Fuori i profitti dall’acqua | Roma 3 febbraio

Anche a Roma parte la campagna di Obbedienza Civile

3 Febbraio ore 10.00 Piazzale Ostiense

Togliere il profitto per rispettare la democrazia!

Con i referendum del giugno scorso abbiamo cancellato il profitto dalla gestione dell’acqua, ma le istituzioni e i gestori non stanno rispettando la volonta’ popolare.
Il referendum ha sancito un principio chiaro: nella gestione dell’acqua non ci devono essere profitti! E la risposta dei cittadini (95,8% a favore della cancellazione del profitto) non lascia alcun dubbio sull’opinione, praticamente unanime, del popolo italiano.
Oggi, a distanza di 6 mesi, in tutto il territorio nazionale, nessun gestore ha applicato la normativa, in vigore dal 21 luglio 2011, diminuendo le tariffe del servizio idrico. In altre parole tutti i gestori del servizio idrico italiano hanno finora ignorato con pretestuose argomentazioni l’esito referendario.

Questo non può essere accettato!

Visto quindi che le istituzioni non stanno rispettando la volontà popolare, lo facciamo noi eliminando la “remunerazione del capitale investito” che, ricordiamo, è pari al 7% del capitale investito ma incide sulle nostre bollette per una percentuale che oscilla, a seconda del gestore, fra il 10% e il 20%.

Per questo sta partendo in tutta Italia la campagna di obbedienza civile: ovvero il rispetto della volontà popolare attraverso l’eliminazione del profitto dalle bollette.

La campagna di “obbedienza civile” consiste nel reclamare al gestore il rimborso delle quote di profitto già pagate dal 21 luglio 2011 in poi ed eliminare la medesima quota (la “remunerazione del capitale investito”) nei pagamenti delle prossime bollette.

Il prossimo 3 febbraio a Roma ci ritroveremo davanti ad ACEA a partire dalle ore 10 per lanciare ufficialmente la campagna anche nella nostra città e per consegnare i primi reclami firmati dai cittadini.

Già numerosi sportelli sono stati aperti nei municipi e altri apriranno nelle prossime settimane, perchè lo scopo principale della campagna di “obbedienza civile” è quello di ottenere l’applicazione del risultato referendario attraverso la mobilitazione attiva di centinaia di migliaia di cittadini: ci proponiamo di attivare una forma diretta di democrazia dal basso, auto-organizzata, consapevole e indisponibile a piegare la testa ai diktat dei poteri forti di turno.
La campagna è gia partita in tutta Italia!

Perciò chiediamo a tutti i cittadini utenti del servizio idrico, alle associazioni, ai movimenti, ai comitati presenti sul territorio di Roma e del Lazio di aderire alla campagna di “obbedienza civile” e di attivarsi ancora una volta in difesa dell’acqua e della democrazia.

Unisciti anche tu!


Fuori l’acqua dal mercato fuori i profitti dall’acqua

Roma 3 febbraio ore 10 Piazzale Ostiense (Metro B Piramide)

La crisi è la nostra università. Manifesto delle lotte transnazionali contro l’università finanziarizzata.

Noi, il Knowledge Liberation Front, siamo la rete transazionale delle lotte universitarie. Il punto di partenza della nostra esperienza è il meeting tenutosi a Parigi dall’11 al 13 febbraio 2011, “Per una nuova Europa: le lotte universitarie contro la crisi”. Siamo studentesse e studenti, lavoratrici e lavoratori precari di tutta Europa, del Nord Africa, del Nord America e dell’America Latina, dell’Asia.
Lo spazio della nostra azione politica è transnazionale, perché siamo uniti nelle nostre lotte comuni, e contro i nostri nemici comuni: le politiche di austerity e i tagli, l’aziendalizzazione e la finanziarizzazione dell’università, il sistema del debito, la precarietà. Stiamo lottando per una formazione gratuita e autonoma, per la libera circolazione dei saperi e delle persone, per la riappropriazione della ricchezza sociale e il welfare del comune.
Dopo il meeting di Parigi, abbiamo organizzato e partecipato alle giornate di azione contro le banche, i tagli e per il cambiamento globale, abbiamo preso parte alla costruzione dell’Hub Meeting di Barcellona e all’incontro transnazionale “Réseau de Luttes” in Tunisia. Abbiamo una lista per la discussione collettiva, il sito e il giornale Kafca.
Ma soprattutto, siamo tutti impegnati nel nostro principale obiettivo: la costruzione di un nuovo mondo e di una nuova università. Perché noi non vogliamo difendere lo status quo. Non abbiamo niente da perdere. Noi siamo il movimento globale del sapere vivo, e ci stiamo riappropriando del nostro presente e del nostro futuro!

Uniamoci nella lotta! Uniamoci nel Knolwdge Liberation Front!

La crisi è la nostra università!

Manifesto delle lotte transnazionali contro l’università (pubblica-privata) finanziarizzata.
Tesi #1: Il contrario di austerity non è essere contro la crisi, ma fare come in Tunisia.
Tesi #2: Il contrario di globalizzazione capitalistica non è Stato-nazione, ma globalizzazione delle lotte.
Tesi #3: Il contrario di debito non sono i sacrifici, ma diritto all’insolvenza per studenti e precari.
Tesi #4: Il contrario di selezione non è inclusione, ma critica dei saperi e riappropriazione della ricchezza comune.
Tesi #5: Il contrario di tagli non sono i soldi ai poteri accademici, ma fondi per l’autoformazione e l’autorganizzazione della produzione dei saperi.
Tesi #6: Il contrario di precarizzazione non è il lavoro salariato, ma reddito e nuovo welfare del comune.
Tesi #7: Il contrario della corruzione non è arrestare i corrotti, ma indignazione e insorgenza costituente.
Tesi #8: L’opposto della Banca centrale europea non è il sistema della rappresentanza, ma l’organizzazione a rete e l’autonomia del sapere vivo.
Tesi #9: Il contrario di università-azienda non è università pubblica/statale, ma università del comune.
Tesi #10: Il contrario della dequalificazione del sapere non è il mito della sua neutralità, ma il Knowledge Liberation Front.
Tesi #11: Non abbiamo nulla da difendere, un intero mondo comune da costruire

link: http://www.knowledgeliberationfront.org/about-klf.html

Sugli arresti No Tav. Liberi tutti, liberi subito!

Comunicato del Laboratorio Acrobax

Ancora una volta in questo Paese in crisi economica, sociale e ambientale da anni, la repressione si scaglia, e con accuse gravissime, contro chi lotta in difesa dei territori, dei beni comuni, di chi sogna e si impegna per un mondo migliore per tutti!

Lo scorso 3 luglio eravamo in decine di migliaia in Valle per sostenere il movimento di resistenza popolare contro il TAV.

Una lotta decennale dalla quale abbiamo imparato che è possibile e necessario praticare e costruire resistenza e sovranità popolare dal basso, ribellandosi agli sporchi interessi delle lobby e del neoliberismo.

Quello che fin’ora ha portato il progetto del TAV è stata un’occupazione militare, un continuo sopruso, una grande opera imposta, dagli interessi economici e politici di questo Paese, ad una popolazione e a una montagna che non la vuole!

La nostra totale solidarietà va a tutto il Movimento NoTav , a tutti gli spazi che sono stati perquisiti e a tutti i compagni che sono stati privati della loro libertà personale!

Fino alla scorsa settimana anche il nostro compagno Giorgione, arrestato durante le mobilitazioni del 24 agosto scorso in Val di Susa, è stato tenuto dallo stesso GIP agli arresti domiciliari e ora è sottoposto all’obbligo di dimora nella provincia di Roma.

Mobilitiamoci in tutta Italia per l’immediata scarcerazione di tutti! La Valle non si arresta!

Non un passo indietro

Sempre NOTAV

Liberi tutti, libere tutte.

L.O.A. Acrobax Project

Links

notav.info

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Di cosa scriviamo quando scriviamo di crisi. Breve saggio.

di lanfranco caminiti

* Nella Compagnia degli uomini, Edward Bond, drammaturgo inglese, mette in scena il conflitto tra padre e figlio nella cornice di uno spietato gioco di finanza. Il figlio, disprezzato dal padre contro cui trama e complotta, viene aggirato e schiacciato dagli intrighi degli altri personaggi e finisce per impiccarsi. Colpisce – il testo è del 1990 – il riverbero nella storia reale di Bernard Madoff, l’uomo della più clamorosa e colossale truffa americana ai danni di investitori che si erano fidati di lui, esplosa nel dicembre del 2008 con il suo arresto, inchiodato dalle accuse del figlio, Mark, che, tormentato, ha finito proprio per impiccarsi. I giochi e gli intrighi del denaro sono altamente drammaturgici, tragici e grotteschi nello stesso tempo. Non è una scoperta del teatro contemporaneo: in fin dei conti, cos’altro è Il mercante di Venezia di Shakespeare se non la riflessione tragica e grottesca su un’obbligazione, sulla riscossione di un’assicurazione su un credito, su – diremmo oggi – un Cds? C’è un momento in cui le navi di Antonio sono date per disperse forse naufragate, la sua ricchezza è sfumata, lui è in bancarotta: la libbra di carne richiesta da Shylock non è come uno swap?

 

* Recentemente la rete televisiva americana HBO ha prodotto Too big to fail, un film per i circuiti televisivi internazionali con un cast stellare: ci sono William Hurt, James Woods, Bill Pullman, Paul Giamatti, Matthew Modine e tanti altri, che interpretano Henry Paulson (allora, Segretario del Tesoro), Ben Bernanke (capo, allora e oggi, della Federal Reserve), Tim Geithner (allora, presidente della Fed di New York, oggi Segretario del Tesoro), Warren Buffett, e vari membri del Congresso. Il film ricostruisce nel dettaglio i retroscena del fallimento della Lehman Brothers dopo il salvataggio della banca Bear Sterns, di Fannie Mae e Freddie Mac, della Aig. Il crollo della Lehman Brothers è considerato ormai universalmente il topos della crisi finanziaria del 2007-08. Senza cedere a alcun manierismo, nel film quel momento cruciale è ricostruito nel maggior dettaglio possibile, per quanto oggi ci è noto da audizioni, inchieste giornalistiche, memoir: il conflitto tra Tesoro americano e privati, le contraddizioni sul piano normativo, le pressioni debite e indebite, l’azzardo morale, il bazooka del quantitative easing, cioè dell’immissione di liquidità senza limite, la dura divergenza con gli inglesi e la sfiducia dei fondi sovrani (i coreani, nel caso). I dialoghi sono fulminanti: uno dei personaggi, il capo di un’importante banca privata di investimenti, precettato, come gli altri, per essere coinvolto nel tentativo di salvataggio della Lehman, viene tratteggiato da Paulson così: «Quando eravamo assieme in Goldman Sachs, ogni tanto lo si sentiva gridare nei corridoi: “C’è del sangue oggi nell’acqua, andiamo a azzannare”. Uno squalo». La società, il mondo degli uomini e delle donne, rimane sullo sfondo, evocato ma mai visibile. Eppure, la certezza che qualsiasi decisione, qualsiasi mossa accada dentro quel mondo chiuso, quell’inner circle fatto di incarichi pubblici che sono stati Ceo di grandi fondi privati e viceversa, avrà effetti enormi sulla vita degli uomini comuni è chiarissima. Davvero, una narrazione notevole.

Anche Margin call, con uno strepitoso Kevin Spacey e Paul Bettany, Jeremy Irons, Stanley Tucci, tra gli altri, è un film sulla crisi finanziaria. Margin call, in finanza, è il margine di garanzia richiesto da un broker (un dealer, una banca) a un investitore per operare sul mercato dei futures o delle opzioni. Dall’andamento del mercato il broker accredita o addebita i guadagni o le perdite giornaliere su un conto. Ma se il conto su cui opera il broker scende sotto una soglia minima, il broker farà un margin call, cioè un ordine perentorio di ricostituzione del margine originale di un future, pena la chiusura del contratto. Succede, spesso, che il broker operi in perdita coi soldi dei clienti. Ed è qui che succedono i pasticci. Il film inizia con il licenziamento di uno dei capi servizio di una grossa banca di credito finanziario. Prima di andare via l’uomo lascerà nelle mani di un giovane analista una chiavetta usb contenente dei dati allarmanti. A causa di un folto pacchetto di azioni virtuali e tossiche la banca è destinata a fallire nel giro di 24 ore. Da quel momento il film si svolge nel corso di una sola notte in cui viene organizzata una riunione d’urgenza per cercare di trovare una soluzione al problema. Si scontrano le vite e le idee di persone completamente diverse tra loro. Ci sarà chi si preoccuperà solo del proprio tornaconto, chi della propria dignità professionale e chi del futuro dei colleghi destinati a perdere il lavoro. Una materia ostica, difficile, specialistica, diventa un dramma straordinario. Magnificamente scritto. Mi è venuto in mente il David Mamet di Americani [Glengarry Glen Ross, 1992], sulla prima grande crisi immobiliare americana e le trasformazioni del mercato e dei venditori. L’ultima grande performance di Jack Lemmon, Shelley «The Machine» Levene. Con la sua frase memorabile contro il nuovo dirigente che vuole rendimenti più alti a qualunque costo, pronto a far firmare contratti di mutui anche ai morti, che aizza i venditori l’uno contro l’altro, facendo le pagelle e mettendo in palio una Cadillac: «In questo mondo non c’è più posto per gli uomini. Questo non è un mondo per gente come noi. È un mondo di passacarte, di burocrati, di mezzemaniche. Non fa per noi. Non c’è più gusto. Siamo alla fine. Ecco cosa siamo, noi siamo una razza in estinzione!» Beh, dieci anni dopo, i mutui erano ormai solo un derivato finanziario e i subprime non li facevano firmare ai morti, ma poco ci mancava.

Il capostipite di questi film recenti sulla finanza è Wall Street di Oliver Stone, del 1987, con al centro la figura di Gordon Gekko, spietato giocatore della finanza. Peraltro, dopo il crollo e il carcere, Gekko è tornato, con Wall Street. Il denaro non dorme mai, del 2010, dove Michael Douglas fa prima a pezzi il giovane broker Jacob che si è intanto fidanzato con sua figlia, che lo odia imputandogli il suicidio del fratello più giovane e fragile, poi riconquista il suo tesoro nascosto e mentre il mondo finanziario crolla, con la crisi dei subprime, riprende a guadagnare alla grande, proprio perché aveva intuito quello che stava per accadere. Alla fine però, un certo sentimento prevale. L’avidità – la greed, osannata per anni dalla politica americana prima con Reagan e ora con più prudenza dal partito repubblicano e con misticismo dal Tea party – si arrende davanti a un’ecografia, il bimbo che sta per nascere ai due giovani. Quanto era cinico e convincente il primo film, è debole e speranzoso il secondo.

 

* Il mondo anglosassone ha da tempo messo in scena il mondo finanziario, ne ha fatto drammaturgia, e negli Stati uniti – come potrebbe essere altrimenti, visto che buona parte dell’immaginario occidentale si costruisce là – sono stati lesti nel trasformare la crisi dei subprime e la crisi finanziaria in sceneggiature. Se per un qualsiasi spettatore è difficile riconoscersi nei personaggi, a meno di non essere un broker di Wall Street o il gestore di un hedge fund, queste sceneggiature hanno svolto una funzione didascalica, utile e nient’affatto catartica, molto più che un docufilm di Michael Moore o il pur bello The Corporation [entrambi canadesi, come la rivista «Adbusters» che ha inventato lo slogan Occupy Wall Street]. Perché i crolli della Borsa, i fallimenti dei fondi pensione, il gioco degli swap e di una infinita varietà di derivati fino a diventare incomprensibile, fino a perderne il conto e la ragione, vengono ricondotti a quello che effettivamente anche sono: azioni umane, volontà soggettive, passioni, desideri, lotte di potere, frustrazioni. La crisi, cioè, si capisce narrativamente come non succede altrimenti.

Il circuito finanziario era già entrato di recente nel cinema con un personaggio di La 25a ora di Spike Lee: il broker, amico del pusher (Edward Norton) che ha ventiquattr’ore di tempo per salutare il suo mondo prima di andare in prigione, che ha giocato allo scoperto milioni di dollari di un fondo pensione e, mentre il suo capo gli intima di richiamare gli ordini e coprirsi, continua imperterrito e ormai fuori da ogni regola la sua scommessa che si fonda su un solo dato in arrivo su un monitor, il numero trimestrale dei disoccupati. È agghiacciante: il mondo del lavoro, uomini e donne, ridotto a un dato sul monitor per inventare denaro. Il film è del 2002, ma il romanzo di David Benioff, da cui il film è tratto, era stato scritto prima dell’undici settembre, mentre Lee decide di proiettare sul racconto il fascio della luce della tragedia proiettato verso il cielo. È una delle scene più angoscianti: gli amici, raccolti in un appartamento che affaccia su Ground Zero, guardano l’enorme voragine dove le ruspe lavorano senza sosta sotto i riflettori. Questa era l’America di quei giorni: una voragine, uno smarrimento. E un vitalismo senza regole, senza prospettive, senza senso, avvitato su se stesso: fermo sul posto. Una simile voragine, un simile smarrimento si riaprì con la crisi del 2007-08.

 

* Negli Stati uniti la crisi finanziaria del 2007-08 è stata un’esperienza di vita personale – la crisi dei subprime ha significato la perdita della casa per centinaia di migliaia di mutuatari, la crisi della Lehman Brothers ha comportato la perdita del lavoro per migliaia di addetti che uscivano con gli scatoloni degli effetti personali dai grattacieli luccicanti –, mentre in Europa, in Italia, è rimasto un episodio lontano, impersonale. Non che in Europa non sia arrivata l’onda di quella crisi, ma è rimasta confinata in un ambito inattingibile, quando non incomprensibile alla vita degli europei. Inenarrabile. Le banche, i governi, i tecnici se ne interessavano e vi erano coinvolti e preoccupati. Loro sapevano, non proprio tutto, ma molto di più degli altri, della gente comune. La maggior parte degli europei, degli italiani, ne era informata, ma non ne faceva immediata esperienza. E senza esperienza, non c’era narrazione.

Si conferma e si smentisce cioè nello stesso tempo uno dei concetti-cardine di Walter Benjamin espressi ne Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, dove, per affermare che la narrazione volge ormai al tramonto, dato che le «quotazioni dell’esperienza sono crollate», scrive: «Mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione». Come sempre, un lampo di luce attraversa le frasi di Benjamin: «le quotazioni dell’esperienza» è un’espressione straordinaria, sedimentata di significato, un accostamento linguistico – economia e narrazione – inusitato, comprensibile ricordando quel drammatico rivolgimento che fu l’inflazione fuori da ogni controllo che portò al crollo della repubblica di Weimar e poi all’avvento del nazionalsocialismo. Ogni esperienza precedente, ogni storia dell’inflazione era assolutamente inconsistente e inutile alla luce di quella catastrofe che conduceva all’afasia o all’urlo. La crisi economica tedesca degli anni Venti fu un’esperienza sociale devastante: a dicembre del 1923 un chilo di pane costava 399 miliardi di marchi, e gli operai venivano pagati giornalmente e correvano al mercato a comprare gli alimenti perché il giorno dopo la loro moneta non sarebbe valsa quasi nulla. In Germania è conficcata nell’immaginario sociale, l’inflazione e il debito pubblico sono come una Geenna, e alla luce di questo dato sono comprensibili certi timori della leadership tedesca. Benjamin ribadisce e affina nel Narratore [che è del 1936, a nazismo ormai affermato] la propria idea di narrazione che aveva già presentato nell’introduzione a quel capolavoro assoluto che è Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin [che è del 1929: Franz Biberkopf, il personaggio centrale, a un certo punto si mette a diffondere i fogli nazionalsocialisti di propaganda senza minimamente crederci] dove la devastazione sociale diventava sfigurazione dei tratti umani e psicologici dei personaggi, incapaci ormai di capire e gestire il proprio destino, gettati nel mondo, sbattuti e aggrappati a uno spazio che cambiava continuamente e era sempre lo stesso, la piazza. Alexanderplatz è il luogo in cui si stanno realizzando trasformazioni sconvolgenti, scavatrici e battipali lavorano senza tregua, la terra trema sotto i loro colpi, è il luogo in cui più che altrove, le viscere della metropoli, i cortili interni hanno mostrato le loro voragini. È il Ground Zero della Berlino anni Venti. In un vitalismo avvitato su se stesso: fermo sul posto. Nel romanzo di Döblin non è difficile leggere in filigrana il debito teorico – non so se reale, consapevole o casuale: ci sono momenti in cui i concetti volano nell’aria come farfalle monarca in migrazione, avanti e indietro, e si lasciano ammirare – verso Georg Simmel, primo vero filosofo del denaro come unico collante sociale, e della metropoli. Proprio quel romanzo, assolutamente sperimentale e innovativo nella forma e nel linguaggio, così zeppo di esperienza umana, marginale e assoluta nello stesso tempo, mostrava la crisi della narrazione, che era per Benjamin l’esperienza comunitaria e perciò politica dell’uomo.

 

* Gli americani hanno reso narrativa la crisi finanziaria attraverso il cinema. L’hanno resa raccontabile. Va detto che già la letteratura se ne era interessata, ne aveva scritto le avvisaglie: Don DeLillo, nel 2003, pubblicò Cosmopolis, un ambizioso romanzo che racconta ventiquattr’ore [è strana questa ricorrenza di un tempo fissato a una sola giornata, e ben più che a un’influenza ormai spensierata di Joyce fa credere che dipenda dalla rapidità e caducità della vita dei movimenti della finanza, overnight] di Eric Parker, un ventottenne multimiliardario gestore di investimenti che attraversa la città – e i suoi ingorghi, qui per una visita presidenziale, lì per il funerale di un rapper, là per un riot – su una limousine superaccessoriata ma non per questo meno fragile e in balia degli eventi. Nel corso di queste ventiquattr’ore Parker perderà una somma incredibile di denaro scommettendo contro il rialzo dello yen, firmando la sua rovina, che è finanziaria e umana. Ma il cinema, e ancora di più il cinema per le reti televisive, è molto più popolare della buona letteratura. Così, gli americani hanno potuto capire le scelte – giuste o sbagliate, giuste e sbagliate – degli uomini che stanno dietro i meccanismi del potere distante, che stanno dentro quei meccanismi lontani. Ciò che è distante è inenarrabile, non riusciamo a attingerlo. La narrazione ha permesso loro di comunicarsi l’esperienza. È difficile sottrarsi alla suggestione che proprio questa narratività, cioè la capacità di raccontare l’esperienza, di condividerla, si sia in realtà riflessa nel movimento di Occupy Wall Street. Il racconto della crisi finanziaria era già comunità linguistica e si è trattato di dare la forma di una comunità politica. Occupy Wall Street è contemporaneamente un movimento di narratori e di lettori di quello straordinario dramma che è la crisi finanziaria. Benjamin ne sarebbe rimasto stupito. Chiunque veda un filmato su youtube di come funziona il mic check, quel passaggio di parola da voce in voce, di una frase dell’oratore che rimbalza amplificata, drammatizzata, a Zuccotti Park, al Lincoln Center, ovunque, non può che pensare a una performance teatrale all’aperto, in cui attori e spettatori partecipano insieme all’evento. È commovente.

In un testo su «Die Zeit», La fine del capitalismo, Wolfgang Uchatius scrive: «Possiamo immaginare una rappresentazione teatrale all’aperto. C’è un’opera che va in scena dal settembre del 2008, quando la banca d’investimento statunitense Lehman Brothers è fallita. S’intitola Crisi finanziaria». Ecco, Uchatius, europeo, parla di una rappresentazione teatrale e di un’opera come metafora. Negli Stati uniti, invece, accade proprio questo.

 

* Noi europei, noi italiani, non abbiamo avuto una narrazione della crisi finanziaria. Forse sta qui uno dei motivi per cui un movimento come quello di Occupy Wall Street rimane inconcepibile. Noi europei, noi italiani, non abbiamo avuto esperienza della crisi finanziaria, e senza esperienza non c’è narrazione. La crisi finanziaria è rimasta confinata tra i tecnici, nell’inner circle, gente che va e viene tra incarichi pubblici e consigli di amministrazione privati di banche o fondi di investimento. L’introduzione di termini tecnici, a volte paradossale, a volte grottesca, come quella dello spread, nel linguaggio giornalistico prima e nella chiacchiera pubblica dopo, non ha modificato questa realtà, anzi l’ha resa ancora più impermeabile, più distante. Lo spread non comunica nulla, se non un dato che sembra oggettivo e bizzarro come il tempo: accanto alle informazioni meteo, le televisioni e i quotidiani vanno introducendo le informazioni spread. Lo spread non appartiene alla nostra esperienza umana quotidiana, a meno di non essere uno che tutti i giorni interviene sul mercato secondario dei titoli. La continua reiterazione dei movimenti dello spread ha finito per uccidere qualsiasi narrazione possibile. Forse, è proprio questo il punto: l’informazione, ossessiva, espropria la narrazione. Siamo inzeppati di analisi, grafici, ragionamenti, statistiche e sequenze, ma piuttosto di facilitarci nel comunicare qualcosa, una qualsiasi esperienza, questa mole di dati diventa disumana, un paesaggio di macerie, una voragine. Non ci sono eroi, nello spread, non ci sono codardi, non ci sono passioni, amori, tradimenti. Lo spread non potrà mai essere un personaggio. E senza personaggi non ci sono storie. Penso alla più recente prosa di Eugenio Scalfari [repubblica.it del 16 gennaio 2012], tipo: «Il Tesoro tuttavia, come la stessa Bce ha suggerito e dal canto nostro abbiamo raccomandato, dovrebbe aumentare il numero dei titoli in scadenza a breve durata, che il mercato vede con favore. Dovrebbe altresì azzerare il fabbisogno con un’operazione che rientra agevolmente nelle sue attuali capacità». Per chi scrive Scalfari? Chi è il lettore di Scalfari? Monti, Draghi, Vittorio Grilli? L’inner circle? Davvero esiste una narrazione comune, sociale – si può essere insieme narratori e lettori – che passa attraverso la differenza che andrebbe sollecitata tra le emissioni e i rendimenti dei titoli a breve, media e lunga scadenza?

Eppure, gli uomini comuni dell’Europa, dell’Italia stanno facendo esperienza della crisi.

 

* È proprio così? In realtà, quello di cui noi stiamo facendo esperienza non è la crisi finanziaria, ma delle misure varate dai governi europei contro la crisi. In Romania, ieri l’altro, a Bucarest, a Cluj, a Iasi a Targu-Mures, ci sono state manifestazioni di piazza e scontri durissimi con la polizia. La Romania, per rientrare nei livelli di deficit concordati con il Fmi e l’Unione europea, ha dovuto fare i tagli più duri dell’intera Unione europea. Il 25 percento in meno negli stipendi per i dipendenti pubblici, e tagli consistenti alle pensioni. Oggi un pensionato romeno con 37 anni di lavoro prende in media 160 euro al mese. Pur con tutte le debite proporzioni con il costo della vita, sembrano proprio pochini. In questo senso, anche la Grecia è emblematica. La protesta sociale – quella che gli analisti dei rating definiscono «reform fatigue» e a cui probabilmente assegnano un punteggio e di cui disegnano un grafico – si è intensificata e è lievitata a partire dalle misure imposte dall’Europa al premier Papandreou prima e ora a Papademos per uscire dalla crisi. Tagli agli stipendi per i dipendenti pubblici, e tagli consistenti alle pensioni. Come in Romania. Petros Markaris, lo scrittore greco inventore del commissario Charitos, ci va scrivendo una trilogia, sugli effetti di queste misure. Markaris ha deciso di raccontare le crescenti difficoltà sociali e individuali di questo periodo greco attraverso la forma del “giallo”, che, a ben pensarci, sembra la forma attuale del romanzo europeo. Ma trovo anche interessante che Yanis Varoufakis, del Dipartimento di Economia dell’Università di Atene, abbia scelto per spiegare la globalizzazione una figura mitica della cultura ellenica e fondativa dell’occidente [lo si capisce senza bisogno di scomodare Karl Jung o James Hillman], The Global Minotaur. Come anche che abbia fatto riferimento a Esopo e alla favola delle formiche e delle cicale, per parlare di debiti pubblici e avanzare una Modest proposal for overcoming the euro crisis. Il titolo Modest proposal è un evidente richiamo a Jonathan Swift, e al suo libro del 1729 in cui proponeva, per combattere la sovrappopolazione e la disoccupazione dei cattolici irlandesi, di ingrassare i loro bambini denutriti e darli da mangiare ai ricchi proprietari terrieri anglo-irlandesi. Non so quale possa essere la strada della narrazione della crisi, tra miti e gialli, ricorrendo alle proprie radici linguistiche o praticando una forma europea. Certo, la metafora delle sette fanciulle e dei sette fanciulli dati in pasto al mostro è facilmente comprensibile coi sacrifici economici imposti: resta da capire chi sarà Teseo e quale il filo rosso di Arianna che lo guidi fuori dal labirinto.

 

* Qui in Europa quindi la situazione è rovesciata rispetto gli Stati uniti: noi non stiamo facendo esperienza della crisi, ma delle misure contro la crisi, della controcrisi. Sembra quasi la stessa cosa, ma in questo lieve slittamento c’è esattamente tutto di diverso. A partire da questa considerazione: a parte la Germania, i paesi europei, in particolare quelli dell’area mediterranea, vivevano già da tempo, da circa un decennio, che è più o meno il tempo dell’introduzione dell’euro, anche se non è solo addebitabile alla moneta unica, un periodo di stagnazione, di mancanza di crescita e sviluppo. Quello che viviamo adesso – le misure contro la crisi – non ha niente a che vedere con lo scoppio di una bolla speculativa immobiliare o di titoli tossici o con l’impazzimento dei derivati finanziari. Quello che viviamo adesso – le misure contro la crisi – non fa che stringere ulteriormente la produzione, verso la recessione. È la nostra esperienza quotidiana: se spendiamo di meno, se stiamo più attenti ai consumi, se aumentano una serie di pagamenti assolutamente improrogabili [in Grecia le tasse sulla casa arrivano insieme alle bollette del gas e della luce], ci rendiamo conto che si produrranno meno oggetti, circolerà meno denaro, ci sarà una minore distribuzione nel commercio, e che tutto questo si traduce poi in minore occupazione. La controcrisi è già la bancarotta.

Per alcuni versi – lo avanzo qui solo come una suggestione, niente di più, ma la trovo curiosa proprio mentre «The Economist» mette in copertina The rise of state capitalism – sembra che l’Unione europea vada applicando una sorta di “ricetta Eltsin”, cioè il salvataggio operato dal Fondo monetario di un’economia, quella russa, ormai fuori controllo, dopo Gorbaciov e il tentato golpe, gravata dal peso di una spesa pubblica abnorme, tagliando drasticamente le voci primarie: stipendi pubblici, pensioni, sanità, scuola, in cambio dell’introduzione di una maggiore “libertà” nel mercato del lavoro e della privatizzazione selvaggia dei beni pubblici [lì, l’energia, il gas, soprattutto]. Come in Grecia e in Romania adesso. Per una qualche ragione, nell’inner circle dei tecnici, degli incarichi pubblici europei che sono stati Ceo di grandi istituti di credito privati e viceversa, si è sedimentata una valutazione sul carattere “socialista” di quelle economie europee dove la mano pubblica aveva un peso determinante. Vale di sicuro per la Grecia, per il Portogallo, per la Spagna, per l’Italia. Queste economie fondamentalmente autarchiche sarebbero condannate al fallimento dentro la globalizzazione: di fatto, sono già stentate in quella sorta di Comecon [l’allora mercato dell’Urss e dei paesi satelliti] che è stato il mercato europeo sinora, con una nazione acchiappatutto [qui, la Germania, lì la Russia] e le altre a supporto. La storia delle quote latte tra i paesi europei, per dirne solo una, non ha nulla da invidiare alle pazzie socialiste sul grano dei kolkoz. Non è necessario avere studiato i fondamentali della scuola austriaca per convincersi che il controllo socialista dei prezzi è impossibile e deleterio. L’unica strada per “modernizzare” queste economie parasocialiste, per metterle al passo con le sfide che ci aspettano [la Cina e il Bric, per dire] sarebbe questa sorta di “ricetta Eltsin”, la liberalizzazione spinta, magari un pizzico più distribuita e monitorata, con la cosiddetta “equità”. Ora, se alcune premesse sono condivisibili [lo stallo dell’economia, la sconfitta tecnologica, l’assenza di ricerca e innovazione, il declino produttivo nascosto dal debito pubblico impazzito e da un mercato dove piccoli monopoli vengono difesi strenuamente], cioè se è ragionevole indicare nella rendita [per principio, parassitaria, statica, retrograda] la palla al piede di queste, nostre, economie, va quanto meno detto che: 1) la ricetta Eltsin è stata disastrosa, e ha finito per irrigidire l’economia russa e soprattutto la sua democrazia [che Putin chiama eufemisticamente: «democrazia guidata»] e forse varrebbe la pena riconsiderare la sua bontà: una pensione media a Mosca è salita del 8,89 percento rispetto ai primi nove mesi del 2011 per raggiungere quota 8.900 rubli al mese, cioè circa 210 euro. Fatte le debite proporzioni con il costo della vita, sembrano proprio pochini, anche se prendono 50 euro più dei rumeni. In ogni caso, la Russia ha sempre potuto contare su una riserva praticamente illimitata di materie prime, cioè di una assicurazione illimitata per qualunque prestito e di un potere di ricatto straordinario, cosa che di certo non può dirsi per le economie “minute” del Mediterraneo statalista, parasocialista; 2) la rendita ha caratteri “nazionali” e non può essere altrimenti, e da noi, in Italia, la rendita si concentra soprattutto intorno il capitale privato, il capitale immobiliare, il capitale bancario e assicurativo. Cioè, esattamente, la produzione e il credito. Se c’è davvero un’anomalia italiana è che il settore che gode maggiormente della protezione statale e pubblica è quello del capitalismo. Degli oligopoli pubblici e privati. D’altronde, proprio questa anomalia è stata per decenni motivo di un certo “vanto” nell’inner circle. La mitologia dei Beneduce, Mattioli, Cuccia, e poi tutto a scendere. Nei fatti però marchi storici italiani, industrie storiche italiane, sono già passati nelle mani del capitalismo globale. La produzione nazionale è già da tempo in dismissione.

 

* È questa affabulazione che sta dietro i governi tecnici, in Italia come in Grecia: per principio narrativo, per convenzione narrativa, essi incarnano la soluzione del problema, sono la riforma. Ma mentre negli Stati uniti, dove la crisi finanziaria è esplosa, tutte le misure hanno il segno di tentativi per alleviare lo smarrimento [la disoccupazione, il credit crunch, il calo degli ordini, lo stallo industriale], in Europa le misure, le riforme hanno preso il segno del rigore, dell’austerità, dato che la crisi, impersonalmente, ha preso il segno del debito pubblico. Non, quindi, quello di un inner circle che ha profittato – contro cui gridare: We are the 99% –, ma quello di una colpa universale. Un peccato originale trasmesso a tutta l’umanità europea. O almeno a quella cicaleccia, mediterranea.

Questo passaggio, dalla crisi finanziaria alla crisi dei debiti pubblici non ha avuto alcuna narrazione. È rimasto patrimonio della nomenklatura – mi ha colpito molto il fatto che Monti abbia detto di essere stato già informato in privato del downgrade deciso da Standard e Poor’s per l’Italia, eppure negli stessi giorni esortava in conferenza-stampa a comprare Bot –, su cui l’informazione, giornalistica perlopiù, apre lampi che rendono ancora più oscuro il buio momentaneamente squarciato.

In un certo senso ci troviamo a ripetere l’esperienza e il pensiero di Benjamin del 1936: «Mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione», anche se dovremmo aggiornare l’espressione. Così, adesso: mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle economiche contro la crisi. Rispetto alle misure contro la crisi di adesso, alla controcrisi, non c’è esperienza storica che valga, si sia più o meno innamorati convinti di Keynes o, all’opposto, di von Mises. I governi europei adottano contro la crisi misure che non hanno alcuna narrazione. Il loro arco temporale ha il valore di ventiquattr’ore o poco più, giusto il tempo tra l’apertura delle borse asiatiche e la chiusura di quelle europee, una sorta di odissey joyciana, ma invece di costruire un’epica – il New Deal rooseveltiano, per dire, è stato un’epica – si limitano a una reiterazione coattiva degli stessi meccanismi discorsivi, degli stessi dialoghi: sale lo spread col Bund, interviene la Bce sul mercato secondario, scende lo spread, la Bce rallenta, fino alle ventiquattr’ore successive. Il plot, la trama prevede solo questo acme narrativo, questo happy end: la Bce deve diventare prestatore di ultima istanza, ci vogliono gli eurobond. L’unico arco temporale in cui i governi europei intervengono è quello delle misure del rigore, che si dilata in maniera assolutamente inverosimile, con scadenze al 2027, al 2043, per le pensioni a esempio: nessuna narrazione può tenere un qualsiasi passaggio di esperienze su un futuro così discrezionale; nessun personaggio, nessuna azione può essere narrativamente credibile. Bisogna avere davvero fede nella potenza del capitalismo o nella sussistenza eterna del denaro, per accettare lo scambio – è la proposta sul tavolo in Grecia – dei bond precedenti con un concambio di nuove emissioni al valore del 50/60 percento [nella forbice, sta tutta la trattativa] le cui cedole cominceranno a scadere nel 2043. Avranno ragione loro, nel loro millenarismo, come la Chiesa cattolica crede nel purgatorio e nelle indulgenze?

 

* Eppure, la narrazione del capitalismo sembra in crisi. Sul «Financial Times», su «Policy Affairs», sul «Wall Street Journal», su «Die Zeit», sul «Guardian», su giornali popolari e riviste pensose fa ormai stabile presenza un dibattito sulla “fine del capitalismo” col punto interrogativo. Non so, a me pare una questione complessa (anche al mio amico Giancarlo, con cui al mattino presto, ormai scevri di sogni, chiacchieriamo di queste cose). Se per un verso è vero che l’opzione sul futuro sembra drammaticamente in crisi, come la capacità di programmazione che però era più propria del socialismo coi suoi piani quinquennali, ma certo anche di un’idea indefettibile del progresso, la forza del capitalismo sta nel suo spirito animale di distruzione, e quindi della possibilità della ricostruzione (con la guerra o con la crisi), nel suo ciclo. E questa – la distruzione, la scomparsa, la perdita – è sicuramente una situazione altamente narrativa. Fa parte della nostra condizione umana rimpiangere ciò che perdiamo – cui finiamo per affidare un valore nel tempo – molto più di ciò che non abbiamo ancora. La perdita del passato è una situazione fortemente drammatica più che l’assenza di futuro e l’incertezza del domani. Come pure, la conoscenza del futuro prossimo – non solamente in un “giallo” – toglie proprio ogni aura narrativa. È nel nichilismo del capitale la sua forza di narrazione, come stava tutta nell’irenico domani la debolezza delle magnifiche sorti e progressive. L’incertezza di stare al mondo, che è tutta la nostra possibilità di avere un arbitrio e un destino, è la molla del nostro desiderio: cosa potremmo mai desiderare se già conosciamo le possibilità del nostro domani? Essersi affidato tutto alla tecnica sembrava aver fatto smarrire, al capitalismo, capacità drammatica: la tecnica è per principio priva di errori e scarti, di principi di soggettività. Il crollo della tecnologia – momentaneo, certo –, anche di quella militare, o la sua riconversione riapre però la sostanza narrativa. Da questo punto di vista, il capitalismo sembra proprio in gran forma. Ma lo è, al contrario, anche dove è stato da poco scoperto. Come scrive Wolfgang Uchatius in «Die Zeit»: «La macchina capitalistica non ha prodotto solo un’opulenza apparente e a tratti oscena, ma ha anche salvato dalla povertà centinaia di milioni di cinesi, indiani, sudcoreani, vietnamiti, e brasiliani». Per loro, è proprio una grande epopea, qualcosa che tra poco i nonni racconteranno ai nipoti.

 

* La crisi e la controcrisi si sono espresse in Europa attraverso un linguaggio tecnico, specialistico. Un linguaggio specialistico può essere praticato universalmente: solo che accade attraverso una grammatica e un ricorso al dizionario che sono già prefissati, come in un manuale per il funzionamento della lavastoviglie, di cui seguendo le informazioni accluse capiamo alcune operazioni semplici ma non abbiamo la più pallida idea del perché esse dovrebbero funzionare. Le misure contro la crisi sono spiegate attraverso la forma del saggio accademico, della lectio, i numeri, i dati, le statistiche e le sequenze: non ci sono passioni, personaggi, frustrazioni, ambizioni. È questo grigiore, questa neutralità, questa tristezza che dovrebbero dare credibilità e verosimiglianza: se c’è un debito, per prima cosa vanno ridotte le spese. Non bisogna neanche essere padroni della partita doppia, per saperlo, per capirlo. La riforma del debito è così vestita di ragionevolezza, d’incontrovertibilità, dell’impossibilità della falsificazione, della mancanza di profondità e spessore, della assenza di imprevedibilità, di scarto, mentre qualsiasi esperienza che facciamo delle misure contro la crisi – la disoccupazione, la recessione, la contrazione del credito, la precarietà – assume il carattere della passione, del sentimento, della occasionalità, dell’impeto. Dell’umore. Rimane, cioè, singolare, marginale.

La catastrofe finanziaria americana – la voragine, lo smarrimento – è stata la condizione da cui l’immaginario negli Stati uniti ha sviluppato una narrazione possibile [l’industria che ritorna forte, l’insourcing, l’orgoglio di produrre americano, lo stigma dell’avidità sfrenata], e può anche avanzarsi la suggestione che abbia agito muovendosi sulle linee guida del dopo undici settembre. Mentre la catastrofe europea è un’evocazione che oscura e mette a tacere l’esperienza che quotidianamente facciamo. È una fiaba, rassicurante e terribile come le fiabe. Restano come salvezza le riforme, le misure. Pollicino, misurato, sapiente, ragionevole, nel suo disseminare sassolini, contro l’orco della crisi.

La domanda che possiamo adesso porci è: davvero non riusciamo a costruire narrazione, quindi a scambiare la nostra esperienza della voragine causata dalle misure contro la crisi? Davvero gli Stati uniti stanno ripetendo il miracolo letterario che li attraversò prima, durante e dopo la crisi del ’29 – per tutti, cito Manhattan Transfer di Dos Passos, o Sherwood Anderson – [forse pensava a quello straordinario periodo Vargas LLosa, quando nel 2009 disse che: «La crisi economica avrà almeno un effetto positivo, quello sulla letteratura»], oggi nella crisi finanziaria con linguaggi espressivi diversi e quindi una circolazione diversa, più ampia e capillare, e noi europei scambiamo lucciole per lanterne [le misure contro la crisi come fossero la salvezza, la recessione come fosse la crescita, l’austerità come fosse lo sviluppo]?

 

* «La lettura», l’inserto domenicale del «Corriere della sera», sembra farne un’imputazione alla scrittura italiana. Gli scrittori italiani si sono impantanati nel raccontare il precariato – questo più o meno dice –, ormai cucinato in tutte le salse, e non colgono l’occasione d’oro della crisi [è proprio questo il titolo dell’articolo, di Alessandro Beretta]. Suggerisce, Beretta, di cercare «altri soggetti», che so, i mutuatari di case, come fa Paul Auster utilizzando la crisi dei subprime come fondale in Sunset Park.

Ecco, questo è esattamente scambiare lucciole per lanterne. La narrazione italiana ha già parlato della crisi. Non fa altro da dieci anni. La crisi del lavoro, il precariato, nelle storie minime, nei reportage, nei testi per il teatro o nei monologhi, nei racconti d’invenzione, aveva esattamente questo senso della catastrofe per una generazione, della voragine, dello smarrimento. Che abbia scelto a volte la vena del comico o del grottesco o della sperimentazione linguistica, non cambia poi molto.

Pochi anni fa, al centro sociale Acrobax di Roma, fu lanciato un Laboratorio di scrittura sul precariato a cui parteciparono alcuni scrittori e diversi militanti, gli uni e gli altri accomunati da esperienze di vite precarie. Lo chiamammo Gra, il Grande racconto anulare, mimando il Grande raccordo anulare. Per quel che ne so, è stata l’unica esperienza – l’unico dispositivo avrebbe detto Cristian, che ne fu animatore – in cui scrittore e lettore si scambiavano e compenetravano i ruoli, l’unica cosa che in qualche modo anticipava la forma dello scambio e travaso di ruoli in Occupy Wall Street.

Perché gli scrittori italiani dovrebbero scrivere della crisi dei subprime o dei gestori degli hedge fund? Cioè, di cose americane? Le misure contro la crisi, la controcrisi, che è quello che noi viviamo, non modifica le premesse della crisi – la disuguaglianza dei redditi in una forbice sempre più larga, la concentrazione di ricchezza, l’assenza di crescita e sviluppo, la mancanza di ricerca e innovazione –, non modifica la materia narrativa finora già elaborata. La amplifica e la approfondisce. La controcrisi potrà tutt’al più precarizzare ulteriormente le nostre vite. Lo sta già facendo. O deprimere ancora di più quel po’ di produzione che facciamo: forse il libro di Edoardo Nesi – Storie della mia gente – che ha vinto lo Strega ha fatto solo da apripista. La dismissione il bel libro di Rea che raccontava la fine di un luogo industriale simbolico, l’acciaieria Ilva di Bagnoli, è del 2002. Il declino dell’impero Whiting [Empire Falls] il romanzo di Richard Russo in cui si descrive la caduta di una famiglia una volta potente, proprietaria delle industrie tessili di una zona del Maine, l’arrivo delle multinazionali, il degrado delle Empire Falls, un luogo industriale simbolico, è Pulitzer 2002. Perché Nesi o Rea avrebbero dovuto scrivere invece di subprime come Paul Auster?

 

* Per una qualche ragione che io non so spiegare, sembra che mentre negli Stati uniti in crisi si sviluppi una narrazione democratica, nell’Europa in crisi si pongano le premesse di una narrazione totalitaria. Uso questo termine con cautela: il totalitarismo è l’assenza della narrazione. Anzi, contro il totalitarismo – basti pensare all’Arcipelago Gulag o a Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn o a Primo Levi, a Bruno Schulz – può resistere solo la speranza della narrazione. Il totalitarismo è proprio la morte della narrazione, l’incapacità, l’impossibilità di comunicarsi l’esperienza.

Viviamo già in questa impossibilità?

 

Nicotera, 23 gennaio 2012

25 Gennaio, un anno da piazza Tahrir

il prossimo 25 Gennaio, anniversario della caduta di Mubarak e inizio della rivoluzione egiziana, dalle 17.00 saremo in piazzale Ostiense, in contemporanea con piazza Tahrir, con interventi al microfono, incursioni comunicative e proiezioni resistenti proprio intorno alla Piramide!

dalle 21.00 in poi ad Acrobax cena e dibattito aperto, proiezioni e collegamento con la piazza del Cairo.

 

il prossimo 25 Gennaio, anniversario della caduta di Mubarak e inizio della rivoluzione egiziana, dalle 17.00 saremo in piazzale Ostiense, in contemporanea con piazza Tahrir, con interventi al microfono, incursioni comunicative e proiezioni resistenti proprio intorno alla Piramide! e dove se no?!
dalle 21.00 in poi ad Acrobax cena e dibattito aperto, proiezioni e speriamo di riuscire a collegarci con la piazza del Cairo.
questo il link per entrambe le cose

Dalle ceneri di Alessandria. Su Anonymous e Megaupload

La rete negli ultimi 3 giorni ha vissuto un momento cruciale, come sempre succede quando deve difendere le sue liberta’ fondamentali , prima la serrata ad opera di numerosi siti, da Craiglist a Wikipedia, poi l’operazione da guerra fredda che porta in carcere il creatore e molti lavoratori della piattaforma Megaupload in tutto il mondo e infine la rabbiosa reazione di una rete gia’ in movimento con in testa Anonymous a dettare i bersagli, che gradualmente uno a uno cadono inesorabilmente.

Ma andiamo con ordine:

Il congresso sotto il ricatto delle grandi major editoriali elabora una legge (SOPA Stop Online Piracy Act) che di fatto e’ la summa di tutti i metodi possibili per censurare la rete, dal blocco degli ISP, al blocco dei DNS alla blocco dei motori di ricerca, misure che vengono applicate normalmente nei paesi arabi in rivolta nel tentativo di spegnere la comunicazione online o che vengono utilizzate in Cina e in Russia per censurare l’informazione.

A questa proposta la rete ha risposto massicciamente sia in termini di semplici cittadini sia con la presa di posizione di grandi gruppi commerciali e di informazione come Wikipedia (che ha serrato il sito per un giorno intero), Facebook (che ha preso parola per bocca del suo creatore) e Google (che ha esposto un banner di protesta antiSOPA su google.com); si calcola che oltre 200 milioni di visitatori unici in tutto il mondo nella sola giornata del 18/01 abbiano visto e si siano informati riguardo alla protesta e congiuntamente a un’opera di pressione sul congresso USA ha portato al ritiro di numerosi membri del congresso dal supportare la legge e alla conseguente procrastinazione in data da definirsi.

La reazione a questa ennesima (ma in ogni caso momentanea) sconfitta e’ stata evidentemente scomposta, l’FBI infatti per il giorno 19/01 lancia una fitta campagna di arresti indirizzati al proprietario della piattaforma di Megaupload e a diversi suoi dipendenti sparsi per il mondo con accuse che superano i 50 anni di carcere e che vanno dal riciclaggio all’estorsione. Megaupload e Megavideo vengono oscurati.

Oltre la solidarietà per persone che stanno rischiando decenni di galera e che vengono arrestate con mandati internazionali dalla Nuova Zelanda alla Lettonia semplicemente perché avevano un sito di hosting, non c’è particolare simpatia per Kim “dotcom” Schmidzt, ultramilionario e fanatico delle macchine, il punto è un altro ed è quello che farà scattare la rappresaglia della rete.

Il punto è che le piattaforme di hosting per quanto private, per quanto speculative, per quanto eticamente meno giustificabili per lo sharing (non sono p2p sono in direct download) sono dei magazzini, dei magazzini dove gli utenti mettono quello che vogliono, dalle foto del compleanno della nonna all’ultima puntata del dottor House sottotitolata in ceceno.

Chi carica materiale protetto sa, forse a cuor leggero ma lo sa, che sta commettendo un’infrazione, che può essere perseguito e che il suo materiale se scoperto verrà cancellato; in ogni caso è intenzionato a poter condividere una sua distribuzione di un gioco, di un film appena uscito, di un crack per un programma costoso, i motivi di queste intenzioni sono molteplici vanno dall’autogratificazione alla coscienza che le opere di intelletto debbano essere libere e accessibili, quale che sia la motivazione, la loro utilita’ per chi non ha i soldi per andare al cinema 3 volte al mese, comprarsi sky per vedere un telefilm, comprare 10 giochi l’anno etc. e’ immensa .

Tornando a megaupload la sua piattaforma conteneva il 5% dei contenuti online dell’intera internet, era visitata da milioni di persone quotidianamente sia per motivi legali che per quelli considerati “illegali” e la sua messa offline per colpa di un governo asservito alle major discografiche, editoriali e cinematografiche priva il mondo di una biblioteca di contenuti globali frutto di 6 anni di accumulazione.

Tutto quel materiale oggi, dalle foto della tua vacanza all’ultimo football manager e’ nelle mani dell’FBI, tutto quel materiale è stato sequestrato dai magazzini personali e requisito aldilà di prove di illegalità. Non si tratta quindi di difendere l’investitore, il proprietario, o il pubblicitario che c’è dietro megaupload, si tratta come al solito di difendere i propri spazi di libertà nella rete, è quindi la solita vecchia guerra contro chi vorrebbe fare di internet strumenti di controllo e di commercio contro chi invece vuole che la rete diventi definitivamente quello per cui è nata cioè uno strumento di condivisione e di comunicazione libera.

Per questo 15 minuti dopo il comunicato di megaupload la rete ha risposto con il più grande attacco della sua storia, per questo il collettivo anonymous è riuscito con il solito successo a colpire più bersagli in poche ore.

Decine di migliaia di persone nel mondo hanno dato il loro supporto,in migliaia hanno azionato LOIC, in milioni hanno condiviso i bersagli twittandoli e hanno incitato alla rappresaglia esultando quando un sito dopo l’altro cadeva; i bersagli erano le industrie musicali (universalmusic.com) i consorzi editoriali (mpaa.org e riaa.com) e i siti governativi (copyright.gov, justice.gov) e infine l’odiata FBI (fbi.gov) che nel 2011 ha arrestato un numero di attivisti impressionante con accuse per centinaia di anni di carcere e con una condotta che non differisce troppo dalle polizie presidenziali dei paesi arabi in rivolta.

Oggi 20/01 l’operazione #OpMegaupload continua mentre scriviamo :

#Anonymous reports that justice.govt.nz and shop.mgm.com are Tango Down in continuing #OpMegaUpload

Ma un attacco ddos non basta e come giustamente dice Anonymous:

Questo non è solamente un richiamo collettivo di Anonymous a darci da fare. Cosa può mai risolvere un attacco DDoS? Che cosa può essere attaccare un sito rispetto i poteri corrotti del governo? No. Questo è un richiamo per una protesta di grandezza mondiale sia su internet che nella vita reale contro il potere. Diffondete questo messaggio ovunque. Non possiamo tollerare quello che sta succedendo. Ditelo ai vostri genitori, ai vostri vicini, ai vostri colleghi di lavoro, ai vostri insegnati e a tutti coloro con i quali venite in contatto.Tutto quello che stanno facendo riguarda chiunque desideri la libertà di navigare in forma anonima, parlare liberamente senza paura di ritorsioni, o protestare senza la paura di essere arrestati. Andate su ogni rete IRC, su tutti i social network, in ogni community on-line e dite a tutti l’atrocità che sta per essere commessa. Se protestare non sarà abbastanza, gli Stati Uniti dovranno vedere che siamo davvero una legione e noi dovremo unirci come una sola forza opponendoci a questo tentativo di censurare Internet ancora una volta, e nel frattempo scoraggiare tutti gli altri governi dal tentare ancora. Noi siamo Anonymous. Noi siamo una legione. Non perdoniamo la censura. Non dimentichiamo la negazione dei nostri diritti come esseri umani liberi. Questo è per il governo degli Stati Uniti. Dovevate aspettarvi la nostra reazione.”

http://www.youtube.com/watch?v=Smb-cFSDXrw

 

 

7 Gennaio: nessuno spazio ai fascisti

La crisi che il sistema capitalistico attraversa e che i padroni stanno riversando contro le condizioni di vita di sfruttate e sfruttati, con le politiche di taglio ai servizi sociali (istruzione, sanità, previdenza), con la riduzione dei salari e delle pensioni (trasformate in un miraggio per milioni di lavoratori e lavoratrici), con l’aumento delle tasse e delle tariffe, produce, almeno in potenza, istanze di lotta contro lo stato di cose presenti.

Il padronato al fine di reprimere e controllare questi movimenti sociali utilizza innumerevoli strumenti: i CIE per ricattare lavoratori e lavoratrici immigrate, la chiesa contro i comportamenti “non conformi”, la polizia e l’esercito nei quartieri, i fascisti come ulteriore strumento di repressione.

Per questo la lotta antifascista è lotta anticapitalista.

Per questo il 7 gennaio:

Non possiamo permettere che chi semina idee razziste, xenofobe ed omofobe attraversi tranquillamente la città senza una risposta concreta e forte da parte dei movimenti antifascisti.

Non possiamo permettere che dopo neanche un mese dall’uccisione a Firenze dei due ragazzi senegalesi, Samb Modou e Diop Mor, da parte di un militante fascista, i suoi camerati scendano in piazza. Loro sono responsabili morali e fisici di quell’assassinio e le loro mani grondano ancora sangue.

Non possiamo permettere che al famoso campeggio di Subiaco che ha “riunito” vecchi, nuovi e futuri fascisti venga data continuità consentendo loro di marciare per la capitale medaglia D’oro alla Resistenza.

Non possiamo permettere a questi personaggi amici e “camerati” di stragisti, assassini e criminali di guerra di restare tranquilli nelle loro sedi e nei loro covi ben protetti e scortati dalla polizia.

Non possiamo permettere e non tollereremo oltre le loro aggressioni a compagni, compagne e in generale a chi vedono come “diverso”, gli agguati agli spazi occupati e liberati, gli assalti ai campi nomadi e gli omicidi di migranti di cui si sono resi protagonisti negli ultimi tempi come in passato.

Il 7 gennaio sfilerà per Roma nel quartiere Appio-Tuscolano una marcia nazionale neofascista spalleggiata dal sindaco Alemanno.

Presidio antifascista Sabato 7 Gennaio dalle ore 16:00 davanti al Comitato di Quartiere dell’Alberone, via Appia Nuova 357.

Con Samb Modou, Diop Mor e tutti i compagni e le compagne assassinat* nel cuore.

ANTIFASCISTE E ANTIFASCISTI DI ROMA

San Precario appare (e rimane) nella sede Inps dopo lettera aperta al ministro del welfare Elsa Fornero


Apparizione di San Precario all’Inps. Il giorno dopo:

Dall’occupazione dell’inps nelle giornate del natale precario: appuntamento pubblico 23 dicembre difronte all’inps, via dell’amba aradam 5, ore 16. Prendiamo parola davanti alla sede dell’inps dove l’apparizione di san precario ha posto la questione del futuro pensionistico ai tempi della manovra “lacrime e sangue” del governo Monti. Alla richiesta di un incontro con il ministro del welfare Elsa Fornero su nuovi diritti per le generazioni precarie – primo tra tutti un reddito garantito – non c’e’stata risposta ma solo il pesante silenzio simbolo degli ulteriori sacrifici che ci attendono.

22 Dicembre 2011. Natale Precario.

 

San Precario all’ INPS – Roma 22 dicembre 2011 from manuel fantoni on Vimeo.

San Precario, nella giornata OccupyChristmas, con un centinaio di devoti è apparso alla sede INPS di via dell’ Amba Aradam 5 a Roma.

Scopo dell’apparizione era la consegna della lettera del Santo dei precari alla piangente Ministra del Lavoro e del Welfare Elsa Fornero.
La processione ha raggiunto il 5° piano dell’edificio, ma della Ministra nessuna traccia e sembra proprio che di confrontarsi con il Santo più Santo d’ Italia non ne voglia sapere.
I devoti hanno attesola contro-apparizione del Direttore Generale dell’Inps Mauro Nori per capire le possibilità di incontro con la Ministra preannunciando che sono disposti all’occupazione ad oltranza. Digos e polizia hanno fatto il loro gioco nell’alzare la tensione nonostante l’azione fosse in uno dei luoghi che ha in mano la sopravvivenza mensile di migliaia di pensionati colpiti duramente dall’iniqua manovra del governo dove brillano le idee della Fornero.

I devoti stanno invitando precari e non a raggiungere il Santo in via dell’Amba Aradam

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Ore 22:00

San Precario e devoti al 5° piano della sede dell’Inps di Via dell’Amba Aradam 5 a Roma.

Dopo un pomeriggio a trattare per poter consegnare alla Ministra Fornero la lettera a lei indirizzata di San Precario (qui in calce) hanno avuto un incontro con il Direttore Generale dell’ Ente Mauro Nori.

L’incontro è avvenuto dopo una intensa giornata dove digos e polizia hanno fatto il loro gioco nell’alzare la tensione quando l’azione era in uno dei luoghi che ha in mano la sopravvivenza mensile di migliaia di pensionati colpiti duramente dall’iniqua manovra del governo dove brillano le idee della Fornero.

I devoti che mai vedranno pensione, così come mai hanno visto un contratto a tempo indeterminato, hanno ottenuto di continuare l’occupazione del piano e di credere alla parola data dal Direttore Generale nel farsi tramite con la Fornero assicurando di base la consegna della missiva di San Precario.

Buona notte precaria al Santo dei Precari, buona notte precaria ai devoti.

Appuntamento a domani

Ore 22:40

Dall’occupazione dell’inps nelle giornate del natale precario: appuntamento pubblico difronte all’inps, via dell’amba aradam 5, ore 16. Prendiamo parola davanti alla sede dell’inps dove l’apparizione di san precario ha posto la questione del futuro pensionistico ai tempi della manovra “lacrime e sangue” del governo Monti. Alla richiesta di un incontro con il ministro del welfare Elsa Fornero su nuovi diritti per le generazioni precarie – primo tra tutti un reddito garantito – non c’e’stata risposta ma solo il pesante silenzio simbolo degli ulteriori sacrifici che ci attendono.

Infoweb su tutte le azioni occpyXmas: www.sciperoprecario.org – www.precaria.org

ARTICOLI

REPUBBLICA

http://roma.repubblica.it/cronaca/2011/12/22/news/precari-27077302/

CORRIERE (Foto)

http://roma.corriere.it/foto_del_giorno/home/index_20111223.shtml

PAESE SERA

http://www.paesesera.it/Societa/Devoti-di-San-Precario-occupano-la-sede-dell-Inps

AGENZIE

INPS, «SAN PRECARIO» IN SEDE CHIEDE INCONTRO CON FORNERO: PRONTI A OCCUPARE

(OMNIROMA) Roma, 22 DIC – «Oggi 22 dicembre ‘San Precariò con un centinaio di devoti è apparso alla sede Inps di via dell’Amba Aradam 5 a Roma. Scopo dell’apparizione era la consegna della lettera del Santo dei precario alla piangente Ministra del Lavoro e del Welfare Elsa Fornero. La processione ha raggiunto il 5° piano dell’edificio, ma della Ministra nessuna traccia e sembra proprio che di confrontarsi con il Santo più Santo d’ Italia non ne voglia sapere. Si sa: scherza coi fanti ma lascia stare i santi e infatti scatta l’occupazione del piano e così appaiono in forze gli angeli custodi della celere con Digos a seguito. I devoti sono in attesa della contro-apparizione del Direttore Generale dell’Inps per capire le possibilità di incontro con la Ministra preannunciando che sono disposti all’occupazione ad oltranza se la Fornero non si da disponibile a ricevere i devoti. I devoti inoltre stanno invitando precari e non a raggiungere il Santo in via dell’Amba Aradam». COsì in una nota i precari di «San Precario».

WELFARE: PRECARI OCCUPANO INPS ROMA, MINISTRO PARLI CON NOI (ANSA)

ROMA, 22 DIC – Decine di attivisti del movimento ‘San Precariò hanno occupato il quinto piano negli uffici della sede centrale dell’Inps a Roma, in via dell’Amba Aradam, nelal zona di San Giovanni. Gli occupanti chiedono di parlare con il ministro del Welfare, Elsa Fornero e protestano «contro il passaggio generalizzato al sistema contributivo anche per gli iscritti alla gestione separata dell’Inps». I manifestanti sono entrati nell’edificio riuniti in una sorta di «processione per la consegna della lettera del Santo dei precari alla piangente Ministra del Lavoro e del Welfare Elsa Fornero». «Cara Ministro – si legge nel testo della lettera – Lei sa benissimo che oggi i cosiddetti lavoratori parasubordinati, coloro che sono iscritti alla gestione separata, tengono in attivo i conti dell’Inps. Secondo le previsioni, l’ammontare medio di una pensione a gestione separata Š di 1570 euro l’anno, 130 euro al mese». «Come sa bene anche che i collaboratori a progetto non usufruiscono di alcun ammortizzatore sociale – aggiunge la lettera – se non nella ridicola formula dell’una tantum sperimentata dal precedente Governo. Con il passaggio generalizzato al sistema contributivo noi, intere generazioni di ‘intermittentì, non avremo mai una vecchiaia sostenuta da un reddito minimamente degno».

MANOVRA: PRECARI OCCUPANO INPS ROMA, ‘MINISTRO FORNERO CI INCONTRI

Roma, 22 dic. – (Adnkronos) – Un gruppo di attivisti del movimento ‘San Precariò ha occupato il quinto piano della sede dell’Inps di dell’Amba Aradam a Roma. I manifestanti, che chiedono un incontro con il ministro del Welfare, Elsa Fornero, si dicono pronti a proseguire l’occupazione ad oltranza. «Siamo precarie e precari. Nel lavoro. Nel reddito. Nel welfare. Nei diritti. Negli affetti. Nelle tutele. Nell’accesso ai saperi ed ai consumi. Nell’esercizio della cittadinanza. Nei sogni, nel tempo. Siamo precari e precarie e – si legge nella lettera indirizzata al ministro – non lo abbiamo scelto. Siamo i milioni di collaboratrici e collaboratori a progetto, partite iva, interinali, stagiste e stagisti, lavoratrici e lavoratori in affitto. Siamo il motore di un’economia in crisi ed al contempo i primi soggetti sacrificabili». «Non vogliamo tutele contrapposte a quelle di altri – si legge ancora nella lettera – vogliamo rispetto, solidarietà e libertà comune. Il reddito che voi immaginate minimo e per sostenere la libertà di licenziarci, noi lo vogliamo di base, universale e incondizionato, lavoro o non lavoro, per sostenere la libertà di scelta sulle nostre vite. Ci siamo interrogati a lungo sul significato delle Sue lacrime, cara Ministro. Ma la sola cosa che sappiamo, al momento, è quel che fa la differenza: ci sono lacrime, pietistiche e paternalistiche, compatibili col sacrificio dei nostri diritti e dei nostri sogni; e ce ne sono altre scomode, di rabbia, furore e gioia, che non hanno cittadinanza». (Asc/Ct/Adnkronos)

 

LETTERA APERTA

Perchè piange il Ministro del Welfare? Occupy Christmas #2 from Penelope on Vimeo.

Spett. Ministro del Lavoro e del Welfare

Dr.ssa Elsa Fornero

Siamo precarie e precari. Nel lavoro. Nel reddito. Nel welfare. Nei diritti. Negli affetti. Nelle tutele. Nell’accesso ai saperi ed ai consumi. Nell’esercizio della cittadinanza. Nei sogni, nel tempo.

Siamo precari e precarie e non lo abbiamo scelto.

Siamo i milioni di collaboratrici e collaboratori a progetto, partite iva, interinali, stagiste e stagisti, lavoratrici e lavoratori in affitto. Siamo il motore di un’economia in crisi ed al contempo i primi soggetti sacrificabili.

Ci può incontrare ovunque: nei call center, nelle agenzie strumentali dei vostri Ministeri, nelle università, nei centri di ricerca, nelle scuole, nei supermercati, nei giornali e nell’editoria, nelle corsie degli ospedali e nelle caserme dei vigili del fuoco. Non esistono luoghi in cui non siamo presenti, perché siamo il frutto delle politiche “per lo sviluppo e l’innovazione” e delle “riforme” del mercato del lavoro realizzate negli ultimi quindici anni da chi ci ha governato e ci governa.

Siamo donne alle prese con una parità di genere tutta apparente, senza tutele, a partire dalla maternità; siamo migranti che sotto il ricatto del permesso di soggiorno legato al contratto di lavoro contribuiamo al benessere di questo paese, pagando pensioni che non avremo mai, partecipando ad un sistema che non ci vuole cittadini, mentre un’aria pesante e razzista arma le mani più brutali. Siamo giovani e meno giovani, intere generazioni precarie costrette a vivere un presente dilatato che non permette di progettare il futuro: giovanissimi diplomati e laureate in un sistema di istruzione e formazione martoriato, vissuti all’ombra della retorica della meritocrazia ma senza un lavoro degno di questo nome; ultra 40enni, iperqualificati e supertitolati, spesso madri e padri di famiglia, costretti a cercare altrove il nostro destino; gli over 50, i reietti, quelli che il mercato del lavoro una volta espulsi considera “vuoti a perdere”.

I nostri figli nascono già precari: per via del debito, del futuro oscuro e di un globo che non sa se sopravvivrà ai prossimi anni.

La crisi ha fatto esplodere la precarietà, rendendo incerto il presente anche dei cosiddetti lavoratori “garantiti”. Noi che eravamo le giovani e i giovani in difficoltà abbiamo visto i nostri padri e le nostre madri diventare precari come noi, rischiare di essere licenziati a più di 50 anni e di vedere le loro pensioni sempre più lontane e sempre più misere.

E se una crisi iniziata 4 anni fa e negata nel corso degli ultimi 2 anni è stato il frutto avvelenato del governo Berlusconi e dei suoi ministri “nani e ballerine”, questo governo è certamente più serio e preparato. Lo è talmente tanto che riuscirà ad imporre per l’ennesima volta ricette fondate sul presupposto che il mercato (anzitutto finanziario) è sovrano e le nostre vite al suo servizio.

E noi, precari e precarie, continuiamo ad avere contratti di ogni tipo, con l’unica garanzia di uno sfruttamento costante ed un debito, condiviso con tutti i cittadini e le cittadine del nostro paese. Un debito chiaramente non nostro, che ci chiedono di pagare per soddisfare gli appetiti insaziabili di una divinità onnipotente e dagli umori incostanti: il mercato,  appunto, che sembra placarsi solo con sacrifici umani.

Per noi non sono previste che briciole di uno stato sociale sempre più ridotto all’osso. Altro che workfare: WorkFear, un welfare fatto solo di paura messa al lavoro!

Il Governo Monti, il Suo Governo, si è dato come prossimo impegno quello di convocare un tavolo “con le parti sociali al fine di riordinare il sistema degli ammortizzatori sociali e degli istituti di sostegno al reddito e della formazione continua”.

Cara Ministro, Lei sa benissimo che oggi i cosiddetti lavoratori parasubordinati, coloro che sono iscritti alla gestione separata, tengono in attivo i conti dell’INPS. Secondo le previsioni, l’ammontare medio di una pensione a gestione separata è di 1570 euro l’anno, 130 euro al mese. Come sa bene anche che i collaboratori a progetto non usufruiscono di alcun ammortizzatore sociale, se non nella ridicola formula dell’una tantum sperimentata dal precedente Governo. Con il passaggio generalizzato al sistema contributivo noi, intere generazioni di “intermittenti”, non avremo mai una vecchiaia sostenuta da un reddito minimamente degno. Dopo aver fatto i conti quotidianamente con la giungla della precarietà, passeremo la seconda parte della nostra vita a fare i conti con i deserti della povertà. La riconfigurazione dell’attuale sistema degli ammortizzatori sociali, iniquo ed arretrato, passando per la riforma del sistema previdenziale, creerà inoltre un inevitabile conflitto generazionale.

Non vogliamo tutele contrapposte a quelle di altri, vogliamo rispetto, solidarietà e libertà comune.

Il reddito che voi immaginate minimo e per sostenere la libertà di licenziarci, noi lo vogliamo di base, universale e incondizionato, lavoro o non lavoro, per sostenere la libertà di scelta sulle nostre vite.

Ci siamo interrogati a lungo sul significato delle Sue lacrime, cara Ministro.

Ma la sola cosa che sappiamo, al momento, è quel che fa la differenza: ci sono lacrime, pietistiche e paternalistiche, compatibili col sacrificio dei nostri diritti e dei nostri sogni; e ce ne sono altre scomode, di rabbia, furore e gioia, che non hanno cittadinanza.

Noi precarie e precari, che distribuiamo quotidianamente ricchezza sociale ad un paese che la utilizza non certo per il nostro benessere, il nostro futuro e la nostra felicità, noi “l’Italia peggiore,” oggi riprendiamo la parola sul lavoro, sul reddito, sugli ammortizzatori sociali, sul sistema pensionistico, sulla maternità/paternità, sul welfare, sul modello di sviluppo, sulla vita.

Cordialmente,
San Precario

Fronte del Porto. Manifestazione venerdi 23 dicembre

dalle caserme, all’acqua, ai trasporti… GOOD BUY ROMA!

In via del Porto Fluviale 12 c’è un enorme palazzo che fu un deposito merci del ministero della difesa. Dopo anni di abbandono è stato occupato, quasi nove anni fa, da centinaia di persone in grave emergenza abitativa che con tanto lavoro lo hanno trasformato in altrettante case e ne hanno fatto un luogo accogliente per sé, per le proprie famiglie e per tutti coloro che hanno avuto la fantasia e la curiosità di affacciarsi alla sala da thè, ad una mostra d’arte, una serata di musica dal vivo, ai corsi di cucina dal mondo, alle feste per grandi e bambini o al cineforum.
Con la delibera n°8/2010 del Comune di Roma, questa e altre 14 strutture tra caserme e forti (Boccea, Pietralata, Bravetta, Papareschi…) vengono fatte oggetto di un accordo tra Comune e Ministero della Difesa per la messa in vendita e il contestuale cambio di destinazione d’uso di questo patrimonio per risanare le casse di un ministero come quello della Guerra che non conosce crisi e vergogna.
Si tratta di un patrimonio inestimabile fatto di ettari ed ettari di terreno libero nel cuore della città nonché strutture appena dismesse che potrebbero essere immediatamente utilizzabili per i tanti bisogni di servizi e spazi pubblici in una metropoli sempre più cara, congestionata ed inaccessibile come questa in cui viviamo. La vendita delle caserme si va a sommare alle conseguenze del Piano “regalatore” di cemento, alle speculazioni che sono via via calate sulla città dai mondiali di nuoto, alle torri dell’ex ministero delle finanze all’eur o l’ex Fiera di Roma… fino al prossimo pacchetto da 35 delibere di deroghe urbanistiche che il Comune di Roma si appresta ad approvare.
Con il Governo Monti, paladino dell’austerity per tutti tranne che per palazzinari e banchieri, tornano alla ribalta i processi di dismissione del patrimonio pubblico: evidentemente il fallimento delle cartolarizzazioni volute da Tremonti che a tutti noi è costato 1,7 miliardi di euro per qualcun altro ha rappresentato un’occasione di lucro che è pronto a replicare.
Accettare la S –VENDITA (perché per il Comune si tratta proprio di due spicci) significa per l’ennesima volta permettere che la crisi economica e di sistema venga usata come grimaldello per l’attacco ai diritti e ai beni comuni a vantaggio dei profitti di pochi e di una crescente e permanente diseguaglianza sociale: dall’acqua controllata dall’Acea di parentopoli e che si oppone al nettissimo risultato referendario per l’acqua pubblica, dall’Atac che da un lato precarizza i lavoratori e dall’altro aumenta ad 1,50 euro il prezzo del biglietto, dalla sanità con ospedali, consultori e ASL che chiudono, al diritto all’abitare in una città con periferie sempre più estese e affitti improponibili, dalla formazione di ogni ordine e grado fino alla gestione dei rifiuti ostaggio dei soliti noti che ostacolano la scelta della raccolta differenziata e del riuso.

Ma ROMA NON E’ IN VENDITA!

 Per questo invitiamo chi nel territorio dell’11° Municipio e nella città tutta si batte contro questo nuovo sacco di Roma e per difendere diritti, spazi pubblici e beni comuni, a ritrovarsi in questa piazza del “Natale Precario”. Dai comitati per l’acqua pubblica, ai comitati NoPup, ai movimenti per il diritto all’abitare, ai comitati che si battono contro il business delle discariche e degli inceneritori, fino a chiunque vuole conquistare e costruire un’altra città libera dalle speculazioni e dai palazzinari, a chiunque crede che riprendersi la città vuol dire anche ribellarsi alla crisi ed alla precarietà in cui vengono sempre più ingabbiate le nostre vite.
 
VENERDI’ 23 DICEMBRE
dalle ore 16.00
Piazza Enrico Fermi alias Piazza del Natale Precario
 
comunic –azione – giochi contro la crisi – teatro – musica
 
dalle ore 18.00 ASSEMBLEA PUBBLICA
voci contro la precarietà e le privatizzazioni
Promuovono: ABITANTI DEL PORTO FLUVIALE – COORDINAMENTO CITTADINO DI LOTTA PER LA CASA