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studenti di scienze politiche contro la guerra
by scienze politiche contro la guerra Friday, Mar. 28, 2003 at 1:59 PM mail: studentiscienzepolitiche@hotmail.com

documento degli studenti

NO ALLA GUERRA


E’ guerra. George W. Bush taglia i ponti con la diplomazia internazionale e dà il via ai bombardamenti su Baghdad. Le tv di tutto il mondo mostrano l’immagine del grande presidente, fiducioso e risoluto, pronto a partire per la sua nuova crociata. Missione: salvare il popolo iracheno e liberarlo dal giogo di una dittatura spietata e sanguinaria. Una prospettiva non solo auspicabile, ma pienamente condivisa dalla totalità della società civile: in oltre 20 anni di regime, Saddam Hussein ha oppresso il suo popolo relegandolo in condizioni di miseria e si è macchiato di orrendi crimini contro l’umanità, crimini che di certo rappresentano una ferita mai rimarginata per intere popolazioni, come quella curda, fisicamente decimata dal Rais di Baghdad. E’ dunque obbiettivo comune, a maggior ragione per chi avversa questa guerra (cioè la quasi totalità della società civile, apostrofata quasi con aria di commiserazione e derisione come “I Pacifisti”), la liberazione del popolo iracheno da un regime che ne comprime i diritti e le libertà. Di contro però l’immagine di George-crociato-missionario fa acqua da tutte le parti. Prima di tutto convince molto poco l’idea stessa di una guerra portatrice di libertà, progresso e democrazia…ma convince ancora meno la fonte di tale affermazione! Le parole PACE e DEMOCRAZIA hanno un suono davvero strano sulla bocca di un presidente la cui campagna elettorale è stata sostenuta e finanziata dalle maggiori multinazionali nel settore delle armi, il presidente di un Paese che sempre in nome dei “più alti valori democratici” non ha esitato a sostenere i regimi più repressivi (Pinochet in Cile, i talebani in Afghanistan, lo stesso Saddam) purché questi si dimostrassero collaborativi ed assecondassero i suoi interessi economico-strategici, per poi avversarli con forza (inneggiando ai valori della libertà e della democrazia) quando questi non erano più utili. Spingendosi appena dietro la propaganda, non appare difficile individuare quelle che più verosimilmente possono essere le ragioni dell’attacco all’Iraq. Questo Paese è infatti al secondo posto della classifica dei possessori di petrolio, subito alle spalle dell’Arabia Saudita, ma solo al dodicesimo tra i Paesi esportatori, dunque con immense risorse la cui gestione fa sicuramente gola. Ciò è confermato dal fatto che addirittura, mentre si è ancora nelle fasi iniziali del conflitto, si è già provveduto ad assegnare gli appalti per la ricostruzione in Iraq, guarda caso aggiudicati da grandi compagnie statunitensi. Altro fattore da non trascurare è l’enorme importanza strategica che la zona riveste per il controllo dell’intera area mediorientale, controllo che gli Stati Uniti mirano evidentemente ad ottenere pianificando una serie di guerre “a catena” in tutta l’area e l’indebolimento delle entità statali con la creazione di una miriade di micro-Stati più facilmente controllabili. Ovviamente nessuna menzione delle sorti del popolo, della gente comune, che probabilmente sarà semplicemente “trasferita” da un padrone all’altro, con l’aggravante di subire il giogo di un controllo straniero. Ma se ancora tutte queste motivazioni non fossero sufficienti a schierarsi con decisione contro questa guerra, anche i meno convinti possono indignarsi per il comportamento prepotente ed antidemocratico degli Stati Uniti nelle fasi premiali del conflitto. Contravvenendo a più di una norma del Diritto Internazionale e svuotando del tutto di significato le organizzazioni internazionali che essi stessi nel secondo dopoguerra avevano contribuito a creare per evitare il ripetersi degli orrori di quel conflitto, hanno portato avanti un’azione praticamente unilaterale, interrompendo bruscamente il lavoro pazientemente portato avanti dalle Nazioni Unite nei mesi precedenti. Questo atto di forza ha così determinato una situazione di grave crisi internazionale e un irrigidimento dei rapporti diplomatici, oltre a rappresentare una legittimazione per azioni di forza unilaterali da parte di qualsiasi altro paese che in futuro possieda i mezzi economici e la posizione di potere per attuarle. E’ dunque legittima la forte preoccupazione per il ruolo che organizzazioni come l’O.N.U. potranno rivestire anche nelle fasi successive al conflitto, dal momento che tra l’altro il presidente Bush ha esplicitamente dichiarato di non voler riservare alle Nazioni Unite alcun ruolo nel processo di democratizzazione e ricostruzione dell’Iraq post Saddam. Date queste preoccupanti premesse, non sarebbe utile interrogarsi sull’effettiva validità di questo modello di società democratica da esportare? E l’interrogativo si fa ancora più inquietante se si osserva il sempre maggiore scollamento tra l’opinione pubblica e le decisioni dei centri di potere. Ma la sovranità popolare non dovrebbe essere l’elemento cardine di ogni democrazia? E ancora: può una società che vive una crisi profonda dei propri principi fondanti porsi addirittura come modello di evoluzione per le giovani democrazie? O dobbiamo pensare che in fondo sia proprio questa la classe politica che meglio interpreta gli orientamenti della società civile? La risposta per noi è chiara ed è una sola:NO





STUDENTI DI SCIENZE POLITICHE CONTRO LA GUERRA

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