Quando gli ‘immigrati’ siamo ‘noi’: voci dalla terra dei canguri
Riceviamo e pubblichiamo queste brevi note che ci giungono da un nostro simpatizzante che si trova da alcuni mesi in Australia. Lo facciamo oggi in quella che da alcuni anni è diventata la ‘giornata del migrante’. Per ribadire due cose semplici: ‘noi’ e gli ‘immigrati’ apparteniamo a quella stessa classe sociale che è costretta ad affittare il proprio tempo per ricavarne un salario; ovunque nel mondo ci si possa muovere il capitale ti mette sempre davanti alle sue contraddizioni, sofferenze, e sfruttamento. Più o meno palesi. Più o meno ‘umane’.
Anche quando siamo noi (‘fortunati’) gli immigrati, non dobbiamo mai scordarci dell’esistenza delle classi sociali.
Lo sto sperimentando sulla mia pelle in questa isola-continente che è l’Australia. Un posto dove il capitalismo non sta ancora facendo vedere i sintomi della sua putrescenza come nel centro dell’impero da cui provengo. Come tutte le colonie dell’imperialismo, anche l’Australia, ha cominciato la sua vera e propria accumulazione relativamente tardi rispetto ai territori d’origine degli invasori.
Scoperta per la prima volta da un olandese nel 1606, venne poi reclamata oltre un secolo dopo da un tenente di marina del Regno Unito, James Cook (1770). Il primo gennaio 1901 nasce il Commonwealth, o federazione d’Australia, come dominio all’interno dell’Impero britannico. L’Australia era ormai indipendente, anche se gli ultimi legami legali con il Regno Unito non furono recisi fino al 1986.
Da noi l’immigrato che arriva col barcone viene mandato a raccogliere i pomodori a due euro l’ora e vive nelle baracche; qua, invece, arrivando con l’aereo si può aspirare a lavorare al più in hospitality (bar, ristoranti, o simili). Oppure ti può andare ancora peggio e finisci a lavorare per Foodora o Deliveroo in bicicletta, a fare consegne, sempre per i soliti bar o ristoranti (di li non si scappa insomma). Trovare un lavoro da colletto bianco, da immigrato, sembra molto difficile. Gli altri ‘coetanei’ con cui ho parlato mi dicono che se non hai il titolo di studio australiano il meglio che puoi ottenere è diventare manager di un bar o di un ristorante. Questo lo sottolineo per evidenziare il fatto che, anche fra gli immigrati ci sono le classi. Certo, noi ‘europei’ abbiamo avuto la possibilità di studiare e abbiamo la famiglia a coprirci le spalle, loro invece (chi arriva con barche e gommoni dalle più disparate situazioni, sempre indotte dai vari imperialismi) questa ‘fortuna’ non ce l’hanno.
I salari sono ancora piuttosto soddisfacenti rispetto al costo della vita e, in un città come Sydney di ‘lavoro’ se ne trova. Io, ad esempio, l’ho trovato in un ristorante Indiano come bartender, soltanto per il turno della sera (17-22 circa). La paga di 23 $ l’ora più le mance mi permette di vivere dignitosamente (vedi art.36 della Costituzione più bella del mondo).
L’ultimo avverbio usato sta a significare che con 200 $ a settimana, si può trovare vicino al centro, un tassista Bengalese (originario del Bangladesh) che ti mette un separé in salotto e un letto dietro dove resta un briciolo di spazio. Altrimenti se si cerca una stanza singola, specialmente vicino al centro, i prezzi schizzano alle stelle. O meglio, alla portata dei colletti bianchi. Si torna sempre li, alle classi sociali.
Tutti gli altri miei colleghi Indiani lavorano per 150 $ a settimana, hanno una stanza molto lontana dal centro e ci mettono oltre un’ora di treno per andare/tornare da lavoro. Ennesima dimostrazione che anche qua si deve scegliere se avere tempo a disposizione o denaro in tasca. La maggior parte di loro manda una parte del loro salario alle famiglie, motivo per cui fanno doppio turno al ristorante, sia la mattina che la sera, arrivando a lavorare 12-13 ore al giorno. Da quanto ho capito, la loro paga oraria rispetto alla mia, è più bassa. Probabilmente perché fanno molte più ore di me e sono disposti, anche considerando il loro più scarso livello d’inglese, ad accettare una paga inferiore. Ognuno di loro è convinto che un giorno riuscirà a mettere su un “own business”. Dentro di me penso sempre ‘aspetta a cantare vittoria’, il tempo è galantuomo.
In ogni caso con le mance riesco a guadagnare circa 900$ a settimana, tolti i 200 $ di ‘casa’, qualcosina da parte si riesce a mettere.
Entro la fine del novembre prossimo, mese in cui sono arrivato, dovrò aver completato un lavoro di 88 giorni nelle fattorie (farm-work), o altri lavori utili allo sviluppo rurale del territorio (pesca, selvicoltura). Il datore di lavoro deve rilasciarti la certificazione valida affinché si possa rinnovare il Working Holiday Visa per il secondo anno.
Si sente spesso dire da chi ha già passato questa esperienza che, negli ultimi anni, la situazione sta prendendo una brutta piega. Alcuni pagano a cottimo, altri a bin (cassette), ma il problema non è tanto la quantità e la qualità della retribuzione (tende sempre a calare quando aumenta l’offerta di lavoro rispetto alla domanda) piuttosto il tempo di cui il singolo farmer ha bisogno della tua forza-lavoro. Tradotto in termini pratici può voler dire che quasi nessuno riesce a lavorare tutto il periodo richiesto dal governo con lo stesso farmer, con la conseguenza che si impiegano effettivamente più di tre mesi per finire il “percorso” ed ottenere il tanto agognato rinnovo del visto. L’ennesimo furto di tempo della società capitalista, anche se per il momento, ‘isola felice’ rispetto ai colleghi di classe nel centro dell’impero.
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