Nato morto... - Un commento a "Punk’s not"

Ho letto e riletto l’articolo “punk’s not” apparso su Machete e su altri siti. Avendo vissuto anch’io quel periodo l’ho trovato corretto e coerente. L’analisi su alcuni personaggi è spietata, sì, ma non dice nulla di errato nell’analisi e nei risultati. E’ vero che l’iperbole del periodo hardcore punk in Italia è stato tristemente ridotto a fenomeno per teenagers in preda a deliri ormonali tipici dell’adolescenza, così penso che chi ha vissuto con intensità gli anni ‘80 in Italia e ha letto ad esempio “Costretti a sanguinare” non si sia assolutamente riconosciuto in un romanzetto che narra, più che della storia del punk a Milano e in Italia, i fatti e le vicissitudini della vita privata di una persona che come molte altre ha attraversato un bel periodo della sua vita; ma in una situazione di passione profonda come quella che noi abbiamo vissuto chi vorrebbe farlo? Io personalmente no; per me l’hardcore punk in quel periodo, dove a 15-16 anni mi sono trovato, per mio volere, catapultato da una tranquilla realtà di provincia in mezzo a un branco di creste e di chiodi, ha rappresentato ben altro che qualcosa di banalizzabile in uno o più scritti assolutamente detestabili. Non sono mai stato punk, non ho mai avuto un chiodo, non ho mai avuto la cresta non ho mai fatto niente di particolarmente “trasgressivo”… Non mi serviva l’ennesima “divisa” per distinguermi dagli altri; ero un ragazzetto che usciva da anni di comportamenti dettati dall’appartenenza ad una famiglia della borghesia medio-alta, buono e bravo a scuola, molta attività sportiva e di vario tipo, lo studio di chitarra classica da un “facoltoso” professionista della musica aulica e membro probabilmente di qualche lobby massonica di provincia, vacanze al mare e in montagna con i genitori ecc. ecc. Il punk hardcore, l’incontro con i primi punk e l’anarchia mi ha cambiato le prospettive di vita e ho cominciato a farmi delle domande, per alcune ho trovato risposta, per alcune invece no… Ma fa lo stesso. Io mi sento un fortunato, lo ammetto, perché di domande me ne sto facendo ancora… Altri hanno smesso di farsele in vari modi; c’è chi non ha trovato risposte e ha preferito togliersi di torno (in tutti i sensi) e c’è invece chi ha deciso di farsi i soldi con le domande degli altri. Niente di nuovo sotto il sole. Quello che più mi aprì la mente furono i discorsi sull’autogestione della propria musica, l’antimilitarismo, l’antiautoritarismo, la mancanza di capi e capetti e la lontananza dalle logiche “normali” di diffusione anche e soprattutto da quelle che la prima ondata punk nel ‘76-‘77 portò. Anche perché, diciamocelo chiaro, nessun gruppo di quel periodo, nè all’estero nè in Italia, fece un discorso veramente coerente con quello che avrebbe potuto dire… I Pistols erano in realtà niente di più che un operazione commerciale, i Clash sarebbero poi diventati un gruppo “medio-progressista” (per dirla alla Fantozzi), i Buzzcocks e i mille altri gruppi non si sono mai posti il problema dell’autogestione e dell’autoproduzione della loro musica… In quel periodo alcuni produttori più furbi sfruttarono l’ondata e semplicemente l’hanno venduta; la gioventù era incazzata, bisognava dar loro qualcosa di diverso… Penso che l’affermazione che più calza a quella situazione è la frase di Timothy Leary, l’infame: ”bisogna vendere la roba nuova ai ragazzi…”, oppure quello che poi disse qualcuno verso la metà degli anni ’90: “teenage angst has paid off well”, e c’è chi c’è cascato. Per questo non ho dato molta importanza al punk, era certament eper me più interessante l’ondata incazzata di gruppi a fine anni ‘60, come ad esempio gli Stooges, gli MC5… Assolutamente imprevedibili, invendibili per la media di gruppi di musica “del consenso” per quel periodo.
Tornando a noi, fatte queste premesse, passiamo a capire che cosa successe qui da noi. Per tornare all’articolo “punk’s not” vengono citati i CCCP. Io penso di averli visti già malvolentieri circa nell’ ’82, e poi nell’ ‘85 ebbi la conferma che quello non era altro che il solito gruppo che per necessità s’attacca a situazioni di comodo; perché questa fu la mia prima impressione.
Può darmi fastidio? Assolutamente no, non erano “compagni” miei, nè di viaggio nè di lotta, li ho identificati subito e così li ho trattati; non li ritengo assolutamente in alcun modo rappresentativi del periodo punk in Italia come non ho dato particolare importanza nè a Philopat nè a Jumpy Velena nè a Gomma. Il bello di quel periodo è forse questo, che ognuno all’interno di quella realtà ha vissuto cose intensissime e differenti perché questa era la caratteristica di quel “movimento”. Può darmi fastidio che chi sventagliava la “autogestione delle proprie vite” ora sia una serena e pacificata “trama del domino del potere”? Assolutamente no… Non mi interessa. L’unica domanda che posso fare è :”che cosa ho fatto io?”. E non solo durante quel periodo, ma anche e soprattutto dopo. Certamente questi personaggi si sono esposti di più, ma rappresentano un area, quella delle “controculture”, dell’ “alternativo a tutti i costi” che non mi appartengono. Purtroppo per me la cultura, la storia che ho vissuto è questa, e non la vedo come alternativa a niente… E’ questa, è la mia. Non voglio mettere la bandierina su alcun periodo e non vivo come mie le esperienze di altri. A ben guardare, era evidente che alcuni personaggi finissero in realtà “mediaticamente” più esposte, e infatti vengono citati, recensiti, analizzati, quasi vivisezionati, dalle aree più vicine alla disobbedienza che ad aree antiautoritarie ed autogestite. Il perché è presto detto: passata la buriana degli anni‘80 chi li ha più visti? Le case occupate, i concerti, i gruppi hardcore punk, i punk, l’autogestione, l’autoproduzione, l’anarchia, ci sono stati anche dopo ma qualcuno ha ben pensato di levarsi di torno. Ora, il problema principale (per chi lo vuole vivere come un problema) è che questi nomi girino ancora in ambienti autogestiti; questo può andare bene, anche a me a dato fastidio, ad esempio, vedere al Boccaccio la presentazione di American Hardcore, edito della Shake, e “conferenza sul punk italiano anni ‘80”, con organizzato un concerto hardcore punk di contorno, non mi è piaciuto e non ci sono andato. Avrei potuto presentarmi, rovinare la serata e la festa a qualcuno, perché di quello e solo di quello si sarebbe trattato, di rovinare una festa. Il punk in Italia non è di proprietà della Shake o di Marco Philopat, di Mungo, di altri che hanno scritto libri (e anche raccontato fandonie, intendiamoci) o di chi ora avanza pretese di purezza ideologica e ideale, non è di proprietà di nessuno ma solo chi l’ha vissuto profondamente e con sincerità e passione può comprenderne la mutazione.
L’aspetto“amarcord” di chi rientra nei posti liberati dopo 20 anni solo perchè ora dopo la pubblicazione di alcune compilation e alcune ristampe “va di moda” il punk hardcore italiano anni ’80, non mi piace, lo ritengo cosa da vecchi rincoglioniti; niente di diverso poi dal comportamento che avevano gli ex sessantottini con noi nei primi anni ‘80, quindi… La storia si ripete.
Non mi piace però alla pari chi sta sempre seduto in seconda fila e sputa sentenze sul “modus operandi” delle nuove situazioni del punk hardcore, sulle ritornate assemblee sull’autogestione/autoproduzione, che le guarda (da lontano) con sufficienza come chi queste cose le ha già fatte e anche molto meglio. E’ vero, l’iniziale spinta propulsiva del punk hardcore è morta e sepolta, ma per fortuna! Siamo nel 2008, stiamo parlando di 28 anni fa, se le spinte, le motivazioni fossero ancora li ferme ci sarebbe puzza di stantio… E a questo punto la cosa migliore pare essere la sola scelta del tipo di fetore… O puzza di marcio o puzza di morto.

un hardcore punk, ancora anarchico…

Gio, 08/05/2008 – 23:17
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