo tuo giornale oggi sta facendo lo sforzo più grande della sua vita, altro che le crisi economiche, il baratro della chiusura, le sottoscrizioni, l'edizione a cinquantamila lire (c'erano ancora le lire), quando ti sottoponesti a un'intera trasmissione televisiva, tu che odi la televisione, pur di salvare il manifesto. Oggi, e dico proprio oggi mercoledì quattordici maggio che sei ancora vivo ma non ci sei già più, è un'altra cosa, una sfida più difficile da superare. Figuriamoci domani.

Ma poi perché la dobbiamo superare, che cosa dobbiamo superare? Andremo avanti finché potremo o vorremo, speriamo per anni o decenni. Senza superare niente e nessuno. Tu continuerai a darci una mano per interposte persone che poi siamo quelli che il manifesto lo producono e quelli che lo leggono. Mancheranno i tuoi pezzi (già mancano) e soprattutto mancherai tu (non sai quanto manchi).

Ciao ciao, che succede, vengo subito di là. Non succede niente oppure succede di tutto ma leggi pure i giornali, ci vediamo tra un po'. E poi la riunione di redazione, Luigi che dici di questo? Niente, non dico niente. Oppure dicevi, magari ti incazzavi, a volte ti rassegnavi, guardavi l'orologio e te ne andavi a pranzo a casa. Gesto con la mano a dire ci vediamo dopo. Scrivi? Forse ma non ci contare. Oppure, no no, su questo non scrivo, cosa vuoi che scriva? Andrò al cinema. E invece, magari alle sette della sera, dettavi il tuo pezzo.

In questi giorni, caro Luigi, la notizia della tua malattia (tu l'avresti chiamata col suo brutto nome, cancro) si è sparsa, sai come sono le notizie specialmente quelle cattive. Nessun giornale ne ha parlato, ovviamente, ma molti amici e compagni hanno telefonato, sono anche venuti qui. Alcuni di loro che lavorano in altri giornali ma prima erano del manifesto hanno avuto lo sgradevole incarico (così mi hanno detto) di scrivere in anticipo il tuo necrologio, il cosiddetto coccodrillo. Lo hanno scritto piangendo lacrime vere, non sono coccodrilli. Io invece non piango quando scrivo, sarà per questo che in questi giorni scrivo più spesso. Mi tocca pure organizzare il tuo funerale, forse te lo faremo in quella piazzetta che ti piaceva tanto dove andammo una sera a cena, sai quella col nome che ricorda una fata, o forse no, anzi pare proprio di no, lo faremo in piazza Farnese perché se no rischiamo di non starci. Tu che ne pensi? Fregatene, mi risponderesti. Purtroppo non posso.

Oggi Simonetta Fiori ha scritto un bellissimo articolo a proposito del tuo libro che sta per uscire. Dicevi che non ti piaceva, non sono d'accordo. L'ho letto di notte e ho pensato a quanti di quei pensieri ci avevi raccontato mentre aspettavamo che ci venisse l'idea del titolo di prima pagina. La storia dei suicidi per esempio, ricordo una divertente discussione su quale fosse il modo migliore per togliersi di mezzo. Ho visto che sei rimasto della tua opinione, un tuffo nel profondo del mare.

Mi dispiace che ti perderai la guerra cino-americana del 2010, caro Luigi, mi dispiace perché ci tenevi. Tuttavia ti confesserò che anche noi speriamo di perdercela, ne hai azzeccate tante che se pure sbagli questa previsione (o preferisci profezia?) non ti arrabbierai. Così potremo continuare a far uscire il manifesto che, come tutti i giornali, verso mezzogiorno servirà ad incartare quelle patate che a te piacciono tanto cucinate al verde.


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articolo

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Uno straordinario figlio del secolo breve La nostra sfida è il suo servabo
VALENTINO PARLATO
La morte di Luigi, improvvisa e lunga (nessuno si aspettava una sentenza così radicale da parte dei medici e nessuno dei medici si aspettava la sua lucida e naturale vitalità) è un colpo terribile per tutti noi del manifesto e per i suoi tanti amici e compagni, oggi anche lontani da lui. Non si tratta solo di un colpo agli affetti, ma alla vita di ciascuno di noi, al nostro passato soprattutto, ma anche al nostro difficile futuro. Occorre ripensarsi; ma intanto, anche se qualcuno di noi preferirebbe il silenzio, è d'obbligo, è giusto scrivere; non è opportuno tacere: per noi e per lui. Ma che cosa dire? Viene da ripetere la frase «non ho parole», usata e pure abusata da Luigi, che le parole le modellava e le manovrava, come il fioretto e l'obice, a seconda delle circostanze. Ho riletto, sul manifesto, la sua lettera a Laura Lombardo Radice-Ingrao. Confesso la mia incapacità: l'essenzialità di quei quattro capoversi non è imitabile. Scriverò più a lungo, sballottato tra pulsioni diverse e tra loro forse contraddittorie.

Certo, senza Luigi il quotidiano il manifesto non ci sarebbe mai stato. Luigi è stato, pur tra scontri dolorosi, l'architrave di questa casa che tra venti e tempeste ha resistito più di trent'anni, un caso abbastanza unico per un giornale come il nostro. Senza di lui tutto sarà più difficile, vecchi e giovani dobbiamo saperlo e insieme dovremmo ripetere «Servabo»; così come Luigi intendeva e intese nella sua vita quel motto.

Luigi è stato un fratello maggiore, un amico, un compagno in senso profondo. Per chi gli è coetaneo, ma anche per i giovani, la sua uscita di scena costituisce un'altra avanzata di quella grigia armata che si chiama solitudine. Noi più vecchi soffriamo terribilmente di solitudine, che è anche sinonimo di debolezza e che, con tutti i sensi di colpa, un po' mi induce a invidiare Luigi: morire è anche uscire di scena - pare che Augusto, morendo, come sue ultime parole abbia detto «la commedia è finita». La vita è anche una commedia, Augusto, primo imperatore globale, aveva qualche ragione.

Nel momento del distacco, chiedersi chi era veramente Luigi può apparire saccente e presuntuoso. Può apparire solenne e autosolennizzante. Mentre scrivo, sono le 15 di sabato 17 maggio, arriva la notizia della morte annunciata: Luigi è morto. L'annuncio era scontato, ma cambia più di qualcosa.

Chi era Luigi con il quale abbiamo lavorato, anche con scontri e divisioni dolorose, da circa quarant'anni? Luigi era e resta una personalità unica, complessa non per le sue contraddizioni interne come ormai tutti ci diciamo, ma per la ricchezza dei suoi apporti costitutivi. Luigi è stato uno straordinario, direi unico, figlio del secolo breve.

Senza la seconda guerra mondiale Luigi, forse, non sarebbe stato Luigi e neppure molti di noi più anziani. La seconda guerra mondiale - rileggiamo «Servabo» - porta Luigi fuori dell'isola; poi c'è la morte del fratello, la famosa lettera; e Luigi giovanissimo che dai banchi del Tasso passa ai Gap (Gruppi di azione patriottica, che oggi diremmo terroristi). Ma nella dimensione del secolo breve (ho il timore di scivolare nell'insipienza storiografica) ci sono altri tre elementi che formano la personalità di Luigi, o almeno credo io. Ci sono la famiglia e la sardità, l'essere un comunista italiano (nozione ancora non di facile comprensione per i più giovani) l'essere un giornalista politico e un vero giornalista.

Siamo nella prima metà del novecento, quando le famiglie ancora contavano e la famiglia Pintor, come quella dei Lombardo Radice o dei Natoli, aveva un peso. La famiglia Pintor non era riducibile all'ultimo erede, il giovane Giaime, ucciso dall'esplosione di una mina mentre passava il fronte per tornare al Sud. La famiglia Pintor era qualcosa di più: era lo zio Luigi, effettivo governatore della Libia; era lo zio Pietro, il generale del corpo d'armata del fronte occidentale che andò con il giovane nipote Giaime a trattare l'armistizio francese e che poi negli anni quaranta morì in un sospetto incidente aereo. Ed era ancora lo zio Fortunato, deus ex machina dell'Enciclopedia italiana.

Poi, ma forse in primo luogo, Luigi fin da giovanissimo (cominciò con i Gap) fu un comunista italiano. E questa storia non si può spiegare solo con la pensione Jaccarino, le torture, la condanna a morte. Non si tratta solo di resistenza ma, credo io - e posso clamorosamente sbagliare - di fredda razionalità di impegno: il miglior Machiavelli e, pertanto, la massima libertà di giudizio. Nella tragedia del '56 ungherese Luigi non ebbe tentennamenti e rimase decisamente da questa parte della barricata, non si fece travolgere dal rapporto segreto di Krusciov, non si associò ai nuovi antistalinisti (che poi erano e sono gli stalinisti di ieri), ma capì che il Pci per restare tale doveva rompere con l'Urss, puntando a un'uscita dallo stalinismo, ma da sinistra. Una ventina d'anni dopo, forse troppi, ma assai travagliati (ricordiamoci dell'XI congresso del Pci) si arrivò alla rottura del manifesto e alla radiazione dal Pci. Viste le traversie del Pds e dei Ds forse è difficile comunicare ai più giovani che cosa furono i comunisti italiani, ma i giovani dovrebbero fare qualche sforzo e la vita di Luigi dovrebbe aiutarli a capire.

Questo comunista italiano, lucido erede di una famiglia impegnata, fu anche - ed essenzialmente - giornalista. Giornalista in senso politicamente alto. Per un verso aveva coscienza della precarietà del quotidiano: «A mezzogiorno, con il giornale - ci diceva - si possono avvolgere le patate». E, a mio parere questa coscienza della precarietà è solo l'anticipazione di una profondità. Parafrasando la famosa frase di Gertrude Stein («una rosa è una rosa è una rosa») ci diceva «un giornale è un giornale è un giornale». Coglieva così e metteva in evidenza uno specifico giornalistico, che è assolutamente politico, contro la semplificazione che un giornale debba essere solo l'amplificatore di una linea politica, eludendo così lo specifico del mezzo e la differenza tra propaganda e persuasione. Si tratta di una questione di delicata intelligenza politica e infatti su questo punto tra noi ci siamo anche scontrati: in totale buona fede, ma con scarsa cognizione delle cose del mondo. Luigi, in quanto giornalista, capiva di politica assai più di quelli di noi che si credevano politici. La politica che non può andare sui giornali è, evidentemente, sbagliata.

Sui suoi articoli, quasi tutti assai brevi, sono usciti due volumi: uno, «Parole al vento» di Kaos editori, sugli anni '80; e un altro di Bollati Boringhieri, «Politicamente scorretto», sugli anni 1996-2001. Valgono più di due manuali di storia d'Italia.

E c'è la nostra storia, de il manifesto, una storia più che trentennale che anche per Luigi è un miracolo mondiale. Il primo numero del quotidiano andò nelle edicole il 28 aprile del 1971; poco dopo si avviò la campagna elettorale del 1972. All'interno del nostro gruppo la discussione non fu totalmente serena, poi però si decise di andare alle elezioni e alla sconfitta: tanta gente in piazza, pochi voti nelle urne.

Poi, con la costituzione del Pdup, nato dall'alleanza tra i compagni anche essi sconfitti del Psiup (Foa, Miniati, Ferrati) si aprì un conflitto tra giornale e partito: il giornale da «quotidiano comunista» era diventato «quotidiano di unità proletaria per il comunismo». Ci fu il tentativo del partito di governare il giornale; Luigi si oppose e se ne andò. Ricordo un saluto d'addio, assai doloroso, davanti alla sede del Pdup in via Cavour. Ma l'unità tra partito e giornale non resse a lungo, ci fu il congresso di Viareggio del Pdup e la rottura tra il gruppo del giornale e il gruppo del partito. Il manifesto riprese la sua autonomia, che conserva ancora oggi, e ci fu il rientro di Luigi nel collettivo del giornale e nella sua direzione. Va però detto che queste rotture, non semplici, prima con Luigi e poi con Lucio e Luciana e altri compagni meno vicini, non incrinarono mai i rapporti di fiducia reciproca: era un modo buono e leale di fare lotta politica.

Ora che Luigi se ne è andato dovremmo concentrarsi sul nostro prossimo che fare, lui un indirizzo ce lo ha dato. Cerchiamo di ripetere «Servabo».


La semplice dignità della persona Il suo manifesto nella storia italiana
ROSSANA ROSSANDA
Si è spento ieri Luigi Pintor, il nostro compagno ed amico, quello che ha ideato questo giornale, lo ha fatto con niente, ci ha insegnato a farlo. Non lo dirigeva più da anni, lasciando spazio ai più giovani, ma ne è rimasto l'anima, amata o contestata: sentiamo Luigi, che ne dirà Luigi, oggi Luigi scrive. In marzo e aprile ha scritto quasi ogni giorno contro la guerra in Iraq, era già malato, non lo immaginava. La vita non lo aveva risparmiato e non lo ha risparmiato neppure la malattia che lo ha aggredito repentina e feroce, senza lasciargli tempo, divorandogli in poche settimane il corpo e non permettendo alla mente vigile né di sprofondare nell'incoscienza né di «governare il trapasso», come disse con quel suo misto di ironia ed eleganza appena letto il risultato della tac, il 22 aprile. E' stato fino all'ultimo lucido, composto, mentre il corpo se ne andava e la mente restava spalancata davanti all'oscurità immensa della morte, non cessando di interrogarla. L'aveva frequentata fin da ragazzo, la crudeltà della fine, quando il fratello grande, Giaime, era saltato su una mina tedesca a ventitre anni, nel tentativo di raggiungere le formazioni combattenti del Nord. E' terribile per un ragazzo perdere un fratello, e Giaime era qualcosa di più. Era il giovane prodigioso, colto, brillante, che sapeva e spiegava tutto al più piccolo di lui, e a lui infatti lasciava la lettera nella quale diceva della sua scelta, necessaria assunzione di responsabilità, senza enfasi e senza lirismo ma senza possibilità di compromesso. A Luigi parve sempre ingiusto che morisse lui, Giaime, appena oltre i suoi venti anni, prova della crudeltà e non senso delle cose. Poi ne avrebbe raccolto gli scritti e le carte, avrebbe custodito nella memoria dei posteri quella splendente giovinezza, sulla quale qualcuno, l'anno scorso, avrebbe cercato di gettare una manciata di fango.

Non so se Luigi ne abbia patito, sta nello stile dei tempi, lui, e noi, ne abbiamo viste di tutte. Ma Luigi era stato singolarmente provato negli affetti: la madre dei suoi figli, Marina, morta di cancro dopo anni di sofferenza, il figlio Giaime mancato alcuni anni fa, poi d'improvviso, intollerabile, la morte della figlia Roberta. Aveva appena ritrovato una certa pace accanto alla sua meravigliosa Isabella in una casa che gli era cara per essere stata della sua famiglia, quando è stato a sua volta afferrato dal male. Fucilato dalle perdite, gliene era venuto un senso contraddittorio: mai mancare all'impegno («Servabo») e la sensazione d'una fatalità negativa dell'esistenza, e fin un senso di colpa, la colpa di essere, di sopravvivere, di aver mancato non si sa come e dove, che filtra dai suoi libri, anch'essi contraddittori fra la profondità del pessimismo e la perfezione della forma, ed è l'oggetto dell'ultimo di essi, scritto due anni fa e in uscita adesso. Leggendone le bozze in clinica si sarebbe detto, scuotendo il capo come di fronte all'ennesimo scherzo del destino, che nel protagonista, cui il medico ha appena annunciato la malattia mortale, il lettore avrebbe a torto veduto lui stesso, da due anni in attesa della fine, mentre la malattia di cui scriveva era un'altra, la colpa non di avere commesso un delitto, ma di non averlo saputo impedire.

La colpa di noi tutti, che andava, va, oltre la vicenda della persona, la colpa del fallimento delle idee, dei comunisti. Luigi era stato uno dei migliori giornalisti dell'Unità - in verità uno dei migliori giornalisti italiani, per il nitore della scrittura e la fulmineità della vis polemica. Quando cominciò la televisione, il faccia a faccia con l'avversario pareva fatto per lui. Non ne perdeva una, andava sempre al segno, colpiva con quella sua infallibile e spiritosa eleganza, senza un colpo basso, ignaro di ogni volgarità, convinto come era che il popolo è nobile e la sua causa va servita con nobiltà. Non capì mai che cosa di rivoluzionario potesse esserci nel trash o in una sgrammaticatura. E la gente del Pci gli era grata anche di quello stile, che nulla concedeva. Luigi è quello di noi cui hanno voluto più bene.

Allora aveva alle spalle un grande partito, del quale non ignorava limiti e vizi, ma che fino agli anni `60 gli parve rappresentare la trincea della classe operaia italiana. Classe operaia, popolo, gli offesi, i lavoratori dipendenti; non si impicciò mai troppo di marxismo, Luigi, le cose gli apparivano più secche e semplici, e aveva ragione che la vera posta in gioco è e resta la dignità della persona. Ci volemmo bene sempre e ci azzuffammo sempre, pensava che fossi troppo elucubrante, oltre che asinissima nella scrittura. Ma eravamo sempre dalla stessa parte, intendendoci negli accordi e disaccordi da lontano, fra sorriso e furore. Sta di fatto che ci trovammo naturalmente assieme, Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Lucio Magri, Luciana Castellina quando il Pci tollerò appena il 1968 e ingoiò, seppur a malincuore, l'invasione russa della Cecoslovacchia. Facemmo assieme il primo manifesto, un mensile, e fummo assieme esclusi dal partito.

Ma a Luigi non sarebbe mai bastata una rivista, voleva un moltiplicatore, una nostra lista alle elezioni, e uno strumento smisurato come è un quotidiano. Un quotidiano era una follia, non avevamo un soldo né un finanziatore, non lo avemmo mai, e la squadra sulla quale egli poteva contare di giornalisti ne aveva due, Michele Melillo e Luca Trevisani. E un grande grafico, Giuseppe Trevisani. Cercammo soldi da questo o quel compagno, un milione per volta, e partimmo quando ne avemmo otto. Per anni avremmo vissuto di sottoscrizioni, tenuti a galla dai lettori, mentre la pubblicità mancò sempre, fu molto al di sotto dell'area sulla quale pesavamo e pesiamo; i padroni non si sbagliano, non ci dettero mai niente, non ci tentarono: mai virtù fu meno insidiata della nostra. Ma, credevamo con Luigi, avevamo con noi tutti i comunisti che ci credevano ancora e soprattutto quella intelligente nuova insorgenza giovanile. Sarebbe stato un felice innesto fra i vecchi - per rapporto al movimento del 1968 eravamo già «padri» e «madri» e non così sciocchi da travestirci - che avevano memoria del partito comunista più intelligente d'Europa e i giovani che si sollevavano da tutte le parti, e i nuovi operai dell'autunno caldo. Sarebbe stato l'abbraccio fra un sapere più freddo e un'audacia innovatrice spericolata. Non funzionò affatto.

Alle elezioni del 1972 le nostre piazze furono piene quanto quelle del Pci, ma nella cabina elettorale molti cuori che erano con noi preferirono votare per un partito più forte. E diffidò di noi anche il post 1968 più radicale e più frettoloso. Più tardi sarebbe finito disgregato o nell'estremismo armato o nel riflusso. Difendemmo sempre questi figli che non ci avevano badato, e molti dei quali ci fanno oggi lezione da destra. Luigi non ne fu gran che turbato, più gli è pesata la seconda sconfitta politica, quella di noi «vecchi», l'incontro mancato fra quel che pensavamo andasse conservato dei comunisti italiani e le nuove forze ed idee. Quanto alla mancata eco elettorale, egli che era fra coloro che vi avevano puntato di più, per primo capì che non ce l'avremmo fatta: mentre festeggiavamo, qualche giorno prima delle elezioni, il primo compleanno del giornale, Luigi arrivò dicendo con l'abituale calma: Non è andata. Non ce l'abbiamo fatta.

Sarebbero rimasti il giornale e un tentativo, fallito presto, di movimento partito. Il giornale è il solo sopravvissuto. Il solo quotidiano nato dal 1968 che duri e sia interamente libero, libero financo da un editore. Esile ma rispettato. Ci conoscono in tutta Europa, ci conosce tutta l'Italia, che ci compra soltanto nelle emergenze, mentre una base fedele di lettori ci rende impossibile di vivere con agio e di morire di stenti. il manifesto di Pintor è un pezzo di storia italiana della seconda metà del secolo.

Non che al suo ideatore sia stato sempre fonte di soddisfazione e di gioia. Nel 1973 già scriveva una lettera disincantata e spiritosa, il giornale non era quello che avrebbe voluto e non per la malvagità del fato ma per i difetti della nostre inflessibili soggettività. Che il riflusso degli anni `70 e poi il crollo del comunismo, reale e non, avrebbe moltiplicato. Eravamo liberi di riflettere la realtà, e la riflettemmo anche nei suoi erramenti. Luigi ogni tanto ruggiva, cercava di separarsi come altri fra i padri fondatori, ma poi tornava a darci una mano. Tornò sempre, e il giornale lo aspettava più o meno ammaccato, ma vivente grazie a Valentino Parlato, sul quale hanno riposato tutte le nostre collere, perché Valentino non molla mai.

Ma è tanto se abbiamo resistito, se viviamo ancora. Gli anni `90 hanno parlato alle viscere della società, e alla parte più frivola della cultura. Luigi era stupefatto della stupidità con la quale il mondo consuma e uccide. Non cessò mai di denunciarla. Non accettò mai che fosse obbligatorio liquidare il movimento operaio e comunista, e pensò tormentosamente che tutti ne portassimo qualche colpa, non fosse che per indifferenza. Né accettò di liquidare quell'Urss cui fummo i primi a non dare più credito ma che rappresentava almeno il simbolo d'un altro mondo e sistema. Ancora quest'anno, nel ciquantesimo della morte, Luigi provocatoriamente rifiutava di consegnare tutto il terribile Stalin alla semplice damnatio memoriae. Non era di coloro che riescono ad avere pace senza che la ragione glielo consenta. Si è spento irriconciliato.

Ma questo siamo in pochi a capirlo. Con lui muore gran parte della mia generazione: aveva un anno meno di me, sono più vicina a suo fratello che a suo figlio. Mancherà a noi, ai compagni, agli amici e a quel che resta di rispettabile fra i nemici, e non è molto.



Un'ipersensibilità che trasformava il capire in troppo lucido pessimismo
LUCIANA CASTELLINA
Non avrei mai pensato che un giorno mi sarebbe toccato scrivere in morte di Luigi. Non solo perché alla perdita definitiva di un amico e compagno non si pensa, ma anche perché non si immagina mai di scrivere sulla propria morte e, sebbene più diversi non avremmo potuto essere, un grande pezzo della sua vita è stata anche la mia e ora oltre la sua persona piango anche questa nostra storia comune che si sfalda in decessi e vecchiaie. La storia di un modo di intendere il Pci e più in generale il comunismo, i doveri che da questa speciale appartenenza sono derivati, i doni - Luigi sorriderebbe ironico di fronte a questa parola, ma sarebbe d'accordo anche lui che esser stato comunista è stato uno straordinario privilegio, anche se sempre più difficile è restarlo in modo sensato. Ma Luigi Pintor era molto di più di questo pezzo di storia comune che ora, con lui, ci muore dentro. Era, Luigi Pintor, un uomo dotato di qualità eccezionali che spesso, e forse proprio per questo, sono diventate difficoltà nel vivere, per lui stesso e per chi gli era caro e vicino: perché la sua intelligenza non era solo acume ma ipersensibilità, sicché il capire si rovesciava in lucido, troppo lucido pessimismo; la sua sottile ironia in distruzione, auto e etero. E però mai in paralisi nel fare, ché il suo scetticismo profondo, i suoi sacrosanti dubbi, che hanno anche percorso tutta la storia del manifesto, non lo hanno mai indotto a lasciare l'impegno. Tutto questo, del resto, l'ha scritto lui stesso, mirabilmente, in «Servabo».

Fra tutti coloro con cui abbiamo fatto 35 anni fa il manifesto, Luigi era quello che io avevo conosciuto prima. Anzi, prima ancora di concretamente incontrarlo, perché al liceo Tasso, che ho frequentato pochi anni dopo di lui, il suo nome, con quello di qualche altro, era mitico: erano diventati comunisti su quei banchi e durante l'occupazione nazista, diventati Gap, erano entrati nella scuola a sfidare, armati, il preside fascista. Al ginnasio, che pure era incorporato nella stessa scuola, queste cose non le avevamo sapute, ma le scoprimmo dopo la Liberazione, quando anche noi cominciammo ad avvicinarci al Pci. E ne ho saputo assai di più successivamente, quando per anni ci frequentammo tutti i giorni, alla mensa de l'Unità a via IV Novembre e nella nostra o nella sua casa al quartiere Mazzini, dove ho visto crescere Roberta e Giaime. Avevo sposato il suo amico più stretto, Alfredo Reichlin, che con lui era stato Gap e, sempre con lui, era diventato redattore del giornale, ragazzini assunti e subito promossi dalla lungimirante politica di Togliatti che aveva voluto un rinnovamento generazionale immediato e radicale. Assieme mi raccontavano, come fosse stato un gioco di ragazzi, delle passeggiate per Roma nell'inverno del `43-'44, in tasca la pistola che gli era stata fornita per esser pronti a colpire, la tentazione di usarla nelle pasticcerie quando si fermavano affamati di fronte alle vetrine allettanti, e poi però anche della paura, della difficoltà umana di sparare ad altri uomini, sia pure odiosi nemici; della drammatica cattura di Luigi, rinchiuso nella terribile pensione Jaccarino e condannato a morire, salvato, come diceva lui, «dal calendario»: l'arrivo della V Armata americana.

Di queste cose io ho sentito parlare sempre con voluta leggerezza, mai come racconto epico, sebbene di epopea si trattasse. Ma in quelle conversazioni serali c'era un intreccio fra le vicende politiche del passato e del presente e la letteratura, la musica, la cultura, ingredienti preziosi per una militante di base così rozza come io, e i miei coetanei solo di qualche anno più giovani della generazione della Resistenza, eravamo. Veniva dalla memoria di Giaime Pintor e dalla eccezionale influenza che aveva lasciato questo fratello, ventitreenne eroe saltato su una mina nella valle di Venafro dove era stato paracadutato per rientrare nell'Italia occupata. A combattere. E però già precoce, raffinato intellettuale che nei suoi così brevi anni di vita aveva marcato di un segno profondo il comunismo di Luigi e dei suoi compagni: aveva insegnato a leggere Rilke, da lui mirabilmente tradotto, oltre a Lenin.

Poi, nel `66, ci fu l'XI congresso del Pci - quello di quando Pietro Ingrao, cui noi tutti eravamo vicini, disse, rivolto alla direzione del partito, infrangendo una prassi che sembrava infrangibile, «non direi che mi abbiate convinto». Per noi tutti fu uno snodo politico e di vita. Per Luigi l'esilio da Botteghe Oscure fu più estremo e però anche in qualche modo più dolce: fu spedito in Sardegna come vicesegretario regionale, lontano, ma in un'isola che era la sua. A Cagliari aveva tutti i ricordi dell'infanzia e forse quello è stato il periodo in cui, sebbene politicamente molto arrabbiato, mi era parso umanamente più sereno. Aveva preso casa a Quartu S. Elena, vicino al mare, e a tutti noi fece scoprire le coste ancora selvagge e le «taccule», gli uccelletti impalati e profumati di erbe il cui assassinio la coscienza ecologica ancora lontana non aveva condannato.

L'andavamo a trovare perché ci capitava per lavoro ma anche perché lì, proprio in quella casa di Quartu, vennero tessute le prime trame del progetto che anni dopo divenne il manifesto; e subito un bel pezzo del Pci sardo, che poi non a caso divenne una costola importante del gruppo, vi fu coinvolto.

La storia del manifesto, e dunque per tanta parte della vita di Luigi, non si può raccontare così, in questo momento. La dovremo scrivere, tutti assieme, un giorno. Voglio solo ricordare Luigi direttore del quotidiano, di come si arrabbiava quando il giornale ripeteva sempre gli stessi rituali titoli dell'epoca, tanto che «La Zanussi riparte» restò a lungo il simbolo delle nostre colpe giornalistiche. Si arrabbiava con gli allora giovanissimi redattori venuti a lavorare al quotidiano senza aver mai prima messo piede in un giornale, perché non sopportava soprattutto lo scrivere sciatto, la banalità dell'immagine, la casualità delle parole usate, lui che ha poi scritto libri più che esigui perché ogni aggettivo gli sembrava eccessivo, ogni fatto non essenziale, superfluo. La sua severità di maestro ha dato lustro e rinomanza alla «scuola del manifesto», diventata col tempo un «pedigree» prestigioso.

Ma dire che Luigi Pintor è stato un grande giornalista, un editorialista come non ce n'è altri in Italia, un polemista bruciante, non rende la persona. Luigi avrebbe in realtà voluto essere pianista (e sarebbe stato un grande pianista), ed ha rimpianto sempre che le vicende della vita l'abbiano moralmente obbligato all'impegno politico. Quando poteva suonava ancora, perché è nella musica che si trovava più a suo agio.

Un impegno: scrivere quella storia mai scritta
LUCIO MAGRI
Il giornale mi ha chiesto di scrivere, e subito, qualcosa di ciò che sento o di ciò che ricordo su Luigi e per Luigi. E' un dovere, e ci pensavo da tempo, perché questa morte non ci coglie di sorpresa e l'abbiamo accompagnata con angoscia. Tuttavia non mi sento ancora capace di assolverlo.Non è solo la commozione per la perdita di una persona tanto cara che ti blocca, quasi ti suggerisce il silenzio come unica espressione adeguata e riparo dal rituale. Quando un'altra vita è stata intrecciata alla tua con fasi alterne ma dalla gioventù alla vecchiaia, il suo necrologio è anche il tuo e non si può fare il necrologio di se stessi. Soprattutto non vuoi partecipare a un coro giustamente numeroso perché è anche un pezzo di te che si perde quello di cui parli e vorresti consegnare alla memoria. Una sola cosa dunque posso qui fare: prendere un impegno. Ripensando alla vita di Luigi, alla mia e a quella di pochi altri mi pare chiaro il fatto che - ci soddisfi più o meno - la cosa più oggettivamente rilevante che abbiamo fatto l'abbiamo fatta insieme: la tormentata scelta di preparare e di fare il manifesto - rivista, gruppo politico, giornale - pagandone i prezzi, uscendone trasformati. Ebbene, una ricostruzione vera di quell'impresa (fatti e idee, intenzioni e risultati, intuizioni anticipatrici ed errori ingenui e poi sviluppi e rettifiche, discussioni accanite, separazioni e ricongiungimenti, molti rivoli nuovi di cultura e di impegno politico connessi a una radice comune) non si è mai fatta, anzi se ne affievolisce la memoria nella testa di ciascuno. Per responsabilità e motivi diversi.

Colpisce ad esempio che negli ultimi brevi e bellissimi libri di Luigi - un'analisi autobiografica così minuziosa e altrettanto selettiva - quella vicenda di cui era protagonista sia quasi rimossa, non credo per sottovalutarla, ma forse proprio per dare la misura estrema del suo sentimento profondo della vanità delle cose che pur appaiono importanti e in cui ci impegniamo con ogni energia. Io, quasi al contrario, sono sempre stato ossessionato dal valore e dalla continuità di quell'origine, ma sentendola erroneamente quasi mia e cercando di rivedervi i limiti per restaurarla, ma tanto da oscurarne la memoria e il carattere polifonico. Sta di fatto che quella microstoria non c'è. E infatti spesso coloro che oggi dicono: abbiamo sbagliato a cacciare quelli de il manifesto, avevano molte ragioni, non ricordano ciò che il manifesto diceva o suggeriva; altri lo sentono come parte della propria vita, ma trascurandone la specificità e riducendola al minimo comune denominatore tra i vari gruppi della nuova sinistra degli anni '70.

L'impegno che vorrei assumere, non da solo, con lui e in suo onore è perciò di lavorare da subito alla ricostruzione di quella storia, precisa nei fatti, serenamente veritiera, orgogliosa e anche autocritica. Potrebbe essere un contributo per far vivere più a lungo qualcosa di lui, o almeno di una parte di lui, di ciò che ha fatto, oltre il ricordo e l'affetto per la persona straordinaria o per la penna raffinata o per l'inflessibile coerenza. Di lui cioè come comunista inquieto, intransigente e problematico, superbo quanto disincantato anche su di sé.












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io 'n sò' nessuno rafgano Monday, May. 19, 2003 at 1:09 PM
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